Si può essere responsabili per fatti analoghi

La normativa che tutela un dipendente che segnala condotte illecite di cui è venuto a conoscenza in ragione delle proprie mansioni è “finalizzata ad impedire conseguenze sfavorevoli per il fatto in sé di avere segnalato illeciti, ma certamente non costruisce esimenti rispetto agli illeciti che la medesima persona avesse in ipotesi autonomamente ed altrimenti commesso, da sola o in concorso”. È quanto affermato dalla Corte di Cassazione con ordinanza n. 9148 del 31 marzo 2023. La vicenda trae origine da una sospensione disciplinare comminata ad una infermiera in servizio presso una Azienda Ospedaliera del settore pubblico, che per otto anni aveva svolto attività lavorative presso ente privato in assenza di alcuna autorizzazione da parte della datrice di lavoro. Nell’ambito del giudizio di merito, la Corte d’Appello di Roma, confermando la pronuncia del Tribunale adito in primo grado e rigettando l’impugnazione della sanzione in applicazione dell’ari. 54-bis del d.lgs. 165/2001- ossia della tutela prevista in caso di segnalazione di illeciti di cui si è avuto conoscenza in ragione delle mansioni svolte (la lavoratrice aveva, infatti, denunciato al datore di lavoro il comportamento analogo di altri colleghi) – rilevava il fatto che la stessa essendosi resa a sua volta responsabile di condotte analoghe non poteva certo beneficiare delle tutele invocate. Avverso tale decisione la dipendente proponeva ricorso innanzi alla Corte di Cassazione cui resisteva l’Ente. Con l’unico motivo di ricorso con il quale la ricorrente ha denunciato la violazione ed erronea applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, articolo 54-bis, in quanto l’unico caso di responsabilità del segnalante sarebbe quello in cui la segnalazione integri una ipotesi di calunnia o diffamazione. La Corte di Cassazione – nel confermare la valutazione dei giudici di appello — ha chiarito che la funzione del summenzionato art. 54-bis è quella di impedire che il dipendente che effettui una segnalazione possa essere sanzionato, licenziato o comunque sottoposto a misure discriminatorie per motivi connessi, anche indirettamente, alla segnalazione.

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Con ordinanza n. 8375 dello scorso 23 marzo 2023, la Corte di Cassazione ha confermato l’utilizzabilità delle riprese degli impianti di videosorveglianza installati per finalità di sicurezza a dimostrazione di un
inadempimento disciplinare di un dipendente.

Il fatto affrontato e il giudizio di merito
La vicenda processuale trae origine da una sanzione disciplinare di sospensione dal servizio e dalla retribuzione per dieci giorni comminata ad un educatore professionale per aver afferrato con forza uno studente per la maglietta e, dopo aver lasciato la presa, averne causato la sua caduta a terra. L’educatore, inoltre, “mentre l’allievo […] comunicava alla madre l’accaduto […]” si rivolgeva a quest’ultima “in
modo ineducato utilizzando toni decisamente accesi”.
Il fatto veniva ripreso tramite l’impianto di videosorveglianza installato dall’Ente – datore di lavoro dell’educatore – presso i locali dello stesso e le registrazioni utilizzate per la contestazione del fatto illecito. <

L’educatore, nel richiedere l’annullamento del provvedimento disciplinare, contestava, tra le altre, l’utilizzo delle riprese del sistema di videosorveglianza per fini disciplinari.
Nell’ambito del giudizio di merito, la Corte d’Appello rigettava la richiesta di annullamento della sanzione e, in accoglimento dell’appello proposto dall’educatore, riformava la sentenza di primo grado rideterminando la sanzione in una multa di tre ore.
L’educatore proponeva ricorso innanzi alla Corte di Cassazione cui resisteva l’Ente con controricorso.

La decisione assunta dalla Suprema Corte

La Corte di Cassazione – nel confermare la pronuncia di merito – ha affermato la legittimità dell’utilizzo delle riprese del sistema di videosorveglianza ai fini della contestazione di un inadempimento disciplinare di un dipendente.
Nel rilevare la mancanza di difetti di (i) illustrazione delle ragioni – di fatto e di diritto – sulla quale è stata fondata la decisione di merito ovvero di (ii) esplicitazione del percorso logico / giuridico seguito dalla Corte territoriale, la Suprema Corte ha confermato la legittimità della valutazione delle riprese
del sistema di videosorveglianza effettuata dai giudici di seconde cure che hanno, tra le altre, “argomentato le ragioni di utilizzabilità [delle riprese], in concorso con gli altri elementi
istruttori scrutinati”.
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Con ordinanza n. 8375 dello scorso 23 marzo 2023, la Corte di Cassazione ha confermato l’utilizzabilità delle riprese degli impianti di videosorveglianza installati per finalità di sicurezza a dimostrazione di un inadempimento disciplinare di un dipendente.

Il caso affrontato

La vicenda nasceva da una sanzione disciplinare di sospensione dal servizio e dalla retribuzione per dieci giorni comminata ad un educatore professionale per aver afferrato con forza uno studente per la maglietta e, dopo aver lasciato la presa, averne causato la sua caduta a terra. L’educatore, inoltre, “mentre l’allievo […] comunicava alla madre l’accaduto […]” si rivolgeva a quest’ultima “in modo ineducato utilizzando toni decisamente accesi”.

Il fatto veniva ripreso tramite l’impianto di videosorveglianza installato dall’Ente – datore di lavoro dell’educatore – presso i locali dello stesso e le registrazioni utilizzate per la contestazione del fatto illecito. L’educatore, subito il provvedimento disciplinare, nel richiederne l’annullamento contestava, tra le altre, l’utilizzo delle riprese del sistema di videosorveglianza per fini disciplinari.

Nell’ambito del giudizio di merito, la Corte d’Appello rigettava la richiesta di annullamento della sanzione e, in accoglimento dell’appello proposto dall’educatore, riformava la sentenza di primo grado rideterminando la sanzione in una multa di tre ore.

L’educatore proponeva ricorso innanzi alla Corte di Cassazione cui resisteva l’Ente con controricorso.

La decisione assunta dalla Suprema Corte

La Corte di Cassazione – nel confermare la valutazione dei giudici di seconde cure – ha affermato la legittimità dell’utilizzo delle riprese del sistema di videosorveglianza ai fini della contestazione di un inadempimento disciplinare di un dipendente.

Nel caso di specie, l’impianto di videosorveglianza era stato installato nel rispetto delle garanzie previste dalla vigente normativa:

  • le telecamere erano state installate per esigenze di sicurezza sul lavoro – anche alla luce del fatto – rileva la Cassazione – che erano orientate verso spazi “accessibili anche a personale non dipendente e non deputati ad accogliere postazioni di lavoro“;
  • era stato sottoscritto un accordo sindacale così come previsto dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori.

In aggiunta a ciò, erano stati esaminati anche elementi quali la proporzionalità della sanzione comminata rispetto al fatto illecito commesso, oltre al fatto che al lavoratore era stato consentito l’esercizio di un suo diritto di difesa.

Nell’ambito di tutte queste valutazioni, l’utilizzabilità delle riprese del sistema di videosorveglianza è stato quindi un elemento supplementare ritenuto legittimo.

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Il punto su controlli datoriali, provvedimenti disciplinari e diritto alla riservatezza (Norme & Tributi Plus Diritto – Il Sole 24 Ore, 20 dicembre 2021 – Alberto De Luca, Martina De Angeli)

L’applicabilità di un regime esente richiede che sia fornita la prova rigorosa, a carico del contribuente, circa la sussistenza di tutti i presupposti fattuali per il configurarsi di fattispecie risarcitorie del danno emergente.

La Corte di Cassazione, sezione tributaria, con ordinanza n. 8615 del 27 marzo 2023 è tornata a esaminare il delicato argomento del regime di tassazione applicabile al risarcimento dovuto in relazione al demansionamento subito dal lavoratore o dalla lavoratrice.

Il caso sul quale è stata chiamata a pronunciarsi la Corte è relativo ad un contenzioso tra l’Agenzia delle Entrate e una lavoratrice che, nell’ambito di un giudizio per demansionamento, ha raggiunto un accordo stragiudiziale con il datore di lavoro che le ha corrisposto una somma a titolo di “risarcimento del danno morale, professionale e biologico“.

L’Agenzia delle Entrate, non essendoci distinzione tra le voci risarcitorie, ha applicato le trattenute Irpef sull’importo percepito dalla lavoratrice, la quale, dunque, ha agito in giudizio per richiederne il rimborso. La Commissione Tributaria Provinciale ha respinto il ricorso della lavoratrice mentre la Corte Territoriale Regionale ha riformato la decisione accogliento l’istanza contro l’Agenzia delle Entrate, dichiarando il regime di esenzione applicabile alle somme oggetto di esame.

In tema di tassazione dei redditi di lavoro o simili, il Testo unico delle imposte sui redditi n. 917/1986 (“TUIR”) identifica la categoria dei redditi sostitutivi dei redditi di lavoro dipendente. L’art. 6, comma 2, del TUIR dispone che costituiscono redditi, della stessa categoria di quelli sostituiti e/o perduti, indipendentemente dal titolo che determina l’erogazione: (i) i proventi conseguiti in sostituzione di redditi, anche per effetto di cessione dei relativi crediti; (ii) le indennità conseguite, anche in forma assicurativa, a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi, esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte.

La ratio del dettato normativo risiede nel doversi considerare imponibili solo quei compensi, emolumenti o risarcimenti che abbiano prodotto un arricchimento in capo al soggetto.

A tale scopo si distingue tra (i) lucro cessante, ossia il mancato guadagno al quale è riconosciuto l’appartenenza alla stessa categoria dei redditi sostituiti o perduti (ex art. 6, comma 2, TUIR); (ii) danno emergente, ossia la ricostituzione del mero patrimonio, cioè il risarcimento volto a coprire la perdita economica e non a sostituire il reddito non realizzato.

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La Corte di Cassazione, con la recente ordinanza n. 3361 del 3 febbraio 2023, ha ribadito il proprio costante orientamento relativo alla ripartizione dell’onere probatorio nei giudizi antidiscriminatori, precisando che i criteri di riparto non seguono i canoni ordinari di cui all’art. 2729 c.c., bensì quelli speciali che stabiliscono un’agevolazione in favore del ricorrente.

L’onere della prova in tema di discriminazione

Ai sensi dell’art. 25, comma 2-bis del D.Lgs. n. 198/2006 (c.d. Codice delle Pari Opportunità) costituisce discriminazione ogni trattamento che in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti pone il lavoratore in almeno una delle seguenti condizioni:

  1. posizione di svantaggio rispetto alla generalità degli altri lavoratori;
  2. limitazione delle opportunità di partecipazione alla vita o alle scelte aziendali;
  3. limitazione dell’accesso ai meccanismi di avanzamento e di progressione nella carriera.

Con riferimento al riparto dell’onere probatorio, il successivo art. 40 stabilisce che quando il ricorrente  fornisce  elementi  di  fatto,  desunti  anche  da  dati  di  carattere  statistico  relativi  alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione  dell’esistenza  di  atti,  patti  o  comportamenti  discriminatori  in  ragione  del  sesso, spetta al convenuto l’onere della prova sull’insussistenza della discriminazione.

La  Suprema  Corte  ha  interpretato  tale  norma  nel  senso  essa  “non  stabilisce  un’inversione dell’onere  probatorio,  ma  solo  un’attenuazione  del  regime  probatorio  ordinario  in  favore  del ricorrente, prevedendo a carico del datore di lavoro, in linea con quanto disposto dall’art. 19 della Direttiva CE n. 2006/54 (come interpretato da Corte di Giustizia Ue 21 luglio 2011, C-104/10), l’onere di fornire la prova dell’inesistenza della discriminazione, ma a condizione che il ricorrente abbia previamente fornito al giudice elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, idonei  a  fondare,  in  termini  precisi  e  concordanti,  anche  se  non  gravi,  la  presunzione dell’esistenza  di  atti,  patti  o  comportamenti  discriminatori  in  ragione  del  sesso”  (Cass.  n. 25543/2018).

Conseguentemente – ha precisato la Suprema Corte – “incombe sul lavoratore l’onere di allegare e dimostrare il fattore di rischio e il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe, deducendo al contempo una correlazione significativa tra questi elementi, mentre il datore di lavoro deve dedurre e provare circostanze inequivoche, idonee ad escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria del recesso” (Cass. n. 23338/2018).

Ne consegue, sul piano pratico, che in un procedimento anti discriminatorio, mentre la lavoratrice che  invoca  l’illegittimità  della  condotta  è  tenuta  a  provare  –  anche  per  mezzo  di  elementi presuntivi – che il trattamento che risulta meno favorevole rispetto a quello riservato ai colleghi in condizioni analoghe, il datore di lavoro, per escluderla, dovrà invece dimostrare che la decisione sarebbe stata operata con i medesimi parametri anche nei confronti di qualsiasi lavoratore privo del fattore di rischio che si fosse trovato nella stessa posizione (in senso conforme, ex pluris: Cass. n. 1/2020).

Del resto, la necessità di operare dei correttivi ai normali criteri di onere probatorio nei casi di discriminazione  –  che  comportano  indubbie  difficoltà  da  parte  del  lavoratore  ad  offrire  validi elementi di prova a sostegno dei propri assunti – era già stata avvertita anche dalla disciplina comunitaria, tanto da spingersi ad offrire a tutti i singoli Stati membri la libertà di prevedere un regime di ripartizione meno gravoso, disponendo espressamente che “Gli Stati membri, secondo i loro sistemi giudiziari, adottano i provvedimenti necessari affinché spetti alla parte convenuta provare l’insussistenza della violazione del principio della parità di trattamento ove chi si ritiene leso dalla mancata osservanza nei propri confronti di tale principio abbia prodotto dinanzi ad un organo giurisdizionale, ovvero dinanzi ad un altro organo competente, elementi di fatto in base ai quali  si  possa  presumere  che  ci  sia  stata  discriminazione  diretta  o  indiretta…  La  presente direttiva non osta a che gli Stati membri impongano un regime probatorio più favorevole alla parte attrice” (direttiva n. 2006/54/CE).

Il fatto affrontato e l’esito dei giudizi di merito

La  vicenda  processuale  trae  origine  dal  ricorso  ex  art.  38,  comma  3,  D.Lgs  n.  198/2006, promosso  da  un’apprendista  al  fine  di  ottenere  l’accertamento  e  la  repressione  del comportamento  asseritamente  discriminatorio  tenuto  dal  datore  di  lavoro  in  relazione  alla disdetta dal contratto di apprendistato professionalizzante. La lavoratrice lamentava, infatti, che, a fronte di circa duecento apprendisti assunti a tempo indeterminato, la mancata assunzione della ricorrente fosse connessa alle due gravidanze dalla stessa portate a termine nel corso del rapporto di apprendistato.

Il giudice di primo grado, in accoglimento del ricorso della lavoratrice avverso il decreto di rigetto emesso  all’esito  della  fase  sommaria,  ordinava  alla  società  di  cessare  il  comportamento discriminatorio  e  di  rimuoverne  gli  effetti,  reintegrando  la  lavoratrice  nel  posto  di  lavoro precedentemente  occupato,  con  la  ricostruzione  della  carriera  sotto  il  profilo  giuridico  ed economico, considerando la disdetta come mai intervenuta.

La Corte di Appello riformava la sentenza di primo grado, statuendo che gli elementi addotti dalla lavoratrice  a  sostegno  del  carattere  discriminatorio  della  condotta  datoriale  fossero  privi  dei caratteri  di  precisione  e  concordanza  necessari  per  poter  fondare  una  presunzione  di discriminazione superabile solo in presenza di prova negativa offerta dalla parte datoriale.

Osservava la Corte territoriale che “il recesso è atto in sé neutro, privo di concordanza, ancor più nello specifico in cui la disdetta risultava comunicata circa 17 mesi dopo la seconda maternità; parimenti, la proroga del contratto di formazione per un periodo corrispondente a quello delle assenze per gravidanza, maternità e malattia, costituiva un fattore neutro ispirato al principio, a tutela di entrambe le parti del contratto, di garantire la effettività della formazione“.

Continua a leggere la versione integrale pubblicata su Modulo 24 Contenzioso Lavoro de Il Sole 24 Ore.