In occasione del nostro Team Meeting di questa settimana abbiamo approfondito diversi temi, tra questi l’ambito di applicazione della procedura di licenziamento collettivo, anche alla luce delle ultime pronunce della Corte di Cassazione.

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 1095 del 16 gennaio 2023, ha stabilito che ai fini della riqualificazione di un rapporto di lavoro autonomo in uno di natura subordinata è possibile fare ricorso ad elementi di carattere sussidiario (come ad esempio, la continuità della prestazione, il rispetto di un orario predeterminato, la percezione di un compenso fisso a cadenza mensile, l’assenza di un rischio e di una struttura imprenditoriale in capo al lavoratore) laddove non sussista la prova diretta dell’eterodirezione.

I fatti di causa

La pronuncia della Suprema Corte trae origine da un giudizio intrapreso da un consulente informatico che, in forza di plurimi contratti di lavoro autonomo susseguitesi nel tempo, aveva svolto, per conto del committente, attività di assistente di natura sistemistica presso gli uffici giudiziari di Arezzo.

Il Tribunale di Pisa, in primo grado, aveva rigettato la domanda di riqualificazione confermando la natura autonoma del rapporto in mancanza della prova dell’eterodirezione del prestatore di lavoro.

Avverso tale pronuncia il lavoratore proponeva appello dinanzi alla Corte di Appello di Firenze lamentando che il giudice di prime cure non avesse dato rilevanza al complesso degli elementi che, seppur non idonei a dimostrare la eterodirezione, costituivano indizi idonei a integrare la prova della natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso.

Nell’ambito del giudizio di secondo grado la Corte territoriale, riformando la decisione del giudice di prime cure, ha accertato la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato sulla base dei seguenti elementi:

  • i contratti di lavoro autonomo (denominati incarichi di consulenza) riportavano in maniera del tutto generica l’oggetto della prestazione del collaboratore. Quindi, nonostante l’espressa qualificazione del rapporto come autonomo, dal tenore testuale dei contratti non erano desumibili elementi contrastanti con la sussistenza di subordinazione, che, anzi, trovava un elemento di conferma nella pattuizione di un compenso commisurato alle giornate lavorative;
  • il lavoratore si avvaleva di strumenti di lavoro forniti dal committente, con conseguente insussistenza di rischio economico del prestatore;
  • il committente esercitava un controllo sull’entità oraria e giornaliera della prestazione lavorativa del collaboratore che assicurava la propria prestazione secondo le esigenze della società;
  • funzioni del tutto analoghe erano affidate, presso altro ufficio giudiziario, a un tecnico dipendente della società.

Avverso la sentenza della Corte d’Appello, la società proponeva ricorso in Cassazione.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso confermando che la Corte di Appello, non avendo rinvenuto la prova diretta della c.d. eterodirezione ha correttamente fatto ricorso ad elementi indiziari che, nel caso di specie, costituiscono indizi idonei e significativi della subordinazione.

Pertanto, anche in mancanza di una eterodirezione il giudice di appello aveva reputato dimostrata la subordinazione tenuto conto che (i) vi era un controllo sull’entità orario e giornaliera della prestazione lavorativa; (ii) il compenso era commisurato alle giornate lavorative; (iii) non sussisteva un rischio economico per il lavoratore; (iv) il collaboratore aveva assicurato la disponibilità ad operare nelle fasce orarie richieste (v) l’oggetto generico della collaborazione indicato nel contratto e la mancanza di un obbligazione di risultato.

In considerazione di tutto quanto sopra, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso presentato dalla società, condannandola alle spese di lite.

Altri insights correlati:

La Corte di Cassazione, con ordinanza dello scorso 11 ottobre 2022, n. 29720, ha confermato che “qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che possa in concreto costituire una barriera protettiva sia pure ridotta o limitata, rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore in conformità con l’articolo 2087 c.c.” rientra nella nozione di Dispositivo di Protezione Individuale (D.P.I.).

Una Società – datrice di lavoro – proponeva ricorso innanzi alla Corte di Cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello di Bari che, confermando la decisione di primo grado, riconosceva il diritto del lavoratore al risarcimento dei danni per il mancato lavaggio, da parte della Società, degli indumenti da quest’ultimo utilizzati per rendere la prestazione lavorativa. In particolare, secondo i giudici di primo e secondo grado, il gilet ed il giubbotto frangente ad alta visibilità, il giubbotto impermeabile contro le intemperie, il pantalone da lavoro e i guanti di protezione sarebbero stati “tutti da considerare dispositivi di protezione individuale”.

Richiamando numerosi precedenti, i giudici di legittimità riconfermano che, in ragione del rilievo costituzionale del diritto alla salute nonché dei principi di correttezza e buona fede quali fondamenta del rapporto di lavoro, quanto previsto dall’articolo 2087 c.c. – ossia l’obbligo del datore di lavoro di predisporre tutte le misure idonee, secondo l’esperienza, la tecnica e la particolarità del lavoro, a prevenire situazioni di danno per la salute fisica e la personalità del lavoratore – deve essere interpretato in maniera estensiva.

Da ciò consegue, come si legge nell’ordinanza, che il datore di lavoro è tenuto sia a fornire i necessari indumenti ai propri lavoratori sia a prevenire l’insorgenza e il diffondersi di infezioni provvedendo anche al relativo lavaggio. Tale obbligo, infatti, diviene indispensabile per mantenere gli indumenti in stato di efficienza rientrando, in tal modo, tra le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori ai sensi del citato articolo 2087 c.c.

Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso proposto dalla società condannando la ricorrente al pagamento delle spese.

L’orientamento della Cassazione

La pronuncia in esame – ultima in termini temporali – conferma un ormai consolidato orientamento degli Ermellini che chiariscono come la nozione legale di D.P.I. non debba essere limitata alle attrezzature appositamente create e commercializzate per la protezione di specifici rischi ma deve essere interpretata estensivamente ricomprendendo qualsiasi attrezzatura, accessorio o complemento che protegga, anche limitatamente ovvero in maniera ridotta, il lavoratore dai rischi ai quali è esposto nello svolgimento della prestazione lavorativa (in questo senso, come si legge nell’ordinanza in commento, Cass. n. 16749 del 2019; n. 17132 del 2019; n. 17354 del 2019; Cass. n. 5748 del 2020; Cass. n. 17100 del 2021).

Altri insights correlati:

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 33134 del 10 novembre 2022, ha statuito che non si ha assenza ingiustificata se il lavoratore consegna il certificato medico di malattia dopo aver ricevuto la contestazione disciplinare.

I fatti di causa

A seguito di un’assenza non giustificata protrattasi per sette giorni, un dipendente veniva licenziato per giusta causa. Sia il Tribunale sia la Corte d’Appello di Firenze accertavano l’illegittimità del licenziamento per insussistenza del fatto addebitato e ciò in quanto, dall’analisi dei fatti di causa, emergeva che, alla data della comunicazione del recesso, la certificazione medica – che copriva retroattivamente l’intero periodo di assenza oggetto di contestazione disciplinare – era stata trasmessa al datore di lavoro.  I giudici di merito osservavano che la contrattazione collettiva applicata al rapporto di lavoro disciplinava, con due distinte disposizioni, l’assenza ingiustificata e la tardiva o irregolare giustificazione, sanzionando la prima con il licenziamento e la seconda con la sanzione conservativa della multa. A fronte di tale disciplina contrattuale, il licenziamento per giusta causa irrogato dal datore di lavoro era pertanto da considerarsi illegittimo, con conseguente condanna del datore alla reintegrazione in servizio del dipendente e al risarcimento del danno commisurato alle mensilità non lavorate, oltre al versamento dei contributi.

Avverso la decisione della Corte d’Appello, la società datrice di lavoro proponeva ricorso in cassazione.

La sentenza della Suprema Corte

La Corte di Cassazione, nel rigettare il ricorso promosso dalla società, confermava l‘illegittimità del licenziamento intimato al dipendente. Partendo dall’analisi delle norme disciplinari contenute nel CCNL Tessile e Abbigliamento applicato al rapporto di lavoro, la Corte ha evidenziato che, dal tenore letterale delle stesse, risultava che le parti sociali avessero voluto punire con il licenziamento esclusivamente un’assenza effettivamente ingiustificata e non anche la diversa ipotesi in cui l’assenza fosse tardivamente giustificata.

Ne consegue che la consegna del certificato medico dopo l’avvio dell’azione disciplinare impedisce che si produca la fattispecie inadempiente dell’assenza ingiustificata e riconduce l’episodio alla più lieve ipotesi della giustificazione tardiva dell’assenza, con conseguente illegittimità della sanzione espulsiva.

Altri insights correlati:

Con l’ordinanza 32020/2022, pubblicata il 28 ottobre 2022, la Corte di Cassazione, IV sezione civile, si è espressa circa i tratti distintivi che differenziano lo straining dal mobbing.

La vicenda processuale trae origine dal ricorso presentato dinanzi al Tribunale di Paola da una dipendente comunale che lamentava di essere stata destinataria di condotte persecutorie da parte dell’ente datoriale e di aver subito un demansionamento in virtù della revoca del suo incarico di responsabile, assegnato ad altro dipendente, con conseguente domanda di condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale patito.

Le domande della ricorrente venivano respinte sia nel primo che nel secondo grado di giudizio, in quanto, secondo la corte territoriale, la revoca dell’incarico della lavoratrice era conseguita ad una riorganizzazione dell’ente e dei relativi responsabili e, in ogni caso, la ricorrente non aveva allegato né provato la sussistenza di un intento persecutorio del datore di lavoro nei suoi confronti.

La lavoratrice ricorreva dunque per la cassazione della sentenza.

In particolare, secondo la lavoratrice, la corte territoriale avrebbe dovuto comunque riconoscere, pur negando la ricorrenza di un’ipotesi di mobbing, la sussistenza di una condotta di sostanziale esautoramento dalle sue mansioni, con conseguente onere del giudice di appello, esclusa la presenza di un intento persecutorio, di valutare se, in base agli elementi dedotti, altre circostanze consentissero di risalire in via presuntiva al fatto ignoto della presenza di un più tenue danno, come quello dipeso dallo straining.

Nel rigettare il ricorso della lavoratrice, la Corte di Cassazione, con l’ordinanza in commento, coglie l’occasione per ricostruire la giurisprudenza di legittimità in materia di mobbing e straining.

Per ciò che concerne lo straining, gli ermellini rimarcano che, ai sensi dell’art. 2087 c.c., il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l’adozione di condizioni lavorative “stressogene” (c.d. straining).

Pertanto, il giudice del merito, pur se accerti l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di mobbing, è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti – per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto – possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell’esistenza di questo più tenue danno (Cass., Sez. L, n. 3291 del 19 febbraio 2016).

Inoltre, proseguono gli ermellini, la giurisprudenza di legittimità ammette che il fenomeno dello straining, costituendo una forma attenuata di mobbing, cui difetta la continuità delle azioni vessatorie, possa essere prospettato solo in appello se, nel ricorso di primo grado, gli stessi fatti erano stati allegati e qualificati come mobbing (Cass., Sez. L, n. 18164 del 10 luglio 2018).

Pertanto, secondo l’ordinanza in commento, in astratto, la corte territoriale avrebbe potuto accertare il verificarsi dello straining in luogo del mobbing. Nella specie, però, la Corte d’appello di Catanzaro, a prescindere da ogni considerazione in ordine all’intento persecutorio, ha escluso anche l’illegittimità delle condotte che, secondo la prospettazione della lavoratrice, avrebbero integrato l’elemento oggettivo dell’illecito contestato.

Infine, l’ordinanza in commento sottolinea come, per la giurisprudenza di legittimità, il c.d. straining è ravvisabile quando il datore di lavoro adotti iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante condizioni lavorative “stressogene” e non ove la situazione di amarezza, determinata ed inasprita dal cambio della posizione lavorativa, sia determinata dai processi di riorganizzazione e ristrutturazione che abbiano coinvolto l’intera azienda (Cass., Sez. L, n. 2676 del 4 febbraio 2021).

Alla luce delle considerazioni sopra esposte, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso proposto dalla lavoratrice.

Altri insights correlati: