Con ordinanza n. 8375 dello scorso 23 marzo 2023, la Corte di Cassazione ha confermato l’utilizzabilità delle riprese degli impianti di videosorveglianza installati per finalità di sicurezza a dimostrazione di un inadempimento disciplinare di un dipendente.
Il caso affrontato
La vicenda nasceva da una sanzione disciplinare di sospensione dal servizio e dalla retribuzione per dieci giorni comminata ad un educatore professionale per aver afferrato con forza uno studente per la maglietta e, dopo aver lasciato la presa, averne causato la sua caduta a terra. L’educatore, inoltre, “mentre l’allievo […] comunicava alla madre l’accaduto […]” si rivolgeva a quest’ultima “in modo ineducato utilizzando toni decisamente accesi”.
Il fatto veniva ripreso tramite l’impianto di videosorveglianza installato dall’Ente – datore di lavoro dell’educatore – presso i locali dello stesso e le registrazioni utilizzate per la contestazione del fatto illecito. L’educatore, subito il provvedimento disciplinare, nel richiederne l’annullamento contestava, tra le altre, l’utilizzo delle riprese del sistema di videosorveglianza per fini disciplinari.
Nell’ambito del giudizio di merito, la Corte d’Appello rigettava la richiesta di annullamento della sanzione e, in accoglimento dell’appello proposto dall’educatore, riformava la sentenza di primo grado rideterminando la sanzione in una multa di tre ore.
L’educatore proponeva ricorso innanzi alla Corte di Cassazione cui resisteva l’Ente con controricorso.
La decisione assunta dalla Suprema Corte
La Corte di Cassazione – nel confermare la valutazione dei giudici di seconde cure – ha affermato la legittimità dell’utilizzo delle riprese del sistema di videosorveglianza ai fini della contestazione di un inadempimento disciplinare di un dipendente.
Nel caso di specie, l’impianto di videosorveglianza era stato installato nel rispetto delle garanzie previste dalla vigente normativa:
In aggiunta a ciò, erano stati esaminati anche elementi quali la proporzionalità della sanzione comminata rispetto al fatto illecito commesso, oltre al fatto che al lavoratore era stato consentito l’esercizio di un suo diritto di difesa.
Nell’ambito di tutte queste valutazioni, l’utilizzabilità delle riprese del sistema di videosorveglianza è stato quindi un elemento supplementare ritenuto legittimo.
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L’applicabilità di un regime esente richiede che sia fornita la prova rigorosa, a carico del contribuente, circa la sussistenza di tutti i presupposti fattuali per il configurarsi di fattispecie risarcitorie del danno emergente.
La Corte di Cassazione, sezione tributaria, con ordinanza n. 8615 del 27 marzo 2023 è tornata a esaminare il delicato argomento del regime di tassazione applicabile al risarcimento dovuto in relazione al demansionamento subito dal lavoratore o dalla lavoratrice.
Il caso sul quale è stata chiamata a pronunciarsi la Corte è relativo ad un contenzioso tra l’Agenzia delle Entrate e una lavoratrice che, nell’ambito di un giudizio per demansionamento, ha raggiunto un accordo stragiudiziale con il datore di lavoro che le ha corrisposto una somma a titolo di “risarcimento del danno morale, professionale e biologico“.
L’Agenzia delle Entrate, non essendoci distinzione tra le voci risarcitorie, ha applicato le trattenute Irpef sull’importo percepito dalla lavoratrice, la quale, dunque, ha agito in giudizio per richiederne il rimborso. La Commissione Tributaria Provinciale ha respinto il ricorso della lavoratrice mentre la Corte Territoriale Regionale ha riformato la decisione accogliento l’istanza contro l’Agenzia delle Entrate, dichiarando il regime di esenzione applicabile alle somme oggetto di esame.
In tema di tassazione dei redditi di lavoro o simili, il Testo unico delle imposte sui redditi n. 917/1986 (“TUIR”) identifica la categoria dei redditi sostitutivi dei redditi di lavoro dipendente. L’art. 6, comma 2, del TUIR dispone che costituiscono redditi, della stessa categoria di quelli sostituiti e/o perduti, indipendentemente dal titolo che determina l’erogazione: (i) i proventi conseguiti in sostituzione di redditi, anche per effetto di cessione dei relativi crediti; (ii) le indennità conseguite, anche in forma assicurativa, a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi, esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte.
La ratio del dettato normativo risiede nel doversi considerare imponibili solo quei compensi, emolumenti o risarcimenti che abbiano prodotto un arricchimento in capo al soggetto.
A tale scopo si distingue tra (i) lucro cessante, ossia il mancato guadagno al quale è riconosciuto l’appartenenza alla stessa categoria dei redditi sostituiti o perduti (ex art. 6, comma 2, TUIR); (ii) danno emergente, ossia la ricostituzione del mero patrimonio, cioè il risarcimento volto a coprire la perdita economica e non a sostituire il reddito non realizzato.
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La Corte di Cassazione, con la recente ordinanza n. 3361 del 3 febbraio 2023, ha ribadito il proprio costante orientamento relativo alla ripartizione dell’onere probatorio nei giudizi antidiscriminatori, precisando che i criteri di riparto non seguono i canoni ordinari di cui all’art. 2729 c.c., bensì quelli speciali che stabiliscono un’agevolazione in favore del ricorrente.
L’onere della prova in tema di discriminazione
Ai sensi dell’art. 25, comma 2-bis del D.Lgs. n. 198/2006 (c.d. Codice delle Pari Opportunità) costituisce discriminazione ogni trattamento che in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti pone il lavoratore in almeno una delle seguenti condizioni:
Con riferimento al riparto dell’onere probatorio, il successivo art. 40 stabilisce che quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l’onere della prova sull’insussistenza della discriminazione.
La Suprema Corte ha interpretato tale norma nel senso essa “non stabilisce un’inversione dell’onere probatorio, ma solo un’attenuazione del regime probatorio ordinario in favore del ricorrente, prevedendo a carico del datore di lavoro, in linea con quanto disposto dall’art. 19 della Direttiva CE n. 2006/54 (come interpretato da Corte di Giustizia Ue 21 luglio 2011, C-104/10), l’onere di fornire la prova dell’inesistenza della discriminazione, ma a condizione che il ricorrente abbia previamente fornito al giudice elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, anche se non gravi, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso” (Cass. n. 25543/2018).
Conseguentemente – ha precisato la Suprema Corte – “incombe sul lavoratore l’onere di allegare e dimostrare il fattore di rischio e il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe, deducendo al contempo una correlazione significativa tra questi elementi, mentre il datore di lavoro deve dedurre e provare circostanze inequivoche, idonee ad escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria del recesso” (Cass. n. 23338/2018).
Ne consegue, sul piano pratico, che in un procedimento anti discriminatorio, mentre la lavoratrice che invoca l’illegittimità della condotta è tenuta a provare – anche per mezzo di elementi presuntivi – che il trattamento che risulta meno favorevole rispetto a quello riservato ai colleghi in condizioni analoghe, il datore di lavoro, per escluderla, dovrà invece dimostrare che la decisione sarebbe stata operata con i medesimi parametri anche nei confronti di qualsiasi lavoratore privo del fattore di rischio che si fosse trovato nella stessa posizione (in senso conforme, ex pluris: Cass. n. 1/2020).
Del resto, la necessità di operare dei correttivi ai normali criteri di onere probatorio nei casi di discriminazione – che comportano indubbie difficoltà da parte del lavoratore ad offrire validi elementi di prova a sostegno dei propri assunti – era già stata avvertita anche dalla disciplina comunitaria, tanto da spingersi ad offrire a tutti i singoli Stati membri la libertà di prevedere un regime di ripartizione meno gravoso, disponendo espressamente che “Gli Stati membri, secondo i loro sistemi giudiziari, adottano i provvedimenti necessari affinché spetti alla parte convenuta provare l’insussistenza della violazione del principio della parità di trattamento ove chi si ritiene leso dalla mancata osservanza nei propri confronti di tale principio abbia prodotto dinanzi ad un organo giurisdizionale, ovvero dinanzi ad un altro organo competente, elementi di fatto in base ai quali si possa presumere che ci sia stata discriminazione diretta o indiretta… La presente direttiva non osta a che gli Stati membri impongano un regime probatorio più favorevole alla parte attrice” (direttiva n. 2006/54/CE).
Il fatto affrontato e l’esito dei giudizi di merito
La vicenda processuale trae origine dal ricorso ex art. 38, comma 3, D.Lgs n. 198/2006, promosso da un’apprendista al fine di ottenere l’accertamento e la repressione del comportamento asseritamente discriminatorio tenuto dal datore di lavoro in relazione alla disdetta dal contratto di apprendistato professionalizzante. La lavoratrice lamentava, infatti, che, a fronte di circa duecento apprendisti assunti a tempo indeterminato, la mancata assunzione della ricorrente fosse connessa alle due gravidanze dalla stessa portate a termine nel corso del rapporto di apprendistato.
Il giudice di primo grado, in accoglimento del ricorso della lavoratrice avverso il decreto di rigetto emesso all’esito della fase sommaria, ordinava alla società di cessare il comportamento discriminatorio e di rimuoverne gli effetti, reintegrando la lavoratrice nel posto di lavoro precedentemente occupato, con la ricostruzione della carriera sotto il profilo giuridico ed economico, considerando la disdetta come mai intervenuta.
La Corte di Appello riformava la sentenza di primo grado, statuendo che gli elementi addotti dalla lavoratrice a sostegno del carattere discriminatorio della condotta datoriale fossero privi dei caratteri di precisione e concordanza necessari per poter fondare una presunzione di discriminazione superabile solo in presenza di prova negativa offerta dalla parte datoriale.
Osservava la Corte territoriale che “il recesso è atto in sé neutro, privo di concordanza, ancor più nello specifico in cui la disdetta risultava comunicata circa 17 mesi dopo la seconda maternità; parimenti, la proroga del contratto di formazione per un periodo corrispondente a quello delle assenze per gravidanza, maternità e malattia, costituiva un fattore neutro ispirato al principio, a tutela di entrambe le parti del contratto, di garantire la effettività della formazione“.
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In occasione del nostro Team Meeting di questa settimana abbiamo approfondito diversi temi, tra questi l’ambito di applicazione della procedura di licenziamento collettivo, anche alla luce delle ultime pronunce della Corte di Cassazione.
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 1095 del 16 gennaio 2023, ha stabilito che ai fini della riqualificazione di un rapporto di lavoro autonomo in uno di natura subordinata è possibile fare ricorso ad elementi di carattere sussidiario (come ad esempio, la continuità della prestazione, il rispetto di un orario predeterminato, la percezione di un compenso fisso a cadenza mensile, l’assenza di un rischio e di una struttura imprenditoriale in capo al lavoratore) laddove non sussista la prova diretta dell’eterodirezione.
La pronuncia della Suprema Corte trae origine da un giudizio intrapreso da un consulente informatico che, in forza di plurimi contratti di lavoro autonomo susseguitesi nel tempo, aveva svolto, per conto del committente, attività di assistente di natura sistemistica presso gli uffici giudiziari di Arezzo.
Il Tribunale di Pisa, in primo grado, aveva rigettato la domanda di riqualificazione confermando la natura autonoma del rapporto in mancanza della prova dell’eterodirezione del prestatore di lavoro.
Avverso tale pronuncia il lavoratore proponeva appello dinanzi alla Corte di Appello di Firenze lamentando che il giudice di prime cure non avesse dato rilevanza al complesso degli elementi che, seppur non idonei a dimostrare la eterodirezione, costituivano indizi idonei a integrare la prova della natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso.
Nell’ambito del giudizio di secondo grado la Corte territoriale, riformando la decisione del giudice di prime cure, ha accertato la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato sulla base dei seguenti elementi:
Avverso la sentenza della Corte d’Appello, la società proponeva ricorso in Cassazione.
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso confermando che la Corte di Appello, non avendo rinvenuto la prova diretta della c.d. eterodirezione ha correttamente fatto ricorso ad elementi indiziari che, nel caso di specie, costituiscono indizi idonei e significativi della subordinazione.
Pertanto, anche in mancanza di una eterodirezione il giudice di appello aveva reputato dimostrata la subordinazione tenuto conto che (i) vi era un controllo sull’entità orario e giornaliera della prestazione lavorativa; (ii) il compenso era commisurato alle giornate lavorative; (iii) non sussisteva un rischio economico per il lavoratore; (iv) il collaboratore aveva assicurato la disponibilità ad operare nelle fasce orarie richieste (v) l’oggetto generico della collaborazione indicato nel contratto e la mancanza di un obbligazione di risultato.
In considerazione di tutto quanto sopra, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso presentato dalla società, condannandola alle spese di lite.
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