Con l’ordinanza n. 26634 del 14 ottobre 2024, la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, ha affermato che il licenziamento per superamento del periodo di comportonon rientra nella previsione di nullità stabilita dall’art. 46, D.L. n. 18/2020 (c.d. “blocco” dei licenziamenti per emergenza pandemica da Covid-19) e ha, al contempo, precisato il corretto criterio di computo delle giornate di malattia per i lavoratori che operano in regime di part-time verticale.
Il caso esaminato dall’ordinanza in commento riguarda il licenziamento per superamento del periodo di comporto intimato, in data 25 novembre 2020, all’epoca della vigenza del “blocco” dei licenziamenti per emergenza Covid-19, ad una lavoratrice con contratto di lavoro subordinato a tempo parziale verticale al 50%, distribuito su tre giornate.
In particolare, il licenziamento veniva irrogato a fronte dell’assenza della lavoratrice dal posto di lavoro per malattia per 113 giorni nell’arco temporale tra il 6 agosto e il 25 novembre 2020, senza soluzione di continuità, come attestato dai sedici certificati medici emessi in sequenza a copertura dell’intero periodo.
Impugnato il licenziamento in sede giudiziale ritenendolo nullo in conseguenza del “blocco” imposto durante l’emergenza sanitaria, la lavoratrice risultava soccombente sia in primo che in secondo grado.
Specificamente, la Corte d’Appello di Roma – preliminarmente ritenuta, contrariamente al Tribunale, l’ammissibilità della domanda – rigettava il reclamo della lavoratrice affermando che, non potendosi applicare la previsione di nullità stabilita dall’art. 46, D.L. n. 18/2020 al licenziamento per superamento del periodo di comporto, avendo quest’ultimo natura diversa dal licenziamento per giustificato motivo oggettivo, e stante, comunque, il carattere speciale dell’art. 46, nel caso di specie il periodo di comporto era stato ampiamente superato, essendo la malattia proseguita per un periodo superiore al limite previsto dal CCNL applicato per la conservazione del posto di lavoro in caso di regime part-time di tipo verticale, pari alla metà delle giornate lavorative concordate tra le parti in un anno solare (78,5).
La lavoratrice proponeva quindi ricorso per Cassazione, censurando la decisione della Corte d’Appello per due motivi.
In primo luogo, per non avere la Corte territoriale esteso la nullità del divieto di licenziamento anche al recesso per superamento del periodo di comporto, in quanto riconducibile alla fattispecie del giustificato motivo oggettivo, per i riflessi delle assenze per malattia della lavoratrice sull’organizzazione aziendale.
In secondo luogo, per erronea individuazione del criterio di computo delle giornate di malattia in regime di part-time verticale, in violazione dei principi di proporzionalità e non discriminazione, per effetto di una riduzione della metà del numero delle giornate concordate, ma non anche del loro numero ai fini del computo delle giornate di malattia per il suo superamento.
La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso della lavoratrice ritenendo entrambi i motivi di doglianza infondati.
In particolare, con riferimento al primo motivo, la Suprema Corte ha preliminarmente sottolineato come la natura di norma speciale dell’art. 46, D.L. n. 18/2020 (ispirato alla specifica ratio di tutela dei lavoratori dalle conseguenze negative sull’occupazione derivanti dal blocco o dalla riduzione dell’attività produttiva conseguente all’emergenza Covid-19) ne escluda l’applicabilità in via analogica.
Ad avviso della Corte, tale tesi sarebbe avvalorata anche dal fatto che, in altro recente giudizio di legittimità, la norma in esame è stata oggetto di ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale per contrasto con l’art. 3 Cost. Nello specifico, gli Ermellini hanno dubitato della ragionevolezza dell’art. 46 in considerazione del fatto che, pur non essendoci, ai fini del divieto, alcuna diversità tra licenziamento collettivo e licenziamento individuale, tale norma non include tra le fattispecie coperte dal “blocco” anche l’ipotesi di giustificatezza del licenziamento individuale dei dirigenti, ai quali tuttavia il divieto si applica in caso di licenziamento collettivo, creando, così, un ingiustificato difetto di simmetria sul piano della disciplina legale dei licenziamenti individuali e di quelli collettivi per i dirigenti. Se, dunque, l’applicazione analogica dell’art. 46 non è ammissibile all’interno del perimetro del licenziamento economico, a maggior ragione la nullità del divieto non può estendersi all’ipotesi di recesso per superamento del periodo di comporto che è soggetto alle regole dettate dall’art. 2110 c.c., prevalenti, per la loro specialità, sia sulla disciplina generale della risoluzione del contratto per impossibilità parziale della prestazione lavorativa, sia sulla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali.
Continua a leggere la versione integrale pubblica su Norme e Tributi Plus Lavoro del Il Sole 24 Ore.
Il Tribunale di Roma si discosta dall’indirizzo della Corte d’Appello capitolina in merito all’esclusione del divieto di licenziamento per i dirigenti durante la emergenza Covid.
Misure di contrasto del Covid 19 – D.L. n. 18/2020 e D.L. 104/2020 – Divieto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Dirigente – Licenziamento per soppressione della posizione di lavoro – Violazione del divieto – Non sussistente
La normativa emergenziale relativa al divieto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo ha carattere eccezionale e, pertanto, non è suscettibile di estensione analogica ad ipotesi non espressamente previste dal testo normativo. Ne consegue che il blocco dei licenziamenti non possa trovare applicazione con riferimento al licenziamento individuale del dirigente.
Tribunale di Roma 25 ottobre 2022, n. 8722
A distanza di pochi mesi dalla sentenza resa dalla Corte d’Appello di Roma, con la quale il Collegio si era pronunciato a favore dell’applicabilità del blocco dei licenziamenti anche al personale dirigenziale, il Tribunale capitolino, con la recentissima sentenza n. 8722 pubblicata il 25 ottobre 2022, è giunto alla conclusione diametralmente opposta.
Nell’agosto del 2020 – e dunque nel periodo coperto dal generale divieto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo di cui al D.L. 14.8.2020, n. 104 – la società datrice di lavoro aveva proceduto al licenziamento di un dirigente per ragioni economiche, dunque oggettive.
Nell’ambito della prima fase del c.d. Rito Fornero, il Giudice, ritenendo che anche i dirigenti fossero ricompresi nella platea dei lavoratori protetti dal blocco dei licenziamenti di cui alla normativa emergenziale, aveva dichiarato nullo il licenziamento, disponendo la sua immediata reintegra nel posto di lavoro, con condanna della società al pagamento delle retribuzioni dovute dalla data di licenziamento fino a quella di effettiva reintegrazione.
Avverso tale provvedimento, la società proponeva opposizione dinanzi al Tribunale di primo grado.
Come noto, l’art. 46 D.L. 17 marzo 2020, n. 18 precludeva l’avvio delle procedure di licenziamento collettivo e vietava ai datori di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti occupati, di «recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604».
Il “blocco” dei licenziamenti è stato poi esteso e fatto oggetto di ulteriori condizioni, nonché di alcune deroghe, da parte del D.L. 14.8.2020, n. 104, applicabile alla fattispecie oggetto della sentenza in commento.
La norma disponeva che, per fronteggiare l’emergenza da COVID-19, ai datori privati che non avessero integralmente fruito dei trattamenti di integrazione salariale riconducibili all’emergenza epidemiologica da COVID-19 ovvero dell’esonero dal versamento dei contributi previdenziali restava preclusa, indipendentemente dal numero dei dipendenti, la facoltà di recedere dal contratto di lavoro per giustificato motivo oggettivo di cui all’art. 3 della L. 15.7.1966, n. 604, e restavano altresì sospese le procedure presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro in corso di cui all’art. 7 della medesima legge.
Le preclusioni e le sospensioni sopra elencate non trovavano applicazione nei seguenti casi:
a) licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell’attività dell’impresa, conseguenti alla messa in liquidazione della società senza continuazione, anche parziale, dell’attività;
b) accordo collettivo aziendale, stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale di incentivo alla risoluzione del rapporto;
c) licenziamenti intimati in caso di fallimento, quando non era previsto l’esercizio provvisorio dell’impresa o ne era disposta la cessazione.
Sin dall’introduzione del blocco dei licenziamenti, in dottrina e in giurisprudenza si sono alternati due indirizzi opposti in merito all’applicabilità di tale normativa emergenziale ai licenziamenti individuali dei dirigenti.
Continua a leggere la versione integrale pubblicata su Guida al lavoro de Il Sole 24 Ore.
L’infezione virale contratta sul luogo di lavoro costituisce evento patologico coperto dall’INAIL e la prova del nesso eziologico può essere fornita in giudizio anche mediante presunzioni semplici
Con l’ordinanza 10 ottobre 2022, n. 29435, la Suprema Corte, in riforma della sentenza della Corte d’Appello di Palermo, ha fornito una lettura diversa circa il tema dell’assetto probatorio nella fattispecie oggetto di contenzioso.
Il caso sottoposto alla Suprema Corte trae origine dal ricorso proposto dinanzi al Tribunale di Agrigento in primo grado e dinanzi alla Corte d’Appello di Palermo in secondo grado da un infermiere professionale impiegato presso una RSA, al fine di vedersi riconoscere la copertura INAIL e quindi l’indennizzo in rendita o in capitale ai sensi del d.p.r. 1124/1965 in ragione dell’asserita contrazione dell’epatite C in occasione di servizio, assumendo che ciò fosse dipeso dalla plausibile e prolungata esposizione ai relativi fattori patogeni.
La Corte territoriale, confermando la statuizione del giudice di primo grado, aveva inizialmente respinto la richiesta del lavoratore in quanto, prendendo le mosse dalla possibile origine plurifattoriale della malattia, riteneva che la prova della causa di lavoro e della speciale nocività dell’ambiente di lavoro gravante sul lavoratore non fosse stata raggiunta, aggiungendo che la valutazione da compiere non riguardava “il nesso causale dipendente dagli effetti patologici dell’infortunio professionale che si sia sicuramente verificato, vertendo la questione sulla certa individuazione del fatto all’origine della malattia”.
Aggiungeva la Corte di merito che il ricorrente stesso non aveva memoria di eventi specifici avvenuti durante il lavoro, quali punture accidentali, non bastando, ai fini del riconoscimento delle tutele invocate, l’avere ordinariamente medicato e trattato pazienti epatopatici, in quanto, la valenza dimostrativa di ciò, oltre a non poter ricorrere a favore della parte che aveva reso tali dichiarazioni, era in più neutralizzata dall’accertamento svolto in altra causa in ordine ad una pregressa infezione da virus epatite B, circostanza quest’ultima che avrebbe imposto «la prova rigorosa dell’evento infettante in occasione di lavoro».
La Corte aggiungeva infine che non poteva essere utile alla prova richiesta il ”verbale di visita della Commissione medica ospedaliera“ formato in sede di procedimento per l’indennizzo ai sensi della L. 210/1992 in quanto quest’ultimo “esprime un giudizio (di derivazione professionale della malattia e di esposizione a rischio) senza tuttavia rendere noti gli elementi fattuali su cui è basato”.
Con l’ordinanza in commento, la Cassazione, in riforma della sentenza della Corte d’Appello di Palermo, richiama un indirizzo risalente e mai contraddetto secondo cui «nell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, costituisce causa violenta anche l’azione di fattori microbici o virali che, penetrando nell’organismo umano, ne determinino l’alterazione dell’equilibrio anatomo – fisiologico, sempreché tale azione, pur se i suoi effetti si manifestino dopo un certo tempo, sia in rapporto con lo svolgimento dell’attività lavorativa, anche in difetto di una specifica causa violenta alla base dell’infezione» con l’aggiunta che «la relativa dimostrazione può essere fornita in giudizio anche mediante presunzioni semplici» (C. Cass., sez. lav. n. 7306/2000, C. Cass., sez. lav. n. 20941/2004; C. Cass., sez. lav. n. 6899/2004).
Nel caso di specie dunque, la Corte d’Appello, con una motivazione non sempre coerente e lineare, in cui veniva richiamata la necessità di una «certa individuazione del fatto origine della malattia», si sarebbe disallineata dall’orientamento sopra richiamato, collocando il punto di caduta ultimo del proprio ragionamento nella conclusione per cui si sarebbe infine dovuta dare, anche alla luce della pregressa Epatite B occorsa al lavoratore, «la prova rigorosa dell’evento infettante in occasione di lavoro».
Continua a leggere la versione integrale pubblicata su Guida al Lavoro de Il Sole 24 Ore.
Lo scorso 17 marzo il Consiglio dei ministri ha approvato un nuovo Decreto-Legge recante “Disposizioni urgenti per il superamento delle misure di contrasto alla diffusione dell’epidemia da COVID-19, in conseguenza della cessazione dello stato di emergenza”. Il Decreto-Legge è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il successivo 24 marzo (D.L. 24/2022).
Lo stato di emergenza è terminato il 31 marzo u.s. e si è reso così necessario, stando alle dichiarazioni rese dal Presidente del Consiglio dei ministri, emanare nuove disposizioni volte a favorire il rientro ad una situazione “ordinaria”.
In particolare, tra le misure previste dal D.L. 24/2022, vi è:
Altri insights correlati:
Fino al 30 aprile 2022, al fine di prevenire la diffusione dell’infezione da SARS-CoV-2, a chiunque svolge un’attività lavorativa nel settore privato (ivi inclusi i dipendenti over 50, fermo restando l’obbligo vaccinale e il relativo regime sanzionatorio), è fatto obbligo, ai fini dell’accesso ai luoghi di lavoro, di possedere e esibire, su richiesta la certificazione verde Covid-19 (guarigione, vaccinazione o test). Tale disposizione si applica a tutti i soggetti, che svolgono, a qualsiasi titolo, la propria attività lavorativa o di formazione, anche in qualità di discendenti o di volontariato, anche sulla base di contratti esterni. È escluso chi è esente dalla campagna vaccinale sulla base di idonea certificazione medica rilasciata secondo i criteri definiti con circolare del Ministero della Salute. I lavoratori, qualora comunichino di non essere in possesso della predetta certificazione o ne risultino privi all’atto di accesso al luogo di lavoro, sono considerati assenti ingiustificati fino alla presentazione di idonea certificazione e, comunque, non oltre il 30 aprile 2022, senza conseguenze disciplinari e con diritto alla conservazione del posto. Per i giorni di assenza ingiustificata non sono dovuti la retribuzione o altro compenso o emolumento. Dopo il quinto giorno di assenza ingiustificata, il datore di lavoro può stipulare un contratto di lavoro per la sostituzione, comunque per un periodo non superiore a 10 giorni lavorativi, rinnovabili fino al 30 aprile 2022. E’ in ogni caso consentito il rientro immediato nel luogo di lavoro non appena il lavoratore entri in possesso della certificazione necessaria, purché il datore di lavoro non abbia già stipulato un contratto di lavoro per la sua sostituzione. A prevedere quanto sopra è l’art. 9-septies del D.L. n. 52/2021, conv. in legge, con modifiche, dalla L. 87/2021 e sue successive modifiche e integrazioni (cfr da ultimo, il D.L. 1/2022 così come modificato dall’allegato alla legge di conversione 18/2022 e il D.L. 24/2022).
Altri insight correlati: