La pandemia ha spinto il legislatore a individuare strumenti che possano aiutare imprese e lavoratori a superare al meglio la crisi contingente e che accompagnino le aziende nella transizione verso un nuovo sistema produttivo.
In tale contesto, il legislatore, rispondendo alle sollecitazioni da tempo provenienti dalle parti sociali, ha attuato la riforma degli ammortizzatori sociali, intervenendo sulle disomogeneità esistenti, con l’obiettivo di realizzare una universalizzazione e razionalizzazione degli stessi, al fine di governare le instabilità del mercato del lavoro e supportare le transizioni occupazionali. Tra gli obiettivi si segnala l’ampliamento della platea sia dei lavoratori, sia delle aziende che possono beneficiare dell’integrazione salariale. È stato inoltre rafforzato il collegamento tra erogazione dei trattamenti di integrazione salariale, formazione professionale e politiche attive.
Uno degli istituti maggiormente interessati dal riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali è la cassa integrazione straordinaria, attraverso il significativo ampliamento della platea dei datori di lavoro rientranti nel campo di applicazione del trattamento, nonché tramite l’introduzione di una nuova causale.
Nell’ambito della “riorganizzazione aziendale” viene, infatti, ricompresa la realizzazione di “processi di transizione”, il cui recupero occupazionale può ora realizzarsi anche tramite la riqualificazione professionale dei lavoratori e il potenziamento delle loro competenze.
Allo scopo di fronteggiare particolari situazioni di criticità sul fronte occupazionale, è stato inoltre introdotto l’accordo di transizione occupazionale, con cui, ai datori di lavoro che occupano più di 15i dipendenti, può essere concesso un
ulteriore intervento di integrazione salariale finalizzato al recupero occupazionale, per un periodo di 12 mesi. A tal fine, in sede di consultazione sindacale, le parti saranno tenute a definire le azioni volte alla rioccupazione, quali formazione e riqualificazione professionale, anche attraverso il ricorso ai fondi interprofessionali per la formazione continua.
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Lo smart working, oltre ad essere uno degli antidoti per contrastare la pandemia, è un valido strumento per incrementare la produttività e migliorare il work life balance. Penso che non assisteremo a un tramonto della modalità lavorativa agile, già divenuta in molte aziende una scelta strutturale, grazie ai suoi vantaggi e resa possibile anche dalla rivoluzione digitale in corso». È l’opinione dell’avvocato Vittorio De Luca, managing partner di De Luca & Partners. «Sin dall’inizio dell’emergenza ho ritenuto che il lavoro agile, sia pure semplificato, dovesse essere accompagnato da una apposita regolamentazione aziendale, poiché coinvolge in modo trasversale diversi istituti normativi, non solo giuslavoristici, quali l’orario di lavoro, il trattamento dei dati, la disconnessione, ma anche profili di cyber security e di sicurezza delle informazioni aziendali».
Quindi le aziende dovrebbero introdurre un’apposita regolamentazione prima della fine dello stato di emergenza? «Certo, per non farsi trovare impreparate all’indomani della fine dello smart working semplificato, è necessario che il datore di lavoro, nell’accordo individuale o in un apposito regolamento aziendale, individui le regole di condotta cui i lavoratori agili devono uniformarsi, così da garantire continuità al ricorso al lavoro agile e limitare il rischio di essere esposti alle pesanti sanzioni».
È necessario introdurre policy che regolamentino il trattamento dei dati personali? «È indubbio che il lavoro agile comporta implicazioni dal punto di vista privacy: lo smart worker può svolgere la prestazione non solo al di fuori dei locali aziendali ma anche al di fuori dell’ambiente domestico. È opportuno che il datore di lavoro una volta individuati i rischi esistenti e potenziali connessi alla tutela dei dati, adotti procedure che regolamentino lo svolgimento dell’attività da remoto anche introducendo strumenti per misurare i risultati, preservando, al contempo, le forme di esercizio del potere datoriale e la sicurezza informatica».
Il 5 gennaio 2022, il Consiglio dei ministri, su proposta del Presidente e del Ministro della salute, ha approvato un decreto-legge che introduce “misure urgenti per fronteggiare l’emergenza COVID-19, in particolare nei luoghi di lavoro, nelle scuole e negli istituti della formazione superiore”. Il decreto-legge è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dello scorso 7 gennaio ed è in vigore dal successivo 8 gennaio.
Secondo quanto dichiarato dallo stesso Consiglio dei ministri attraverso un proprio comunicato stampa, le nuove misure hanno lo scopo di “rallentare la curva di crescita dei contagi relativi alla pandemia e fornire maggiore protezione a quelle categorie che sono maggiormente esposte e che sono a maggior rischio di ospedalizzazione”.
Tra le misure introdotte vi è l’estensione, dal giorno 8 gennaio 2022 al successivo 15 giugno, dell’obbligo vaccinale ai cittadini italiani e degli altri Stati membri residenti nel territorio dello Stato nonché ai cittadini stranieri soggiornanti o non in regola con le norme relative all’ingresso o al soggiorno in Italia che abbiano compiuto il cinquantesimo anno di età. L’obbligo de quo “non sussiste in caso di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale dell’assistito o dal medico vaccinatore, nel rispetto delle circolari del Ministero della salute in materia di esenzione dalla vaccinazione anti SARS-CoV-2; in tali casi la vaccinazione può essere omessa o differita”.
Sempre, ai sensi del Decreto, a far data dal prossimo 15 febbraio e fino al successivo 15 giugno, tutti i lavoratori con una età pari o superiore ai 50 anni, per accedere ai luoghi di lavoro dovranno possedere ed esibire una delle certificazioni verdi Covid-19 di vaccinazione o guarigione (c.d. “Green Pass rafforzato”).
Per i periodi in cui la vaccinazione è omessa o differita, il datore di lavoro adibirà il lavoratore interessato a mansioni, anche diverse, senza decurtazione della retribuzione, così da evitare il rischio di diffusione del contagio.
Inoltre, il Decreto in esame prevede, all’art. 3, che “il datore di lavoro (ndr indipendentemente dal requisito dimensionale) può sospendere il lavoratore per la durata corrispondente a quella del contratto di lavoro stipulato per la sostituzione, comunque per un periodo non superiore a dieci giorni lavorativi, rinnovabili fino al predetto termine del 31 marzo 2022, senza conseguenze disciplinari e con diritto alla conservazione del posto di lavoro per il lavoratore sospeso”.
Premesso che le modalità di controllo resteranno quelle già in uso, i lavoratori che comunicheranno di non essere in possesso del Green Pass rafforzato o ne risultino privi all’atto di accesso, saranno considerati assenti ingiustificati. Essi avranno diritto alla conservazione del rapporto di lavoro senza alcuna conseguenza disciplinare sino alla presentazione dello stesso, e comunque non oltre il 15 giugno 2022.
Sarà vietato l’accesso ai luoghi di lavoro dei lavoratori privi del Green Pass rafforzato. La violazione di tale divieto esporrà il lavoratore ad una sanzione amministrativa da euro 600 a 1500 euro, restando ferme le conseguenze disciplinari secondo i rispettivi ordinamenti di settore. Rimane confermata la sanzione da 400 euro a 1.000 euro per i datori di lavoro in caso di inosservanza delle misure di controllo.
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Con messaggio 18 novembre 2021, n. 4027, pubblicato sul proprio sito istituzionale il successivo 19 novembre, l’INPS ha chiarito che il decreto-legge 21 ottobre 2021, n. 146, collegato fiscale alla legge di Bilancio 2022, ha modificato la disciplina delle tutele previste durante l’emergenza sanitaria da Covid-19, tra gli altri, per i lavoratori in quarantena. La norma prevede, infatti, che l’equiparazione a malattia del periodo che il lavoratore del settore privato trascorre in quarantena con sorveglianza attiva o in permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva viene riconosciuta fino “al 31 dicembre 2021”, a fronte di apposito stanziamento. Tale equiparazione non è stata, ad oggi, rifinanziata per il 2022. Ciò significa che a partire dal 1° gennaio 2022, salvo eventuali e future prescrizioni, i lavoratori del settore privato che non possono rendere la prestazione in modalità agile (perché tale modalità sarebbe incompatibile con le caratteristiche della prestazione attesa) e sono costretti a rispettare un periodo di quarantena per contatto stretto di un caso confermato non avranno diritto all’indennità riconosciuta dall’INPS. Infatti, lo stesso INPS nel suo messaggio ha precisato che “si procederà al riconoscimento della prestazione ai lavoratori privati aventi diritto alla tutela previdenziale della malattia, secondo le consuete modalità, anche per gli eventi verificatisi nel corso del 2021, seguendo un ordine cronologico, come previsto per legge”.
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Il Tribunale di Asti, con ordinanza del 5 gennaio 2022, ha statuito che il periodo di quarantena (ex art. 26, co.1., D.L. 18/2020 ratione temporis applicabile) o di isolamento fiduciario non rileva ai fini del calcolo del periodo di comporto, non solo nei confronti dei soggetti che hanno avuto un contatto stretto con casi di contagio confermati, ma anche nei riguardi dei soggetti risultati positivi al Covid-19. Ciò in quanto impossibilitati per legge a rendere la prestazione lavorativa a prescindere dalla presenza o meno di sintomi legati alla patologia.
Nel caso di specie, la lavoratrice, a seguito di contatto con una propria collega risultata positiva al Covid-19, veniva posta dapprima in quarantena e, successivamente, a seguito di esito positivo del tampone effettuato, in isolamento fiduciario. Il datore di lavoro procedeva al suo licenziamento per superamento del periodo di comporto ai sensi del CCNL di settore.
La lavoratrice impugnava giudizialmente il licenziamento intimatole, deducendo che:
Contrariamente a quanto sostenuto dalla lavoratrice, il datore di lavoro sosteneva che la tutela prevista dall’art. 26, comma 1, D.L. n. 18/2020 si riferisse soltanto ai periodi di quarantena con sorveglianza attiva o di permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva disposta dall’autorità e non anche alle ipotesi in cui il lavoratore avesse contratto l’infezione da Covid-19.
Secondo il Giudice assegnatario della causa, nel periodo di comporto non avrebbero dovuto essere computate le giornate di assenza dovute a quarantena o isolamento fiduciario previsti dal legislatore per contrastare la diffusione del virus.
Il Giudice – nel richiamare l’art. 26, comma 1, del D.L. n. 18/2020 così come modificato dai successivi interventi legislativi che ne hanno esteso la portata temporale – ha sottolineato come tale disposizione sia stata introdotta con il fine di tutelare quei lavoratori costretti a rimanere assenti dal lavoro poiché sottoposti alle misure di quarantena e di isolamento fiduciario equiparando detta assenza alla malattia ed escludendone la computabilità ai fini del periodo di comporto.
Alla luce di quanto sopra, secondo il Tribunale, nel caso di specie, non avrebbero dovuto essere computati, ai fini del superamento del periodo di comporto, sia i giorni di assenza disposti per quarantena che quelli disposti per isolamento dovuto all’accertamento della positività della lavoratrice al virus.
Si legge, infatti, nella sentenza che “la ratio della norma è quella di non far ricadere sul lavoratore le conseguenze dell’assenza dal lavoro che sia riconducibile causalmente alle misure di prevenzione e di contenimento previste dal legislatore e assunte con provvedimento dalle autorità al fine di limitare la diffusione del virus Covid-19, in tutte le ipotesi di possibile o acclarato contagio dal virus e a prescindere dallo stato di malattia, che – come ormai noto – può coesistere o meno con il contagio (caso dei positivi asintomatici)” Si continua poi a leggere nella sentenza che ”anche in caso di contagio con malattia, ciò che contraddistingue la malattia da Covid-19 dalle altre malattie è l’impossibilità, imposta autoritativamente, per il lavoratore di rendere la prestazione lavorativa e per il datore di lavoro di riceverla per i tempi normativamente e amministrativamente previsti, tempi che – ancora una volta – prescindono dall’evoluzione della malattia ma dipendono dalla mera positività o meno al virus”.
Su tali considerazioni il Tribunale ha accolto il ricorso della lavoratrice, annullando il licenziamento e disponendo (i) la sua reintegrazione nel posto di lavoro nonché (ii) il pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, e in ogni caso non superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre interessi e rivalutazione come per legge e oltre al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali.
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