Il Tribunale di Treviso, con decreto del 1° luglio 2020, ha osservato che la costituzione del Comitato interno ex art. 13 del Protocollo Condiviso del 14 marzo 2020 (successivamente aggiornato il 24 aprile u.s.) per l’applicazione e la verifica delle regole in esso stabilite all’interno dei luoghi di lavoro deve intervenire nell’ambito di ciascuna unità produttiva locale. Se l’impresa è dotata di più sedi aziendali, non è sufficiente la costituzione di un comitato a livello centrale.
Il caso di specie trae origine da un procedimento ex art. 28 dello Statuto dei lavoratori attivato da una organizzazione sindacale nei confronti di una società di servizi di pulizia e sanificazione svolti all’interno delle strutture ospedaliere. In particolare, l’organizzazione sindacale lamentava la condotta antisindacale della società che non avere costituito, all’interno dell’ospedale di Treviso, il Comitato per l’applicazione e la verifica delle regole del “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”.
La società si era limitata a costituire un unico Comitato centrale per la sede operativa Nord Est del quale, tuttavia, non facevano parte né erano in qualche modo state coinvolte le RSA e RLS Cisl dell’ospedale di Treviso.
Infine, l’organizzazione sindacale si doleva della gestione deficitaria dell’emergenza sanitaria in quanto non erano mai stati effettuati i controlli sullo stato di salute dei lavoratori impegnati nei servizi di pulizia presso l’ospedale neanche al rientro di costoro da periodi di malattia.
Secondo il Tribunale trevigiano la previsione del Protocollo Condiviso relativa alla costituzione “in azienda” di un Comitato per l’applicazione e la verifica delle regole del protocollo interno con “la partecipazione delle rappresentanze sindacali aziendali e delle RLS”, deve essere letta nel senso che i comitati debbono essere attivati nella specifica realtà territoriale e ambientale in cui si collocano le attività lavorative aziendali. Ciò “in quanto luogo dove si manifestano le concrete e specifiche esigenze da monitorare, attenzionare, risolvere in modo condiviso”.
Pertanto, la condotta dell’impresa che non solo omette la costituzione dei Comitati a livello locale, ma anche non coinvolge nella costituzione del Comitato centrale le RSA delle sedi aziendali territoriali è configurabile quale condotta antisindacale poiché lesiva di prerogative sindacali così come specificamente previste e conformate dalla normativa anti Covid.
La ratio di tale conclusione risiede nel rilievo che la pandemia ha avuto una diffusione irregolare sul territorio italiano che ha richiesto interventi e risposte differenti sulla base delle specifiche dinamiche assunte localmente dalla diffusione del coronavirus.
Il Tribunale, infine, ha colto l’occasione per specificare che il carattere vincolante del Protocollo Condiviso deriva dall’aver assurto quest’ultimo rango di fonte primaria a seguito del suo recepimento da parte del DPCM 26 aprile 2020.
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L’epidemia da COVID-19 e le connesse esigenze volte, da un lato, a limitare la diffusione del virus e, da l’altro, a garantire la continuità operativa aziendale, hanno risvegliato negli ultimi mesi l’interesse per il lavoro agile.
Come noto, il lavoro agile trova la propria fonte normativa “ordinaria” nella Legge n. 81/2017 che ha disciplinato tale articolazione flessibile della prestazione lavorativa in termini di tempo e di luogo, nella prospettiva di un incremento della competitività e di una maggiore possibilità di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.
Proprio in questa ottica di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro la legge di bilancio per il 2019 ha posto a carico dei datori di lavoro, che stipulano accordi per lo svolgimento dell’attività lavorativa in modalità agile, l’obbligo di dare priorità alle richieste in tal senso provenienti dalle lavoratrici nei tre anni successivi alla conclusione del congedo di maternità, ovvero ai lavoratori con figli disabili che necessitino di un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale.
I tratti fondamentali di tale modalità flessibile della prestazione consistono, come espressamente previsto dalla citata norma, nella stipulazione di un accordo tra le parti volto a definire l’esecuzione dell’attività lavorativa svolta all’esterno dei locali aziendali, anche con riguardo alle forme di esercizio del potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro e agli strumenti utilizzati dal lavoratore.
Considerate le peculiari modalità di svolgimento della prestazione, l’accordo deve inoltre individuare i tempi di riposo e le misure tecniche ed organizzative necessarie per assicurare il c.d. diritto alla disconnessione del lavoratore.
Con l’emergenza sanitaria in corso, il Governo ha dato nuova vita al lavoro agile, adattandolo alle nuove esigenze emergenziali: ciò ha comportato una sostanziale modifica sia delle finalità dell’istituto sia dei requisiti richiesti per la relativa attivazione.
Quanto al primo profilo, è agevole rilevare come la finalità cardine del lavoro agile, che potremmo definire “emergenziale”, sia consistita e tuttora consista nell’arginare la diffusione del virus nonché, specularmente, nell’evitare il blocco dell’attività d’impresa.
Si rammenta, infatti, che già con il D.P.C.M. del 23 febbraio 2020, il Governo ha introdotto le prime misure di contenimento e di gestione dell’emergenza epidemiologica, prevedendo, sia pure limitatamente ad alcuni territori del nord Italia (la cd. zona rossa), un’applicazione del lavoro agile “in via automatica ad ogni rapporto di lavoro subordinato nell’ambito di aree considerate a rischio”.
Con il D.P.C.M. del 4 marzo 2020, tale misura di contenimento del virus è stata successivamente estesa a tutto il territorio nazionale, con l’espressa introduzione di modalità attuative derogatorie rispetto alla disciplina ordinaria per tutta la durata dello stato di emergenza di cui alla deliberazione del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020 (ovverosia fino al 31 luglio 2020).
Il Governo ha, infatti, previsto che il lavoro agile emergenziale possa essere attivato anche in assenza degli accordi individuali e con la possibilità di assolvere agli obblighi di informativa in via telematica ricorrendo alla documentazione resa disponibile dall’INAIL.
Si consideri, altresì, che le parti sociali, con la sottoscrizione del Protocollo del 14 marzo 2020, aggiornato il successivo 24 aprile, hanno ribadito che, ove possibile, il lavoro agile debba essere preferito alle altre modalità di svolgimento della prestazione. Non solo. Le parti sociali hanno precisato, che il lavoro agile deve essere favorito anche nella fase di riattivazione del lavoro, in quanto considerato strumento di prevenzione dal contagio.
Nella fase emergenziale è stata, inoltre, introdotta una serie di diritti e di priorità nell’accesso al lavoro agile in capo a determinate categorie di lavoratori fino al termine dello stato di emergenza.
Basti richiamare a tal proposito l’art. 39 del D.L. Cura Italia (così come convertito dalla L. n. 27 del 24 aprile 2020) che ha espressamente attribuito ai lavoratori dipendenti disabili nelle condizioni di cui all’art. 3, comma 3, della Legge n. 104/92 o che abbiano nel proprio nucleo familiare una persona con disabilità il diritto a svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile, e ciò a condizione che tale modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione.
Si pensi ancora alla priorità nell’accoglimento delle istanze di svolgimento delle prestazioni lavorative in modalità agile, pure garantita dall’articolo sopra citato, a quei lavoratori affetti da gravi e comprovate patologie con ridotta capacità lavorativa.
Da ultimo, il D.L. n. 34 del 19 maggio 2020 (c.d. “Decreto Rilancio”) – oltre a ribadire che la modalità di lavoro agile può essere attuata dai datori di lavoro privati anche in assenza degli accordi individuali – ha riconosciuto, fino alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica da COVID, il diritto al lavoro agile ai genitori con figli di età inferiore a 14 anni. Ciò a condizione che nel nucleo familiare non vi sia altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione dell’attività lavorativa o che non vi sia genitore non lavoratore.
Continua qui a leggere la versione integrale dell’articolo.
Fonte: Agendadigitale.eu
Alberto De Luca parteciperà in qualità di relatore al convegno “I nuovi strumenti di finanziamento nell’emergenza Covid-19” organizzato da Convenia il prossimo 7 luglio.
Martedì 7 Luglio 2020
Evento in videoconferenza
(ore 9.30 – 13.00 / 14.00 – 16.00)
Durante il suo intervento, Alberto De Luca approfondirà i vincoli e gli impegni delle imprese beneficiarie dei finanziamenti nei rapporti di lavoro.
In particolare, l’intervento si focalizzerà sulle seguenti tematiche:
Clicca qui per consultare il programma e per ricevere ulteriori dettagli.
L’INAIL, il 20 maggio u.s., ha pubblicato la circolare 22 con la quale ha fornito alcuni chiarimenti in merito alla qualificazione dell’infezione da Covid-19 quale infortunio sul lavoro.
L’articolo 42, comma 2, del Decreto legge 18 del 17 marzo 2020, più comunemente noto come “Decreto Cura Italia”, successivamente convertito nella legge 24 aprile 2020, n. 27, dispone che «Nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS-CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato».
Sul tema l’Istituto assicurativo è intervenuto con la circolare 3 aprile 2020, n. 13 fornendo le indicazioni operative per la tutela dei lavoratori che hanno contratto l’infezione in occasione di lavoro a seguito dell’entrata in vigore della disposizione di cui sopra. L’Istituto ha affermato, nello specifico, che sia per gli operatori sanitari, esposti a un elevato rischio di contagio specifico, sia per coloro che svolgono attività lavorative che comportano il costante contatto con il pubblico e/o con l’utenza, vige una presunzione semplice di origine professionale dell’infezione da Covid-19 che, giova chiarirlo, “ammette sempre la prova contraria”.
Nella circolare 22 del 20 maggio l’INIAL ha, anzitutto, ribadito che l’art. 42, comma 2 del Decreto Cura Italia non ha fatto altro che riaffermare un principio già espresso da decenni dalla giurisprudenza, in virtù del quale le patologie infettive (come, ad esempio, l’epatite o l’AIDS), se contratte in occasione di lavoro, sono da sempre inquadrate e trattate come infortunio sul lavoro. Ciò in quanto la causa virulenta viene equiparata alla causa violenta propria dell’infortunio, anche quando i suoi effetti si manifestino dopo un certo tempo.
Con riferimento all’accertamento dell’avvenuto contagio, l’Istituto ha precisato che, nonostante la presunzione semplice di cui sopra, non sussiste alcun automatismo ai fini dell’ammissione alla tutela previdenziale. Occorre sempre accertare la sussistenza dei fatti noti, cioè di indizi gravi, precisi e concordanti, sui quali deve fondarsi la presunzione semplice di origine professionale.
Pertanto, la presunzione semplice presuppone l’accertamento rigoroso dei fatti e delle circostanze che facciano fondatamente desumere che il contagio sia avvenuto in occasione di lavoro (quali le modalità di svolgimento dell’attività lavorativa, le indagini circa i tempi di comparsa delle infezioni, etc.), ferma restando la possibilità di prova contraria da parte dell’Istituto.
In conclusione, il riconoscimento dell’origine professionale del contagio si fonda su un giudizio di ragionevole probabilità ed è totalmente avulso da ogni valutazione in ordine alla imputabilità di eventuali comportamenti omissivi in capo al datore di lavoro che possano essere stati causa del contagio.
A tal proposito, l’Istituto assicurativo tenta di porre fine ad un dibattito di recente sorto sull’argomento chiarendo che il riconoscimento dell’origine professionale del contagio è cosa ben diversa dall’affermare la responsabilità penale e civile in capo al datore di lavoro per l’infezione da Covid-19 contratta dai suoi dipendenti. Affinché si configurino le predette responsabilità è necessaria, oltre alla rigorosa prova del nesso di causalità, quella dell’imputabilità della condotta tenuta dal datore di lavoro quantomeno a titolo di colpa.
Pertanto, i presupposti per l’erogazione di un indennizzo Inail non possono essere confusi con i presupposti per la responsabilità penale e civile che devono essere rigorosamente accertati con criteri diversi da quelli previsti per il riconoscimento del diritto alle prestazioni assicurative.
Quanto chiarito dall’Istituto assicurativo è, peraltro, in linea con le recenti pronunzie giurisprudenziali espresse in materia, secondo le quali “[…] non si può automaticamente presupporre, dal semplice verificarsi del danno, l’inadeguatezza delle misure di protezione adottate, ma è necessario, piuttosto, che la lesione del bene tutelato derivi causalmente dalla violazione di determinati obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche in relazione al lavoro svolto” (Cass. n.3282/2020).
Poste tali premesse, l’Istituto conclude affermando che la responsabilità del datore di lavoro è ipotizzabile solo in caso di violazione della legge o di obblighi derivanti dalle conoscenze sperimentali o tecniche, che nel caso dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 si possono rinvenire nei protocolli e nelle linee guida governativi e regionali.
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In questa sede, verranno esaminate la nota diffusa dal Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bergamo il 12 maggio 2020 e la previsione contenuta nell’articolo 1.3 dell’Ordinanza della Regione Lombardia 547 del successivo 17 maggio relativa alla misura della rilevazione della temperatura corporea.
Entrambi i documenti si preoccupano di fornire chiarimenti e indicazioni operative per assicurare una business continuity o una ripresa dell’attività aziendale in sicurezza.
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La Procura della Repubblica di Bergamo, con nota del 12 maggio 2020, preso atto della riapertura di numerose attività produttive, ha inteso offrire indicazioni operative agli Organi di Vigilanza deputati alla verifica dell’applicazione del Protocollo condiviso di regolamentazione per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus COVID19 negli ambienti di lavoro del 24 aprile 2020 (il “Protocollo”).
Oltre a far cenno dei numerosi provvedimenti emergenziali che si sono susseguiti per il contenimento dell’emergenza da diffusione del COVID19, la nota sottolinea che ai sensi del comma 6 dell’articolo 2 del DPCM 26 aprile 2020 le imprese, le cui attività non sono sospese, devono rispettare i contenuti, tra l’altro, del Protocollo.
Precisato ciò, la nota affronta la questione della natura dei contenuti del Protocollo e delle sanzioni previste in caso di inosservanza.
Al tal proposito, la nota sottolinea che:
La Procura evidenzia, tuttavia, che l’impianto sanzionatorio di cui alla Legge 689/1981 non prevede il potere di prescrivere l’adozione di misure organizzative e gestionali “che produrrebbero il virtuoso effetto dell’adeguamento dei luoghi di lavoro alle precauzioni anti-contagio indicate nei protocolli e, quindi, il miglioramento delle condizioni di sicurezza e di igiene allo scopo di ridurre il fattore di rischio Covid-19”.
Per sopperire a questa lacuna, la nota sostiene che alle misure di contenimento contenute nel Protocollo corrispondano i precetti di cui alle norme del D.Lgs. 81/2008 e riprendendo l’articolazione del Protocollo, riporta i seguenti punti in comune:
Limitatamente, alle società con sedi site nella Regione Lombardia, di fondamentale importanza, per poter assicurare una safety business continuity o una ripresa dell’attività lavorativa in sicurezza, è l’Ordinanza regionale 547 emessa il 17 maggio 2020 ed efficace sino al successivo 31 maggio. La violazione delle disposizioni in essa contenute comporta l’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 2 D. L. n. 33/2020.
In questa sede, ci si soffermerà sulla previsione contenuta nell’articolo 1.3 relativa alla rilevazione della temperatura corporea da parte del datore di lavoro o di un suo delegato.
Nello specifico il predetto articolo prevede che il datore di lavoro o un suo delegato è tenuto a rilevare la temperatura corporea del personale dipendente prima dell’accesso al luogo di lavoro o anche qualora durante l’attività il lavoratore dovesse manifestare i sintomi di infezione da COVID19.
Se tale temperatura dovesse risultare superiore ai 37,5°, non sarà consentito l’accesso o la permanenza nel luogo di lavoro. Le persone in tale condizione saranno momentaneamente isolate e non dovranno recarsi al Pronto Soccorso e/o nelle infermerie di sede.
Il datore di lavoro sarà tenuto a comunicare tempestivamente tale circostanza, tramite il medico competente di cui al D.Lgs. 81/2008 e/o l’ufficio del personale, all’ATS territorialmente competente, la quale fornirà le opportune indicazioni cui la persona interessata dovrà attenersi.
Nel caso in cui il lavoratore prenda servizio in un luogo di lavoro o svolga la propria prestazione con modalità particolari che non prevedono la presenza fisica del datore di lavoro o suo delegato:
Da ultimo, l’ordinanza “raccomanda fortemente” la rilevazione della temperatura anche nei confronti dei clienti/utenti, prima dell’accesso. La raccomandazione si trasforma in un obbligo, in caso di accesso ad attività di ristorazione con consumo sul posto
Se la temperatura dovesse risultare superiore a 37,5°, non sarà consentito l’accesso alla sede e l’interessato sarà informato della necessità di contattare il proprio medico curante.
L’ordinanza si preoccupa di considerare anche l’ipotesi in cui il datore di lavoro non sia fornito di uno strumento di rilevazione idoneo per difficoltà di reperimento sul mercato, ammettendo solo in via transitoria, che lo stesso o suo delegato verifichi all’arrivo sul luogo di lavoro, la temperatura che il dipendente o anche il cliente, prova con strumento personale idoneo.
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