Come ormai noto, lo scorso 23 febbraio 2023 si è appreso che la Commissione Europea ha richiesto a tutti i dipendenti e collaboratori dell’Istituzione di disinstallare l’applicazione del social network TikTok dai propri dispositivi elettronici, sia aziendali che personali. Tale richiesta è stata accompagnata dall’avviso che, per coloro che non avessero provveduto a disinstallare il social network entro il successivo 15 marzo, non sarebbe stato più possibile accedere ad altre applicazioni aziendali quali la casella di posta elettronica o i servizi Skype.
La decisione assunta dall’Istituzione europea deriva da una esigenza di protezione dei dati e delle informazioni di quanti lavorano per essa nonché dalla necessità di aumentare la sicurezza informatica.
In Italia un datore di lavoro del settore privato potrebbe adottare la stessa decisione?
Nel tentativo di fornire una risposta a tale complesso quesito, occorre anzitutto distinguere tra dispositivi aziendali e dispositivi personali. Se forniti dal datore di lavoro, gli strumenti elettronici, tra i quali rientra il telefono cellulare, costituiscono dotazioni aziendali e, in quanto tali, il datore di lavoro ha la possibilità di adottare su di essi un certo “controllo”.
Tramite, infatti, l’individuazione e l’adozione di politiche interne atte a definire regole per un corretto utilizzo degli strumenti di lavoro di cui sono dotati i suoi dipendenti, il datore di lavoro ha la possibilità di introdurre regole finalizzate a impedire un utilizzo improprio dello strumento assegnato, vietarne un impiego per fini personali piuttosto che inibire la possibilità di installare sul dispositivo applicazioni non connesse all’attività lavorativa.
In caso di assegnazione di strumenti aziendali è dunque altamente raccomandabile adottare politiche e regolamenti interni che disciplinino il corretto uso che gli assegnatari possono farne: tali aspetti, infatti, hanno delle conseguenze trasversali su diversi profili connessi alla gestione del rapporto di lavoro – basti pensare, ad esempio, ai temi in materia (i) di diritto del lavoro che ricomprendono anche aspetti inerenti alle sanzioni disciplinari adottabili in caso di violazione delle regole aziendali nonché di corretto esercizio del potere di controllo esercitabile dal datore di lavoro, (ii) di protezione dei dati personali, tanto dei lavoratori stessi quanto dei dati che trattano in ragione delle loro mansioni nonché (iii) di salute e sicurezza e dei rischi ai quali potrebbero essere esposti i lavoratori che ne fanno uso.
Diverse, invece, sono le conclusioni alle quali si può giungere in tema di dispositivi personali. Trattandosi, infatti, di strumenti propri del lavoratore il datore di lavoro può limitare, o anche eventualmente escludere, l’utilizzo dei telefoni cellulari personali durante la giornata lavorativa senza però entrare nel merito di ciò che sia possibile o non sia possibile installare sugli stessi.
Alle complesse tematiche di cui sopra, si aggiunge, da ultimo che l’uso di strumenti elettronici, siano essi personali o aziendali, espone il patrimonio aziendale al rischio di perdite accidentali, furti e diffusioni. Pertanto, i datori di lavoro devono avere cura di adottare tutte le misure idonee ad assicurare livelli di sicurezza sufficientemente elevati nel pieno rispetto di tutte le normative applicabili in tali circostanze.
In ragione delle valutazioni sin qui esposte, che in ogni caso meriterebbero di essere ulteriormente approfondite, non appare possibile per un datore di lavoro italiano intervenire direttamente sui dispostivi elettronici personali dei propri dipendenti al pari di quanto fatto dalla Commissione Europea. Tuttavia, definire, adottare e aggiornare nel tempo politiche che regolamentino l’uso degli strumenti di lavoro ovvero l’uso dei dispositivi personali – durante, ad esempio, i tempi di riposo nell’arco della giornata lavorativa – appare una misura fondamentale che le aziende dovrebbero considerare nella più ampia definizione del piano strategico di tutela tanto del patrimonio aziendale quanto dei soggetti che compongono l’organizzazione di riferimento.
Il Tar del Lazio, con la sentenza n. 15644 del 23.11.22, ha chiarito, tra le altre, che il datore di lavoro è il solo soggetto titolare della facoltà di installare impianti audio visivi dai quali possa derivare la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori. Il caso in esame nasceva a seguito della richiesta di una società operante nel settore del trasporto per conto terzi che, secondo quanto previsto dal contratto
di appalto sottoscritto, avrebbe dovuto installare sui propri mezzi degli impianti di videoregistrazione, mantenendo la disponibilità delle immagini in capo alla committente. I sistemi così concepiti, si legge nella pronuncia, avrebbero fatto capo a soggetti diversi dal datore di lavoro, disattendendo quanto previsto dalla disciplina applicabile in materia. Ciò in quanto le ragioni giustificatrici dell’installazione della
strumentazione necessaria al raggiungimento di tali finalità, ed addotte dall’art. 4 l. 300/70 (lo “Statuto dei Lavoratori”), ossia (i) la tutela del patrimonio aziendale, (ii) la finalità di sicurezza ed incolumità del personale nonché (iii) il corretto adempimento di procedure organizzative e produttive, possono essere riconducibili, ricorda il Tribunale adito, esclusivamente al datore di lavoro.
Con il comunicato stampa del 28 novembre u.s., il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha reso noto il decreto ministeriale del 20 ottobre 2022 con il quale vengono definiti criteri e modalità di concessione dell’esonero contributivo per i datori di lavoro privati che conseguano la certificazione della parità di genere introdotta nel nostro ordinamento dalla Legge n. 162/2021.
Si tratta di una certificazione volontaria che le aziende più virtuose possono richiedere e il cui ottenimento porta con sé una serie di agevolazioni tra cui: sgravi contributivi in misura non superiore all’1% e nel limite massimo di € 50.000,00 / anno per ciascuna azienda; criteri di vantaggio in caso di gare d’appalto; possibilità di accedere a un punteggio premiale per la valutazione, da parte di autorità titolari di fondi europei nazionali e regionali, di proposte progettuali ai fini della concessione di aiuti di Stato a cofinanziamento degli investimenti sostenuti.
Al fine di ottenere l’esonero contributivo, il decreto stabilisce che le aziende in possesso della certificazione potranno inoltrare, esclusivamente per via telematica, la domanda di esonero all’Inps, secondo le istruzioni che l’istituto provvederà a indicare.
Tale domanda dovrà indicare una serie di informazioni tra cui (i) i dati identificativi dell’azienda (ii) la retribuzione media mensile e l’aliquota media stimata relative al periodo di validità della certificazione di parità (iii) la dichiarazione sostitutiva, rilasciata ai sensi del d.P.R. n. 445/2000, con cui l’azienda dichiara di essere in possesso della certificazione di parità di genere (iv) il periodo di validità della certificazione.
L’Inps verificherà le domande sulla base delle informazioni in suo possesso (e di quelle trasmesse dal Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio) e ammetterà l’azienda al beneficio per l’intero periodo di validità della certificazione.
L’esonero, parametrato su base mensile, sarà fruito dai datori di lavoro mediante riduzione dei contributi previdenziali a loro carico per tutte le mensilità di validità della certificazione, a condizione che la certificazione non venga revocata e non intervengano provvedimenti di sospensione dei benefici contributivi adottati dall’Ispettorato nazionale del lavoro.
Altri insights correlati:
Parità di genere: definiti i parametri per ottenere la certificazione
Martedì 3 maggio, De Luca & Partners e HR Capital hanno organizzato un nuovo HR Virtual Breakfast.
Luca Cairoli, Associate del nostro Studio e il Consulente del Lavoro Andrea Di Nino di HR Capital hanno fatto il punto sui contratti a termine, con un focus tecnico e normativo sulle regole e le prospettive per i datori di lavoro, con la moderazione del nostro Partner, Enrico De Luca.
“La disciplina normativa dei contratti a termine è stata negli anni soggetta a numerose modifiche ispirate in alcuni casi da istanze di liberalizzazione ed in altri da una contrapposta volontà di rigida regolamentazione.
Da ultimo, il d. l. n. 73 del 2021 (c.d. “Decreto Sostegni bis”), convertito con la l. n. 106 del 2021, è intervenuto, modificando l’art. 19, comma 1, d.lgs. n. 81/2015 e introducendo una delega alla contrattazione collettiva (nazionale, territoriale e aziendale) circa la possibilità di individuare specifiche esigenze per la stipula di un contratto a tempo determinato di durata superiore a 12 mesi (fermo restando il limite di durata massima di 24 mesi).
In attesa che la contrattazione collettiva dia forma al dettato normativo, possiamo senz’altro ritenere che la modifica, da ultimo intervenuta, vada accolta in senso positivo, ponendosi la stessa in un’ottica di maggior flessibilizzazione per le aziende nell’utilizzo dei contratti a termine”.
Info a: events@delucapartners.it
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 2246 del 26 gennaio 2022, ha stabilito che il dirigente che invia ai vertici aziendali una mail astiosa tiene un comportamento idoneo a turbare il rapporto di fiducia che lo lega al datore di lavoro, pur in assenza di un formale inadempimento degli obblighi lavorativi.
I fatti di causa
Un dirigente apicale veniva licenziato per giusta causa per aver inviato ai vertici aziendali una e-mail dal seguente tenore “voi avete tradito la mia fiducia e buona fede e non so quanto potrò andare avanti a sopportare questo vostro comportamento che giudico inqualificabile”.
Il dirigente licenziato conveniva in giudizio l’azienda ex datrice di lavoro (i) eccependo che tali esternazioni erano state provocate da un unico episodio che aveva innescato in lui una forte reazione psicologica e (ii) chiedendo la sua condanna al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso e dell’indennità supplementare, secondo quanto previsto dal CCNL dei Dirigenti Industria, oltre al risarcimento dei danni per demansionamento e mobbing.
Il Tribunale accoglieva parzialmente il ricorso, ritenendo che il licenziamento, benché privo di giusta causa, fosse “giustificato” in base al CCNL di categoria, ossia non pretestuoso né arbitrario: di qui il riconoscimento al dirigente della sola indennità sostitutiva del preavviso, con rigetto delle altre domande.
Anche la Corte di Appello si conformava alla decisione del primo giudice, evidenziando che “l‘esternazione alla datrice di lavoro di quanto si legge nella contestata missiva telematica (…), pur non integrando la giusta causa di licenziamento, consentiva di ritenere configurata, alla luce del ruolo apicale e della conseguente intensità del vincolo fiduciario, la nozione di giustificatezza di fonte pattizia collettiva, con conseguente non debenza della indennità supplementare”.
Il dirigente provvedeva così a proporre ricorso in cassazione.
La decisione della Corte di Cassazione
La Corte investita della causa ha, innanzitutto, osservato che, per giurisprudenza costante, “ai fini della giustificatezza” del licenziamento del dirigente non è necessaria una analitica verifica di specifiche condizioni ma è sufficiente una valutazione globale che escluda l’arbitrarietà del recesso, poiché intimato con riferimento a circostanze idonee a turbare il vincolo fiduciario che lo lega al datore di lavoro. Viene così ad assumere rilevanza qualsiasi motivo che sorregga, con motivazione coerente e fondata su ragioni apprezzabili sul piano del diritto, il recesso. E nel caso di specie, il comportamento del dirigente viene ritenuto idoneo, in applicazione dei canoni generali di buona fede e correttezza contrattuale, a turbare il rapporto di fiducia con il datore di lavoro, pur in assenza di un formale inadempimento degli obblighi lavorativi.
Secondo la Corte di Cassazione, nel caso di specie, il recesso è infatti giustificato dall’esigenza dell’imprenditore di poter fare pieno affidamento sul dirigente per l’esecuzione delle direttive a lui impartite.
In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso del dirigente, condannandolo al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.
Altri insights correlati: