La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 2246 del 26 gennaio 2022, ha stabilito che il dirigente che invia ai vertici aziendali una mail astiosa tiene un comportamento idoneo a turbare il rapporto di fiducia che lo lega al datore di lavoro, pur in assenza di un formale inadempimento degli obblighi lavorativi.

I fatti di causa

Un dirigente apicale veniva licenziato per giusta causa per aver inviato ai vertici aziendali una e-mail dal seguente tenore “voi avete tradito la mia fiducia e buona fede e non so quanto potrò andare avanti a sopportare questo vostro comportamento che giudico inqualificabile”.

Il dirigente licenziato conveniva in giudizio l’azienda ex datrice di lavoro (i) eccependo che tali esternazioni erano state provocate da un unico episodio che aveva innescato in lui una forte reazione psicologica e (ii) chiedendo la sua condanna al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso e dell’indennità supplementare, secondo quanto previsto dal CCNL dei Dirigenti Industria, oltre al risarcimento dei danni per demansionamento e mobbing.

Il Tribunale accoglieva parzialmente il ricorso, ritenendo che il licenziamento, benché privo di giusta causa, fosse “giustificato” in base al CCNL di categoria, ossia non pretestuoso né arbitrario: di qui il riconoscimento al dirigente della sola indennità sostitutiva del preavviso, con rigetto delle altre domande.

Anche la Corte di Appello si conformava alla decisione del primo giudice, evidenziando che “l‘esternazione alla datrice di lavoro di quanto si legge nella contestata missiva telematica (…), pur non integrando la giusta causa di licenziamento, consentiva di ritenere configurata, alla luce del ruolo apicale e della conseguente intensità del vincolo fiduciario, la nozione di giustificatezza di fonte pattizia collettiva, con conseguente non debenza della indennità supplementare”.

Il dirigente provvedeva così a proporre ricorso in cassazione.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte investita della causa ha, innanzitutto, osservato che, per giurisprudenza costante, “ai fini della giustificatezza” del licenziamento del dirigente non è necessaria una analitica verifica di specifiche condizioni ma è sufficiente una valutazione globale che escluda l’arbitrarietà del recesso, poiché intimato con riferimento a circostanze idonee a turbare il vincolo fiduciario che lo lega al datore di lavoro. Viene così ad assumere rilevanza qualsiasi motivo che sorregga, con motivazione coerente e fondata su ragioni apprezzabili sul piano del diritto, il recesso. E nel caso di specie, il comportamento del dirigente viene ritenuto idoneo, in applicazione dei canoni generali di buona fede e correttezza contrattuale, a turbare il rapporto di fiducia con il datore di lavoro, pur in assenza di un formale inadempimento degli obblighi lavorativi. 

Secondo la Corte di Cassazione, nel caso di specie, il recesso è infatti giustificato dall’esigenza dell’imprenditore di poter fare pieno affidamento sul dirigente per l’esecuzione delle direttive a lui impartite.

In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso del dirigente, condannandolo al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.

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Digitalizzazione e sostenibilità sono due delle tematiche al centro del dibattito circa le sfide che le aziende dovranno affrontare in un futuro divenuto ormai prossimo. Ad oggi, il termine “digitalizzazione” (o “digital transformation”) indica ancora comunemente il processo di introduzione di tecnologie digitali all’interno degli ambienti di lavoro anche applicate agli strumenti messi a disposizione delle risorse per l’esecuzione delle prestazioni lavorative. Tuttavia, l’evoluzione delle tecnologie e dei processi identifica sempre di più il concetto di digitalizzazione con una vera e propria trasformazione culturale, metodologica e manageriale delle modalità di svolgimento delle attività lavorative. Tecnologia e digital transformation rappresentano gli strumenti principali per migliorare l’efficienza delle aziende in ottica di ottimizzazione, semplificazione e accelerazione dei processi e, in generale, dei rapporti con tutti gli stakeholders. Accanto a queste sfide, un secondo obiettivo che le aziende si trovano ormai a dover perseguire e che influirà sulle strategie di business e sulle scelte di governance,è connesso ai concetti di “sostenibilità” e di “sviluppo sostenibile”. L’acronimo ESG, che sta per Enviromental, Social and Governance, fa riferimento a tutte le problematiche ambientali, sociali e di amministrazione aziendale su cui le attività delle organizzazioni dovranno indirizzarsi. Tra i fattori ricompresi, oltre a quelli riconducibili alla sostenibilità ambientale (“fattore E”), vi rientrano principi quali l’inclusione e l’integrazione tra le risorse umane con conseguenze in termini di tutela dei diritti umani (“fattore S”) nel rispetto dei quali dovrà tenersi conto di variabili come le relazioni tra i dipendenti, i sistemi di remunerazione e le modalità con cui la struttura organizzativa della società viene condotta (“fattore G”). Sulla base di ciò, è opportuno considerare che accanto all’ambiente non si può prescindere dal garantire una gestione equa e sustainability oriented delle risorse.

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La Corte di giustizia dell’Unione europea torna sul delicato tema dell’utilizzo di simboli religiosi sui luoghi di lavoro con la pronuncia pubblicata il, 15 luglio 2021, nelle cause riunite C-804/18 e C-341/19. Secondo la Corte il divieto di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi forma visibile di espressione delle convinzioni politiche, filosofiche o religiose può essere giustificato dall’esigenza del datore di lavoro “di presentarsi in modo neutrale nei confronti dei clienti o di prevenire conflitti sociali”.

La decisione dei giudici europei ha origine da un ricorso presentato dinanzi al Tribunale del lavoro di Amburgo da due impiegate di una società di diritto tedesco, che sono state invitate a non indossare vistosi segni attestanti la loro appartenenza religiosa.

I giudici del rinvio hanno deciso di interrogare la Corte sull’interpretazione della Direttiva 2000/78. In particolare, è stato chiesto se una norma interna di un’impresa, che vieta ai lavoratori di indossare sul luogo di lavoro segni visibili di convinzioni politiche, filosofiche o religiose costituisca una discriminazione diretta o indiretta fondata sulle convinzioni personali; a quali condizioni l’eventuale differenza di trattamento indirettamente fondata sulle convinzioni personali che discende da una tale norma possa essere giustificata e quali siano gli elementi da prendere in considerazione nell’ambito dell’esame del carattere appropriato di una tale differenza di trattamento.

I giudici comunitari hanno affermato che un regolamento aziendale avente le caratteristiche sopra descritte non costituisce una discriminazione diretta fondata sulle convinzioni personali verso i lavoratori, a condizione che “tale norma sia applicata in maniera generale e indiscriminata“. Una tale imposizione non comporta, secondo la Corte, nemmeno una discriminazione indiretta nella misura in cui il diverso trattamento imposto sia limitato allo stretto necessario, oltre che giustificato dal perseguimento di una politica di neutralità nei confronti dei clienti o degli utenti che risponda a una reale esigenza del datore di lavoro, con onere della prova a carico del datore di lavoro medesimo.

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La Corte di giustizia europea, con la sentenza del 16 luglio 2020 pronunciata nella causa C-610/18, ha stabilito che deve considerarsi  effettivo “datore di lavoro” l’impresa che esercita di fatto l’autorità su un dipendente, sostiene il costo salariale corrispondente e dispone del potere effettivo di licenziarlo, e non l’azienda che si limita a stipulare il contratto di lavoro, con la conseguenza che il rapporto è soggetto alle regole del Paese dove ha sede il datore reale.

Il caso di specie trae origine da una controversia avviata in Olanda da una società con sede a Cipro che aveva stipulato dei contratti di lavoro con autotrasportatori internazionali residenti nei Paesi Bassi; sulla base di detti contratti, la società cipriota veniva designata come il datore di lavoro e dichiarava applicabile ai rapporti di lavoro la propria legislazione. I dipendenti, tuttavia, non avevano mai abitato né lavorato a Cipro prima di detti contratti e durante l’efficacia degli stessi hanno continuato ad abitare nei Paesi Bassi.

Il Tribunale nazionale olandese, tenendo conto di tali circostanze, dichiarava applicabile al rapporto di lavoro degli autotrasportatori la legislazione dei Paesi Bassi in materia di previdenza sociale e investiva la Corte di giustizia europea del compito di spiegare se tale dipendenti dovessero essere considerati come «facenti parte del personale» del soggetto che aveva la posizione formale di datore di lavoro o se, invece, dovessero essere considerati dipendenti dell’impresa alla quale di fatto erano a completa disposizione a tempo indeterminato.

La Corte Ue adita ha così precisato che la conclusione di un contratto di lavoro può essere un indice dell’esistenza di un vincolo di subordinazione tra il dipendente e l’impresa, ma da solo può non bastare; occorre anche tenere conto del modo in cui in concreto le obbligazioni previste dal contratto vengono eseguite.

Pertanto, a prescindere dal tenore letterale del contratto, il datore di lavoro reale è l’ente alla cui autorità effettiva è sottoposto il lavoratore, sul quale grava, di fatto, il costo salariale corrispondente e che dispone del potere effettivo di licenziare. La Corte ricorda inoltre che l’obiettivo del regolamento 1408/71 è di assicurare la libera circolazione dei lavoratori subordinati e autonomi nell’Unione europea, rispettando tuttavia le peculiarità delle legislazioni nazionali in materia di previdenza sociale.

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 10404 del 1° giugno 2020, in linea con un consolidato orientamento, ha espresso il principio in base al quale il riconoscimento dell’infortunio o della malattia professionale da parte dell’Inail non comporta automaticamente la responsabilità del datore di lavoro per i danni sofferti dal dipendente.

I fatti di causa

Il lavoratore di una società di trasporto ricorreva giudizialmente al fine di ottenere il risarcimento del danno biologico provocatogli dalla patologia cui era affetto (afantrite), contratta – a suo dire – a causa dell’inadempimento da parte della stessa dell’obbligo di sicurezza imposto dall’art. 2087 cod. civ.

La Corte d’appello territorialmente competente, nel confermare la sentenza di primo grado di rigetto del ricorso presentato, evidenziava che il lavoratore aveva omesso di fornire la prova del dedotto inadempimento mentre la società convenuta aveva provato “di aver ottemperato nel tempo a tutti gli obblighi normativamente previsti in tema di sicurezza sul lavoro”.

Il lavoratore ricorreva così in cassazione affidandosi a due motivi a cui resisteva la società con controricorso.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione, nel formulare la sua decisione, ha osservato innanzitutto che (i) la responsabilità dell’imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l’integrità fisica del lavoratore discende da norme specifiche e, nell’ipotesi in cui esse non siano rinvenibili, dalla disposizione di ordine generale di cui all’art. 2087 cod. civ. Disposizione questa che costituisce la norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione.

Tuttavia, secondo i Giudici di legittimità, tale responsabilità non può dirsi integrata ogniqualvolta venga diagnosticata una malattia professionale ad un lavoratore. Infatti, in presenza di tali circostanze, incombe proprio sul lavoratore l’onere di provare il fatto che costituisce l’inadempimento datoriale ed il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento ed il danno subìto.

Nel caso di specie, secondo la Corte di Cassazione, il lavoratore non ha fornito la prova dell’asserito inadempimento datoriale e, anzi, la società sua datrice di lavoro ha dimostrato di aver ottemperato a tutti gli obblighi normativamente previsti in tema di sicurezza.

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La decisione della Corte di Cassazione in esame si pone in linea con le recenti circolari 13 e 22 emesse dall’INAIL rispettivamente il 3 aprile 2020 e il successivo 20 maggio in tema di equiparazione del contagio da Covid-19 all’ipotesi di infortunio su lavoro.

Non solo. La decisione è conforme anche al dettato normativo di cui all’art. 29 bis dalla Legge 5 giugno 2020 n. 40, di conversione del Decreto liquidità, in materia di obblighi dei datori di lavoro per la tutela contro il rischio di contagio da Covid-19.

Infatti, detto articolo dispone che, ai fini della tutela contro il rischio di contagio Covid-19, i datori di lavoro adempiono all’obbligo ex art. 2087 cod. civ. mediante (i) l’applicazione delle prescrizioni contenute nel Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 fra il Governo e le parti sociali e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guidadi cui all’art. 1, comma 14, del DL 16 maggio 2020, n. 33, nonché (ii) l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste.

Nell’ipotesi in cui non trovano applicazione le predette prescrizioni rilevano, secondo quanto disposto dalla disposizione de quo, le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

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