In piena emergenza da epidemia di coronavirus, molte aziende sono state costrette a cercare e adottare alternative al normale svolgimento dell’attività lavorativa. In altre parole, da un giorno all’altro hanno dovuto ripensare e riorganizzare il lavoro e rivalutare il cosiddetto lavoro agile. Ma cosa succede invece ad aziende che non hanno voluto o potuto adottare questo nuovo approccio? “Fino a quando non sara’ cessata l’emergenza, il datore di lavoro non è totalmente libero di decidere se ricorrere o meno al lavoro agile. In effetti, il Dpcm dell’11 marzo scorso prevede che sia attuato il massimo utilizzo da parte delle imprese di modalita’ di lavoro agile per le attivita’ che possono essere svolte al proprio domicilio o in modalita’ a distanza”, osserva Vittorio De Luca dello Studio De Luca & Partners. Il legale invita tuttavia a considerare che “sul datore di lavoro incombe un preciso obbligo di protezione della salute psico-fisica del lavoratore”. In altre parole. “l’imprenditore e’ tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che – secondo la particolarita’ del lavoro, l’esperienza e la tecnica – sono necessarie a tutelare l’integrita’ fisica e la personalita’ morale dei prestatori di lavoro. Deve cioe’ adottare tutte le misure tassativamente imposte dalla legge in relazione allo specifico tipo di attivita’ esercitata, le misure generiche dettate dalla comune prudenza e tutte le altre misure che, in concreto, si rendano necessarie per la tutela del lavoratore”. La violazione di questo obbligo, dice De Luca, “comporta il rischio che sia imputata al datore di lavoro la responsabilita’, in questo caso, di un eventuale contagio e della diffusione dello stesso. Potrebbe essere pertanto chiamato a risarcire il lavoratore per l’eventuale danno patito e a rispondere dei reati che danno origine alla responsabilita’ amministrativa della societa’”.
Qui la news lanciata da Finanza TgCom24.
In merito al lavoro agile e diffusione del virus Covid-19, Vittorio De Luca dello Studio De Luca & Partners commenta: “Siamo in piena emergenza e molte aziende sono state improvvisamente costrette a cercare e ad adottare prontamente alternative al normale svolgimento dell’attività lavorativa.
Anche LeUltimeNotizie.eu riprendono la notizia lanciata da Affari Italiani in merito al commento di Vittorio De Luca.
Legal Community rilancia il commento di De Luca & Partners.
Siamo in piena emergenza da Covid-19 e molte aziende sono state improvvisamente costrette a cercare e ad adottare prontamente alternative al normale svolgimento dell’attività lavorativa. In altre parole, le aziende da un giorno all’altro hanno dovuto ripensare e riorganizzare il lavoro e rivalutare il cosiddetto lavoro agile.
Ma cosa succede a tutte quelle aziende che non hanno voluto o potuto adottare questo nuovo approccio al lavoro? «In primo luogo – risponde Vittorio De Luca dello Studio De Luca & Partners – diciamo che sino a quando non sarà cessata l’emergenza Covid-19, il datore di lavoro non è totalmente libero di decidere se ricorrere o meno al lavoro agile. In effetti, il DPCM dell’ 11 marzo, prevede che sia attuato il massimo utilizzo da parte delle imprese di modalità di lavoro agile per le attività che possono essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza».
Sul datore di lavoro incombe un preciso obbligo di protezione della salute psico-fisica del lavoratore e l’avvocato De Luca ricorda che questo obbligo «trova la propria fonte nell’art. 2087 cod. civ. L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Il datore di lavoro deve, cioè, adottare tutte le misure tassativamente imposte dalla legge in relazione allo specifico tipo di attività esercitata, le misure generiche dettate dalla comune prudenza e tutte le altre misure che, in concreto, si rendano necessarie per la tutela del lavoratore secondo la particolarità del lavoro, dell’esperienza e della tecnica».
La violazione di questo obbligo comporta il rischio che sia imputata al datore di lavoro la responsabilità, in questo caso, di un eventuale contagio e della diffusione dello stesso. «Il datore di lavoro – conclude l’avvocato – potrebbe essere pertanto chiamato a risarcire il lavoratore per l’eventuale danno patito e a rispondere dei reati che danno origine alla responsabilità amministrativa della società».
Anche AdvFn pubblica il commento di Vittorio De Luca, Managing Partner di De Luca & Partners in merito all’emergenza da epidemia di coronavirus e il ruolo delle aziende costrette a cercare e adottare alternative al normale svolgimento dell’attività lavorativa.
In altre parole, da un giorno all’altro hanno dovuto ripensare e riorganizzare il lavoro e rivalutare il cosiddetto lavoro agile. Ma cosa succede invece ad aziende che non hanno voluto o potuto adottare questo nuovo approccio?
“Fino a quando non sarà cessata l’emergenza, il datore di lavoro non è totalmente libero di decidere se ricorrere o meno al lavoro agile. In effetti, il Dpcm dell’11 marzo scorso prevede che sia attuato il massimo utilizzo da parte delle imprese di modalità di lavoro agile per le attività che possono essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza”, osserva Vittorio De Luca dello Studio De Luca & Partners.
Il legale invita tuttavia a considerare che “sul datore di lavoro incombe un preciso obbligo di protezione della salute psico-fisica del lavoratore”. In altre parole. “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che – secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica – sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Deve cioè adottare tutte le misure tassativamente imposte dalla legge in relazione allo specifico tipo di attività esercitata, le misure generiche dettate dalla comune prudenza e tutte le altre misure che, in concreto, si rendano necessarie per la tutela del lavoratore”.
La violazione di questo obbligo, dice De Luca, “comporta il rischio che sia imputata al datore di lavoro la responsabilità, in questo caso, di un eventuale contagio e della diffusione dello stesso. Potrebbe essere pertanto chiamato a risarcire il lavoratore per l’eventuale danno patito e a rispondere dei reati che danno origine alla responsabilità amministrativa della società”.
Secondo Vittorio De Luca dello Studio De Luca & Partners: «Sino a quando non sarà cessata l’emergenza covid-19, il datore di lavoro non è totalmente libero di decidere se ricorrere o meno al lavoro agile.
Così anche InHouse Community riprende il commento di Vittorio De Luca.
In piena emergenza coronavirus molte aziende sono state improvvisamente costrette a cercare e ad adottare alternative al normale svolgimento dell’attività lavorativa. Da un giorno all’altro hanno dovuto ripensare e riorganizzare il lavoro e rivalutare il lavoro agile. Ma cosa succede a tutte quelle aziende che non hanno voluto o potuto adottare questo nuovo approccio al lavoro?
In effetti, il DPCM dell’ 11 marzo, prevede che sia attuato il massimo utilizzo da parte delle imprese di modalità di lavoro agile per le attività che possono essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza. Occorre poi considerare che sul datore di lavoro incombe un preciso obbligo di protezione della salute psico-fisica del lavoratore che trova la propria fonte nell’art. 2087 cod. civ. L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Il datore di lavoro deve, cioè, adottare tutte le misure tassativamente imposte dalla legge in relazione allo specifico tipo di attività esercitata, le misure generiche dettate dalla comune prudenza e tutte le altre misure che, in concreto, si rendano necessarie per la tutela del lavoratore secondo la particolarità del lavoro, dell’esperienza e della tecnica. La violazione di questo obbligo comporta il rischio che sia imputata al datore di lavoro la responsabilità, in questo caso, di un eventuale contagio e della diffusione dello stesso. Il datore di lavoro potrebbe essere pertanto chiamato a risarcire il lavoratore per l’eventuale danno patito e a rispondere dei reati che danno origine alla responsabilità amministrativa della società».