Legal Community rilancia il commento di De Luca & Partners.

Siamo in piena emergenza da Covid-19 e molte aziende sono state improvvisamente costrette a cercare e ad adottare prontamente alternative al normale svolgimento dell’attività lavorativa. In altre parole, le aziende da un giorno all’altro hanno dovuto ripensare e riorganizzare il lavoro e rivalutare il cosiddetto lavoro agile.

Ma cosa succede a tutte quelle aziende che non hanno voluto o potuto adottare questo nuovo approccio al lavoro? «In primo luogo – risponde Vittorio De Luca dello Studio De Luca & Partners – diciamo che sino a quando non sarà cessata l’emergenza Covid-19, il datore di lavoro non è totalmente libero di decidere se ricorrere o meno al lavoro agile. In effetti, il DPCM dell’ 11 marzo, prevede che sia attuato il massimo utilizzo da parte delle imprese di modalità di lavoro agile per le attività che possono essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza».

Sul datore di lavoro incombe un preciso obbligo di protezione della salute psico-fisica del lavoratore e l’avvocato De Luca ricorda che questo obbligo «trova la propria fonte nell’art. 2087 cod. civ. L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Il datore di lavoro deve, cioè, adottare tutte le misure tassativamente imposte dalla legge in relazione allo specifico tipo di attività esercitata, le misure generiche dettate dalla comune prudenza e tutte le altre misure che, in concreto, si rendano necessarie per la tutela del lavoratore secondo la particolarità del lavoro, dell’esperienza e della tecnica».

La violazione di questo obbligo comporta il rischio che sia imputata al datore di lavoro la responsabilità, in questo caso, di un eventuale contagio e della diffusione dello stesso. «Il datore di lavoro – conclude l’avvocato – potrebbe essere pertanto chiamato a risarcire il lavoratore per l’eventuale danno patito e a rispondere dei reati che danno origine alla responsabilità amministrativa della società».

Anche AdvFn pubblica il commento di Vittorio De Luca, Managing Partner di De Luca & Partners in merito all’emergenza da epidemia di coronavirus e il ruolo delle aziende costrette a cercare e adottare alternative al normale svolgimento dell’attività lavorativa.

In altre parole, da un giorno all’altro hanno dovuto ripensare e riorganizzare il lavoro e rivalutare il cosiddetto lavoro agile. Ma cosa succede invece ad aziende che non hanno voluto o potuto adottare questo nuovo approccio?

“Fino a quando non sarà cessata l’emergenza, il datore di lavoro non è totalmente libero di decidere se ricorrere o meno al lavoro agile. In effetti, il Dpcm dell’11 marzo scorso prevede che sia attuato il massimo utilizzo da parte delle imprese di modalità di lavoro agile per le attività che possono essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza”, osserva Vittorio De Luca dello Studio De Luca & Partners.

Il legale invita tuttavia a considerare che “sul datore di lavoro incombe un preciso obbligo di protezione della salute psico-fisica del lavoratore”. In altre parole. “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che – secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica – sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Deve cioè adottare tutte le misure tassativamente imposte dalla legge in relazione allo specifico tipo di attività esercitata, le misure generiche dettate dalla comune prudenza e tutte le altre misure che, in concreto, si rendano necessarie per la tutela del lavoratore”.

La violazione di questo obbligo, dice De Luca, “comporta il rischio che sia imputata al datore di lavoro la responsabilità, in questo caso, di un eventuale contagio e della diffusione dello stesso. Potrebbe essere pertanto chiamato a risarcire il lavoratore per l’eventuale danno patito e a rispondere dei reati che danno origine alla responsabilità amministrativa della società”.

Secondo Vittorio De Luca dello Studio De Luca & Partners: «Sino a quando non sarà cessata l’emergenza covid-19, il datore di lavoro non è totalmente libero di decidere se ricorrere o meno al lavoro agile.

Così anche InHouse Community riprende il commento di Vittorio De Luca.

In piena emergenza coronavirus molte aziende sono state improvvisamente costrette a cercare e ad adottare alternative al normale svolgimento dell’attività lavorativa. Da un giorno all’altro hanno dovuto ripensare e riorganizzare il lavoro e rivalutare il lavoro agile. Ma cosa succede a tutte quelle aziende che non hanno voluto o potuto adottare questo nuovo approccio al lavoro?

In effetti, il DPCM dell’ 11 marzo, prevede che sia attuato il massimo utilizzo da parte delle imprese di modalità di lavoro agile per le attività che possono essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanzaOccorre poi considerare che sul datore di lavoro incombe un preciso obbligo di protezione della salute psico-fisica del lavoratore che trova la propria fonte nell’art. 2087 cod. civ. L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Il datore di lavoro deve, cioè, adottare tutte le misure tassativamente imposte dalla legge in relazione allo specifico tipo di attività esercitata, le misure generiche dettate dalla comune prudenza e tutte le altre misure che, in concreto, si rendano necessarie per la tutela del lavoratore secondo la particolarità del lavoro, dell’esperienza e della tecnica. La violazione di questo obbligo comporta il rischio che sia imputata al datore di lavoro la responsabilità, in questo caso, di un eventuale contagio e della diffusione dello stesso. Il datore di lavoro potrebbe essere pertanto chiamato a risarcire il lavoratore per l’eventuale danno patito e a rispondere dei reati che danno origine alla responsabilità amministrativa della società».

Elena Cannone si confronterà con imprenditori, manager e esperti al workshop online organizzato domani, mercoledì 11 marzo da RoadJob per condividere ed individuare le migliori modalità di gestione e best practice per fronteggiare l’Emergenza COVID-19.

RoadJob condivide e confronta le misure prese per far fronte all’emergenza Coronavirus nel corso di un workshop online che si terrà il giorno 11 marzo, dalle ore 09.00 alle 10.30.

Il workshop è rivolto a imprenditori e manager, e consisterà in un confronto, con l’intervento di esperti, sulle misure gestionali adottate e da adottare nelle singole aziende.

Interverranno:

  • Elena Cannone di De Luca & Partners
  • Fabrizio Ciannamea di MEC & Partners
  • Giorgio Penati di Tecnologie d’Impresa S.r.l.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21537/2019, ha dichiarato illegittima la disdetta unilaterale del CCNL applicato, operata dal datore di lavoro prima della sua naturale scadenza, anche se accompagnata da un congruo preavviso. Tale potere spetta alle sole parti che hanno sottoscritto il CCNL, ossia alle associazioni sindacali e datoriali. Secondo la Corte di Cassazione, al singolo datore di lavoro non è consentito recedere unilateralmente dal contratto collettivo, neppure adducendo la sua eccessiva onerosità, derivante da una propria situazione di difficoltà economica. Pertanto il datore di lavoro è vincolato al CCNL quand’anche si dissoci dall’organizzazione sindacale di appartenenza. Il datore di lavoro ha, invece, la facoltà di recedere dal Ccnl stipulato a tempo indeterminato e senza predeterminazione del termine di scadenza. Ciò in quanto il contratto non può vincolare per sempre tutte le parti contraenti, altrimenti non si consentirebbe lo sviluppo delle relazioni industriali, andando a vanificare la causa nonché la funzione sociale della contrattazione collettiva. Resta inteso che il recesso deve essere esercitato nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede e senza ledere i diritti intangibili dei lavoratori. Ed in questo caso, a parere della Corte di Cassazione, non sussiste un obbligo a carico del datore di trattare e stipulare il Ccnl con tutte le organizzazioni sindacali. Rientra nell’autonomia negoziale di parte datoriale la possibilità di sottoscrivere un nuovo contratto con organizzazioni sindacali anche diverse da quelle che hanno trattato e sottoscritto il precedente.