Il diffondersi del nuovo virus COVID-19 (cd coronavirus) impone alle aziende di aggiornare il Documento di Valutazione dei rischi (cd DVR), tracciando il nuovo rischio biologico ad esso collegato. Ciò in quanto il datore di lavoro: (i) ai sensi dell’art. 2087 cod. civ., ha il dovere di apprestare tutte le misure di sicurezza al fine di garantire l’integrità fisica e la personalità morale dei dipendenti e (ii) ai sensi del D.Lgs. 81/2008 ha la responsabilità di tutelare i lavoratori dall’esposizione a rischio biologico con la collaborazione del Medico Competente, ove presente. Il datore di lavoro deve individuare misure di prevenzione e prevedere sessioni formative specifiche per i lavoratori coinvolti. Resta inteso che tra le misure di prevenzione da implementare vi sono quelle fornite dal Ministero della salute, tra le quali si annoverano le seguenti: (i) lavarsi frequentemente le mani; (ii) evitare contatti ravvicinati con persone che soffrono di infezioni respiratorie acute; (iii) non toccarsi naso, bocca e occhi con le mani; (iv) pulire le superficie con disinfettante a base di cloro o alcol; (v) evitare contatti con persone che presentano sintomi simil influenzali.
Le notizie sulla diffusione del Coronavirus (nCoV) impongono alle aziende di adottare misure atte a prevenire per quanto possibile il rischio di contagio, in quanto, come è noto, il datore di lavoro:
Sul punto occorre preliminarmente osservare che, nel nostro continente, allo stato, non vi è alcun segnale di diffusione dell’epidemia, in quanto i casi di Coronavirus sono sporadici e non preoccupanti. Per quanto riguarda l’Italia, il Ministero della Salute ha dichiarato che “la circolazione del virus è inesistente”.
Il rischio di contagio, pertanto, è da considerarsi remoto, salvo per coloro che abbiano contatti ravvicinati e protratti con gli ammalati.
Le cautele devono essere adottate in particolare nei confronti del personale dipendente (sia esso di sede o viaggiante) che, in relazione alle proprie funzioni, ha rapporti con i Paesi Orientali e, soprattutto, con la Cina, in alcune zone della quale, l’epidemia è in corso.
In relazione a quanto sopra, in conformità con le indicazioni dettate dal Ministero della Salute il 3 febbraio 2020, i datori di lavoro devono fornire ai dipendenti che lavorano a contatto con il pubblico delle linee guida per evitare la diffusione del virus, ricorrendo alle comuni misure preventive della diffusione delle malattie trasmesse per via respiratoria, ovvero:
Secondo il Ministero, se nel corso dell’attività lavorativa si viene a contatto con un soggetto che risponde alla definizione di caso sospetto ai sensi della precedente circolare del 27 gennaio, occorrerà contattare immediatamente i servizi sanitari segnalando che si tratta di un caso sospetto per nCoV. Nell’attesa dell’arrivo dei sanitari:
I problemi che il rischio di contagio comportano richiedono che il datore di lavoro adotti procedure e fornisca istruzioni al personale dipendente per poter prevenire i rischi di contagio.
Il dipartimento Compliance di De Luca & Partners è a Vostra completa disposizione per fornire il supporto necessario.
Per informazioni e approfondimenti, potete rivolgervi ai Vostri referenti abituali o ad Elena Cannone, coordinatrice del Focus Team Compliance al seguente indirizzo email elena.cannone@delucapartners.it.
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 22367/2019, ha ribadito un suo consolidato orientamento secondo cui, seppur la scelta della tipologia di contratto collettivo nazionale applicabile spetta al datore di lavoro, quest’ultimo deve manifestare e dimostrare la propria decisione in maniera inequivocabile.
I fatti di causa
La fattispecie in esame ha
ad oggetto il licenziamento intimato ad un lavoratore al termine di un periodo
di malattia durato 237 giorni continuativi, motivato dal superamento del
periodo di comporto.
Sia il Giudice di primo grado che la Corte d’Appello territorialmente
competente avevano avevo convenuto che al rapporto di lavoro di che trattasi non
poteva applicarsi il contratto collettivo del settore terziario (contratto
collettivo vigente all’atto dell’assunzione), che prevedeva un periodo di
comporto pari a 180 giorni. Veniva ritenuto, invece, applicabile il contratto
collettivo Confail Confimea, che statuiva un periodo di comporto di 365 giorni.
Secondo i giudici di merito la società non aveva dimostrato la propria adesione
a Confcommercio né potevano considerarsi sufficienti a provare detta affiliazione
i riferimenti riportati nella lettera di assunzione e nelle buste paga, non
avendo la stessa prodotto il CCNL del terziario. Inoltre, i giudici di merito –
considerato che il contratto collettivo di riferimento ai fini
dell’individuazione del periodo di comporto è quello vigente all’epoca del
licenziamento – ritenevano applicabile al caso di specie il CCNL invocato dal
lavoratore. Orbene il licenziamento veniva dichiarato illegittimo e la società
condannata agli effetti reintegratori e risarcitori di cui all’art. 18 L.
300/70.
Avverso la decisione della Corte di Appello, la società ricorreva in cassazione, affidandosi a due motivi.
La decisione della Corte di Cassazione
La società ha eccepito:
La Corte di Cassazione ha dichiarato entrambi i motivi infondati.
Innanzitutto, la Corte di Cassazione ha rimarcato il principio in base al quale i contratti collettivi di lavoro che non sono stati dichiarati efficaci “erga omnes” ai sensi della legge 14 luglio 1959 n. 741, si applicano solamente ai rapporti individuali intercorrenti tra soggetti iscritti alle associazioni stipulanti ovvero tra soggetti che abbiano fatto espressa adesione ai patti collettivi e li abbiano implicitamente recepiti attraverso comportamenti concludenti, desumibili da una costante e prolungata applicazione delle relative clausole ai singoli rapporti (cfr. Cass. 10632/2009).
In riferimento a tale principio, inoltre, la Corte di Cassazione ha osservato che, se una delle parti fa riferimento ad una clausola di un determinato Ccnl non efficace “erga omnes”, basandosi sul rilievo che entrambe si sono sempre ispirate ad esso per disciplinare il loro rapporto, è il giudice di merito ad avere il compito di valutare in concreto il comportamento posto in essere dal datore di lavoro e dal lavoratore (cfr. Cass. 10213/2000).
Inoltre, la Corte di Cassazione ha ribadito che è il datore di lavoro, in caso di impugnazione di un licenziamento, a dover provare, ai sensi dell’art. 5 L. 604/1966, i fatti costitutivi del legittimo esercizio del potere di recesso i quali, nel caso di specie, ricomprendono anche l’intervenuto superamento del periodo di comporto nei sensi definiti dalla contrattazione collettiva di settore applicabile.
In considerazione di tutto quanto sopra, i giudici di legittimità nel confermare la decisione di merito hanno rimarcato che la società non aveva dato dimostrazione della propria adesione a Confcommercio né tantomeno la stessa era risultata consorziata e/o iscritta a Federdistribuzione – circostanze, queste, che avrebbero potuto dimostrare l’applicabilità del CCNL del terziario.
Sempre secondo la Cassazione, i giudici di merito hanno anche correttamente ritenuto inidoneo a dimostrare l’applicabilità al caso di specie del CCNL del terziario il suo richiamo nel contratto di assunzione o nelle buste paga recanti i riferimenti di istituti propri di tale contratto. Ciò in quanto parte datoriale non aveva mai prodotto alcuna contrattazione specifica. Pertanto, al rapporto di lavoro di cui è causa deve ritenersi applicabile il CCNL vigente all’epoca del licenziamento, ossia quello Confail/Confimea, prodotto dal lavoratore e più coerente con l’oggetto sociale dell’impresa, come desumibile dalla visura camerale agli atti. La Corte ha così rigettato il ricorso della società.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 15523/2018, ha avuto modo di chiarire, nuovamente, alcuni profili rilevanti del licenziamento intimato a conclusione di un procedimento disciplinare ex art. 7 della L. 300/1970. I giudici della Suprema Corte, infatti, sono tornati sulla annosa e controversa questione relativa alla possibilità di ricondurre il fatto contestato con la lettera di avvio del procedimento disciplinare ad una diversa ipotesi disciplinare. Sul punto la Corte ha ricordato come tale possibilità non sia preclusa in quanto si tratterebbe esclusivamente di un diverso apprezzamento di uno stesso fatto oggetto di contestazione, in relazione al quale il lavoratore ha, quindi, avuto modo di esercitare il proprio diritto di difesa. Contrariamente, è stato anche ribadito come al datore di lavoro sia preclusa la possibilità di addurre circostanze fattuali nuove e/o ulteriori rispetto a quelle oggetto della contestazione, in quanto tale condotta lederebbe, irrimediabilmente, il diritto di difesa del lavoratore che non avrebbe, in questo modo, occasione di presentare le proprie giustificazioni in relazione a tali circostanze. La Suprema Corte conferma così il suo orientamento secondo il quale è necessario che vi sia una piena coincidenza tra i fatti contestati e quelli posti a fondamento del licenziamento disciplinare.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 19731 del 25 luglio 2018, si è recentemente pronunciata sull’obbligo di repêchage. Nel caso specifico un lavoratore aveva impugnato giudizialmente il licenziamento intimatogli per la chiusura del reparto cui era addetto, sostenendo la sua illegittimità per violazione appunto dell’obbligo di repêchage. Ciò in quanto (i) la società ex datrice di lavoro aveva proceduto, dopo il suo recesso, ad assumere forza lavoro con continuità e con ripetuti contratti di somministrazione e (ii) i contratti di somministrazione recavano causali non rispondenti alle reali mansioni poi espletate dai somministrati, mansioni per le quali finanche aveva dichiarato la propria disponibilità. Di fatto, confermando quanto stabilito dai giudici di merito, la Suprema Corte nel respingere il ricorso del lavoratore ha osservato che il datore di lavoro, soggetto ad un protratto periodo di crisi di risultati e difficoltà economica, può ridurre il proprio organico. E secondo la Corte può farlo, ridistribuendo al personale residuo le mansioni in precedenza assegnate al lavoratore licenziato oppure ricorrendo, per tempi assolutamente limitati, a risorse esterne assunte con contratto a termine oppure a lavoratori somministrati. Inoltre, secondo la Corte il ricorso al lavoro straordinario da parte del datore di lavoro dopo il suo licenziamento, anch’esso eccepito dal lavoratore a sostegno della propria azione, si spiega in questa ottica. Ciò in quanto il maggiore esborso per le maggiorazioni salariali dovute ai lavoratori impiegati in extra time sono senz’altro inferiori ai costi per il mantenimento di una unità assunta a tempo indeterminato.