La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 15523/2018, ha avuto modo di chiarire, nuovamente, alcuni profili rilevanti del licenziamento intimato a conclusione di un procedimento disciplinare ex art. 7 della L. 300/1970. I giudici della Suprema Corte, infatti, sono tornati sulla annosa e controversa questione relativa alla possibilità di ricondurre il fatto contestato con la lettera di avvio del procedimento disciplinare ad una diversa ipotesi disciplinare. Sul punto la Corte ha ricordato come tale possibilità non sia preclusa in quanto si tratterebbe esclusivamente di un diverso apprezzamento di uno stesso fatto oggetto di contestazione, in relazione al quale il lavoratore ha, quindi, avuto modo di esercitare il proprio diritto di difesa. Contrariamente, è stato anche ribadito come al datore di lavoro sia preclusa la possibilità di addurre circostanze fattuali nuove e/o ulteriori rispetto a quelle oggetto della contestazione, in quanto tale condotta lederebbe, irrimediabilmente, il diritto di difesa del lavoratore che non avrebbe, in questo modo, occasione di presentare le proprie giustificazioni in relazione a tali circostanze. La Suprema Corte conferma così il suo orientamento secondo il quale è necessario che vi sia una piena coincidenza tra i fatti contestati e quelli posti a fondamento del licenziamento disciplinare.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 19731 del 25 luglio 2018, si è recentemente pronunciata sull’obbligo di repêchage. Nel caso specifico un lavoratore aveva impugnato giudizialmente il licenziamento intimatogli per la chiusura del reparto cui era addetto, sostenendo la sua illegittimità per violazione appunto dell’obbligo di repêchage. Ciò in quanto (i) la società ex datrice di lavoro aveva proceduto, dopo il suo recesso, ad assumere forza lavoro con continuità e con ripetuti contratti di somministrazione e (ii) i contratti di somministrazione recavano causali non rispondenti alle reali mansioni poi espletate dai somministrati, mansioni per le quali finanche aveva dichiarato la propria disponibilità. Di fatto, confermando quanto stabilito dai giudici di merito, la Suprema Corte nel respingere il ricorso del lavoratore ha osservato che il datore di lavoro, soggetto ad un protratto periodo di crisi di risultati e difficoltà economica, può ridurre il proprio organico. E secondo la Corte può farlo, ridistribuendo al personale residuo le mansioni in precedenza assegnate al lavoratore licenziato oppure ricorrendo, per tempi assolutamente limitati, a risorse esterne assunte con contratto a termine oppure a lavoratori somministrati. Inoltre, secondo la Corte il ricorso al lavoro straordinario da parte del datore di lavoro dopo il suo licenziamento, anch’esso eccepito dal lavoratore a sostegno della propria azione, si spiega in questa ottica. Ciò in quanto il maggiore esborso per le maggiorazioni salariali dovute ai lavoratori impiegati in extra time sono senz’altro inferiori ai costi per il mantenimento di una unità assunta a tempo indeterminato.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 16571/2018, è tornata – confermando un orientamento già consolidato in dottrina e nella giurisprudenza di legittimità – sulla questione della riqualificazione del rapporto di apprendistato in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato nel caso di inadempimento datoriale degli obblighi di formazione. In particolare, la Corte ha rilevato che era mancata nella vicenda sottoposta al suo esame la necessaria formazione professionale, ossia l’insegnamento professionale impartito al lavoratore apprendista, allo scopo di farlo diventare qualificato. Sul punto la Corte ribadisce che nel contratto di apprendistato il dato essenziale è proprio rappresentato dall’obbligo del datore di lavoro di garantire un effettivo addestramento professionale finalizzato all’acquisizione da parte del tirocinante di una qualificazione professionale. E tale inadempimento, non essendo di scarsa importanza, comporta per la Suprema Corte la trasformazione fin dalla sua costituzione del contratto di apprendistato in contratto a tempo indeterminato, con conseguente corresponsione al lavoratore di tutte le differenze contributive e retributive. Orbene il ruolo preminente che la formazione assume rispetto all’attività lavorativa esclude che possa ritenersi conforme a tale specifica figura contrattuale un rapporto avente ad oggetto lo svolgimento di attività elementari o routinarie, non integrate da un effettivo apporto formativo di natura teorica o pratica, pena la riqualificazione del rapporto stesso a tempo indeterminato sin dall’inizio.

La giurisprudenza è ormai unanime nel ritenere che il datore di lavoro può demandare ad una agenzia investigativa il controllo finalizzato all’accertamento dell’utilizzo improprio da parte dei lavoratori dei permessi di cui alla L. n. 104/1992. Ciò in quanto tali permessi non possono essere utilizzati per soddisfare proprie esigenze personali (ad es. serate danzanti o vacanze), venendo ad integrare siffatta condotta l’ipotesi dell”abuso di diritto”, lesiva dei principi di correttezza e buona fede che sottendono un normale rapporto di lavoro.