L’applicabilità di un regime esente richiede che sia fornita la prova rigorosa, a carico del contribuente, circa la sussistenza di tutti i presupposti fattuali per il configurarsi di fattispecie risarcitorie del danno emergente.
La Corte di Cassazione, sezione tributaria, con ordinanza n. 8615 del 27 marzo 2023 è tornata a esaminare il delicato argomento del regime di tassazione applicabile al risarcimento dovuto in relazione al demansionamento subito dal lavoratore o dalla lavoratrice.
Il caso sul quale è stata chiamata a pronunciarsi la Corte è relativo ad un contenzioso tra l’Agenzia delle Entrate e una lavoratrice che, nell’ambito di un giudizio per demansionamento, ha raggiunto un accordo stragiudiziale con il datore di lavoro che le ha corrisposto una somma a titolo di “risarcimento del danno morale, professionale e biologico“.
L’Agenzia delle Entrate, non essendoci distinzione tra le voci risarcitorie, ha applicato le trattenute Irpef sull’importo percepito dalla lavoratrice, la quale, dunque, ha agito in giudizio per richiederne il rimborso. La Commissione Tributaria Provinciale ha respinto il ricorso della lavoratrice mentre la Corte Territoriale Regionale ha riformato la decisione accogliento l’istanza contro l’Agenzia delle Entrate, dichiarando il regime di esenzione applicabile alle somme oggetto di esame.
In tema di tassazione dei redditi di lavoro o simili, il Testo unico delle imposte sui redditi n. 917/1986 (“TUIR”) identifica la categoria dei redditi sostitutivi dei redditi di lavoro dipendente. L’art. 6, comma 2, del TUIR dispone che costituiscono redditi, della stessa categoria di quelli sostituiti e/o perduti, indipendentemente dal titolo che determina l’erogazione: (i) i proventi conseguiti in sostituzione di redditi, anche per effetto di cessione dei relativi crediti; (ii) le indennità conseguite, anche in forma assicurativa, a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi, esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte.
La ratio del dettato normativo risiede nel doversi considerare imponibili solo quei compensi, emolumenti o risarcimenti che abbiano prodotto un arricchimento in capo al soggetto.
A tale scopo si distingue tra (i) lucro cessante, ossia il mancato guadagno al quale è riconosciuto l’appartenenza alla stessa categoria dei redditi sostituiti o perduti (ex art. 6, comma 2, TUIR); (ii) danno emergente, ossia la ricostituzione del mero patrimonio, cioè il risarcimento volto a coprire la perdita economica e non a sostituire il reddito non realizzato.
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La Corte di Cassazione, con l’ordinanza del 20 maggio 2021, n. 13787, ha stabilito che nel caso in cui il trasferimento di azienda venga dichiarato illegittimo la responsabilità per l’eventuale demansionamento rivendicato dal lavoratore ceduto ricade sul cessionario che ha concretamente utilizzato la sua prestazione e non anche sul cedente.
Il caso di specie trae origine dalla domanda di accertamento di demansionamento proposta da un dipendente ceduto insieme ad un ramo di azienda il quale, da marzo 2004, era così diventato dipendente della società cessionaria.
Il giudice di primo grado aveva accolto la domanda del dipendente e condannato la cedente e la cessionaria in solido alla corresponsione del risarcimento del danno. Tale decisione veniva poi confermata anche in sede d’appello e impugnata in cassazione dalla società cedente.
Secondo la società cedente – essendo stato accertato che (i) il demansionamento si era protratto dal mese di aprile 2002 fino ad ottobre 2010 e (ii) da marzo 2004 il dipendente era alle dipendenze esclusive della società cessionaria – era erronea la condanna solidale per l’intero periodo, gravando la responsabilità del demansionamento sul soggetto utilizzatore delle prestazioni, il quale aveva il potere di assegnare le mansioni.
La Cassazione, nell’accogliere il ricorso della società, ha stabilito che, in caso di invalidità del trasferimento di azienda accertata giudizialmente, il rapporto di lavoro permane con il cedente e se ne instaura, in via di fatto, uno nuovo e diverso con il soggetto già, e non più, cessionario, alle cui dipendenze il lavoratore abbia materialmente continuato a lavorare.
Secondo la Cassazione «accanto al rapporto di lavoro quiescente con l’originaria impresa cedente (…) vi è una prestazione materialmente resa in favore del soggetto con il quale il lavoratore, illegittimamente trasferito con la cessione di ramo d’azienda, abbia instaurato un rapporto di lavoro in via di fatto, comunque produttivo di effetti giuridici e quindi di obblighi in capo al soggetto che in concreto utilizza la prestazione lavorativa nell’ambito della propria organizzazione imprenditoriale, tra i quali anche quello che discende dall’operatività dell’art. 2103 c.c., sicché l’eventuale violazione di tale norma non può essere imputata al cedente che in concreto non utilizza la prestazione lavorativa».
La Cassazione ha quindi cassato la parte della sentenza della Corte d’appello che prevede la condanna in solido delle due società per il risarcimento dei danni derivanti dal demansionamento subito per il periodo in cui il dipendente ha lavorato alle dipendenze della società cessionaria.
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 836 del 16 gennaio 2018, ha cassato la decisione della Corte di Appello territorialmente competente che, aderendo alle conclusioni del giudice di prime cure, aveva confermato l’illegittimità del licenziamento intimato ad un lavoratore che, rifiutandosi di svolgere mansioni inferiori, si era assentato dal servizio per oltre quattro giorni. La Corte di Appello, disponendo la reintegrazione in servizio ex art. 18, L. n. 300/70, aveva ritenuto tale comportamento quale legittima forma di autotutela ai sensi dell’art. 1460 cod. civ. La Cassazione – pur confermando il demansionamento e la parziale sussistenza dei presupposti per l’applicazione della citata norma civilistica – ha accolto il ricorso del datore di lavoro (soccombente nel giudizio di merito) sull’assunto che l’adibizione a mansioni inferiori non autorizza il lavoratore a rendersi totalmente inadempiente alla prestazione. Ciò, ove il datore di lavoro (come nel caso di specie) assolva ai propri obblighi primari quali il pagamento della retribuzione, la copertura previdenziale e assicurativa, oltre che la tutela della salute e la sicurezza. In sostanza solo in caso di un inadempimento totale del datore di lavoro è ammesso e ritenuto giustificato il rifiuto aprioristico alla prestazione lavorativa. Diversamente si configura un comportamento in violazione della buona fede richiesta dall’art. 1460 cod. civ., oltre che dei doveri di diligenza e sottoposizione al potere gerarchico del datore di lavoro.