La Corte di Cassazione, con la sentenza 3147 del 1° febbraio 2019, ha osservato che il datore di lavoro può integrare in sede giudiziale le motivazioni rese in occasione del licenziamento se insufficienti o generiche.

I fatti

La Corte d’Appello territorialmente competente, confermando la sentenza di primo grado, aveva dichiarato legittimo il licenziamento intimato ad un dirigente, avente funzioni di “Direttore di stabilimento”.

Nello specifico la Corte d’Appello aveva affermato che:

  • la lettera di licenziamento conteneva una concisa, seppur sufficiente, motivazione, ossia soppressione della posizione nell’ambito di una riorganizzazione delle strutture con impossibilità di ricollocarlo in un altro ruolo, e
  • l’istruttoria espletata aveva dimostrato come l’effettiva riorganizzazione avesse comportato una diversa impostazione della direzione dello stabilimento.

Avverso la decisione della Corte d’Appello ricorreva i in cassazione il dirigente.

La decisione della Corte di Cassazione

A parere della Corte di Cassazione i giudici di merito hanno correttamente intrepretato l’art. 22 del CCNL dei Dirigenti Industria del 1985, valutando sia il tenore della sua clausola contrattuale sia la rilevanza attribuita dalle parti sociali alla carenza o incompletezza della motivazione del licenziamento, rilevanza che si desume dalla lettura completa della disposizione.

Nello specifico l’art. 22 prevede(va) che “nel caso di risoluzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, la parte recedente deve darne comunicazione per iscritto all’altra parte. Nel caso di risoluzione ad iniziativa dell’azienda, quest’ultima è tenuta a specificarne contestualmente la motivazione. Il dirigente ove ritenga che la motivazione addotta dall’azienda, ovvero nel caso in cui detta comunicazione non sia stata fornita contestualmente alla comunicazione di recesso, potrà ricorrere al Collegio arbitrale di cui all’art 19 (…)”.

Secondo la Corte di Cassazione, i giudici di merito hanno ben spiegato che:

  • la motivazione, seppur concisa era individuata, quindi, specifica e tale da consentire al dirigente di comprendere quale fosse la ragione del recesso e
  • la società, nella proprio scritto difensivo, aveva esplicitato i contenuti della riorganizzazione e
  • l’istruttoria espletata aveva confermato l’intervenuta effettiva ristrutturazione aziendale.

In dettaglio, la Corte di Cassazione, ribadendo un suo precedente orientamento, ha evidenziato come il licenziamento del dirigente è da considerarsi illegittimo – con la conseguente condanna del datore di lavoro al pagamento dell’indennità supplementare come prevista dalla Contrattazione Collettiva – quando non è sorretto da alcun motivo o è sorretto da un motivo pretestuoso e dunque non corrispondente al vero.

Nel caso de quo, invece, il licenziamento era stato intimato a causa della soppressione della posizione di Direttore di stabilimento ricoperta dal dirigente, nell’ambito di una riorganizzazione delle strutture societarie. Licenziamento, peraltro, non scongiurabile giacché, come precisato nella lettera di licenziamento, non vi erano all’epoca dei fatti posizioni vacanti cui lo stesso dirigente avrebbe potuto essere assegnato.

La Corte di Cassazione ha, altresì, confermato come in fase istruttoria era stato dimostrato che dopo il licenziamento del dirigente nessun altro direttore era stato assunto al suo posto e che la direzione dello stabilimento era stata avocata dalle due figure gerarchicamente sovraordinate a quelle del dirigente.

In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione ha affermato il seguente principio di diritto Qualora la motivazione del licenziamento di un dirigente non sia stata resa (ovvero, risulti insufficiente o generica), il datore di lavoro, nel rispetto del principio del contraddittorio ex art. 19, comma 3 del ccnl citato (ndr CCNL Dirigenti Industria), può esplicitarla (od integrarla) nell’ambito del giudizio arbitrale, e, nell’ipotesi in cui il dirigente abbia scelto, in conformità al principio di alternatività delle tutele nelle controversie del lavoro, di adire direttamente il giudice ordinario, analoghe facoltà vanno riconosciute alla parte datoriale nell’ambito del processo”. In caso contrario, secondo la Corte di Cassazione, la posizione del datore di lavoro verrebbe ad essere compromessa per effetto di una autonoma ed insindacabile determinazione della controparte.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 15204 del 20 giugno 2017, è intervenuta in materia di licenziamento disciplinare intimato ad un dirigente senza previo esperimento della procedura di cui all’art. 7 della L. 300/1970. La Suprema Corte, richiamando alcune recenti pronunce, anche a Sezioni Unite (Cass. n. 2553 del 10 febbraio 2015, Cass. Sez. Un. N. 7880 del 6-30 marzo 2007), ha chiarito che “le garanzie procedimentali dettate dall’articolo 7 della legge 300/1970 sono espressione di un principio di generale garanzia fondamentale a tutela di tutte le ipotesi di licenziamento disciplinare”, che trova applicazione a tutti i rapporti di lavoro subordinato, senza distinzione tra i dipendenti in relazione alla loro collocazione apicale. Una diversa interpretazione si porrebbe in contrasto con gli interventi del giudice delle leggi, perché riesuma “una vecchia e ormai logora nozione di dirigente, inteso quale alter ego dell’imprenditore”, e sarebbe in violazione del principio “audiatur et altera pars”, come indefettibile garanzia del prestatore di lavoro. D’altronde, sostiene la Corte, i dirigenti rientrano espressamente nella catalogazione dell’art. 2095 cod. civ. e, come tali, partecipano alla disciplina dettata per il prestatore di lavoro subordinato in generale. In difetto di attivazione delle garanzia procedimentali in esame, le conseguenze risarcitorie saranno, quindi, quelle dettate dalla contrattazione collettiva per il licenziamento privo di giustificazione (condanna al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso e dell’indennità supplementare).