Il Tribunale di Milano, con la sentenza n. 2629 del 10 novembre 2021, ritiene applicabile ai dirigenti il divieto di licenziamento introdotto dalla normativa emergenziale.
I fatti di causa
Con ricorso ex art. 414 cod. proc. civ. un dirigente ha chiesto al Tribunale di Milano, tra le altre, di accertare e dichiarare la nullità del licenziamento intimatogli per violazione della normativa emergenziale, con conseguente sua reintegra nel posto di lavoro e risarcimento del danno in suo favore pari ad una indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello della reintegra e, comunque, in misura non inferiore a 5 mensilità, oltre interessi e rivalutazione dalla maturazione a saldo e versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.
La società ex datrice di lavoro del dirigente, costituendosi ritualmente in giudizio, ha chiesto il rigetto delle domane dallo stesso presentate.
La decisione del Tribunale
Il Tribunale, nell’accogliere il ricorso del dirigente, ha evidenziato che dalla lettera di licenziamento prodotta emergeva che il dirigente fosse stato licenziato per un contenimento dei costi per una più utile gestione dell’impresa, legato all’emergenza sanitaria da COVID-19. Nella lettera di licenziamento agli atti si legge che era stata individuata la sua figura “posto che, nel giro di dodici mesi, (…) al compimento del 67esimo anno di età, raggiungerà (ndr avrebbe raggiunto) l’età anagrafica fissata per legge per l’ottenimento della pensione di vecchiaia, percependo i relativi emolumenti e l’indennità sostitutiva del preavviso”.
Secondo il Tribunale, dalla lettura della lettera di licenziamento appare evidente che non si tratta di un recesso ad nutum ma di un licenziamento per motivi economici che presenta diversi profili di invalidità.
Per quel che ci interessa, il Tribunale osserva che il divieto di licenziamento durante il periodo emergenziale si applica anche ai dirigenti. L’interpretazione per cui detto divieto non troverebbe applicazione nei loro confronti non può trovare ragionevole riscontro in una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 14 del D.L. 104/2021.
Il richiamo all’art. 3 della Legge 604/1966 per individuare la tipologia di licenziamento investita del blocco, ossia il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, “è diretto soltanto ad individuare sulla base della motivazione della intimazione di recesso la tipologia di licenziamento investito dal divieto, ossia il licenziamento per motivo oggettivo”. E a nulla rileva la circostanza che la disciplina dei licenziamenti trovi applicazione solo per quadri, impiegati e operai, essendo stato l’intento del legislatore vietare tutti i licenziamenti “economici”. Tant’è che il richiamo effettuato dall’art. 4 della Legge 104/2020 è solo all’art. 3 e non all’intera legga 604/1966.
A ciò aggiungasi che i dirigenti sono pacificamente soggetti alla disciplina dei licenziamenti collettivi. Orbene, secondo il Tribunale, non può che essere illogica l’esclusione dei dirigenti dal campo di applicazione del blocco dei licenziamenti nel quale, invece, risulta incluso il loro licenziamento collettivo.
Peraltro, tale conclusione appare supportata dall’applicazione anche in favore di dirigenti del regime sanzionatorio della tutela reale in caso di nullità del licenziamento perché intimato in violazione di un divieto espresso da una norma imperativa.
Oltretutto, secondo il Tribunale, non si può trascurare il principio secondo cui il licenziamento di un dirigente deve essere supportato da un giustificato motivo in forza del principio di cui all’art. 5 della Legge 604/1966. “Difatti la giustificatezza oggettiva, di fonte contrattale che integra la giustificazione oggettiva dei licenziamenti dei dirigenti, è in rapporto di continenza rispetto al meno ampio giustificato motivo oggettivo”.
Inoltre, l’esclusione dei dirigenti dal blocco dei licenziamenti sarebbe incoerente con una lettura costituzionalmente orientata della disciplina in relazione al principio di uguaglianza anche sotto il profilo della ragionevolezza. Sul punto il Tribunale richiama la Cassazione secondo la quale per i dirigenti si possono ammettere discipline difformi “purché si tratti di situazioni idonee a giustificare un regime eccezionale, con riguardo ad altri apprezzabili interessi e comunque non vengano superati i limiti della ragionevolezza”.
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Questa pronuncia si insinua in quel dibattito giurisprudenziale all’interno del quale il Tribunale di Roma, con ordinanza del 26 febbraio 2021, ha dichiarato dapprima illegittimo il licenziamento individuale per motivi economici intimato ad un dirigente durante il periodo di vigenza del blocco dei licenziamenti e poi, con decisione del successivo 19 aprile, legittima tale tipologia di licenziamento.
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Il Tribunale di Milano, con una ordinanza del 2 luglio 2021, ha stabilito che integrano la fattispecie di licenziamento collettivo, e quindi soggiacciono al divieto vigente durante la pandemia, i licenziamenti intimati dalla stessa società a 6 dirigenti, nello stesso periodo e sulla base delle medesime ragioni oggettive. Il Tribunale ha ritenuto del tutto irrilevante la circostanza che per 4 dei 6 licenziamenti era intervenuta la revoca del licenziamento, il ripristino del rapporto di lavoro e la successiva cessazione del medesimo per risoluzione consensuale.
Una società in liquidazione procedeva nel febbraio 2021 al licenziamento di un dirigente per giustificato motivo oggettivo motivato da una asserita riduzione dell’attività lavorativa e del fatturato comportante, di conseguenza, la soppressione del ruolo ricoperto dallo stesso. Il dirigente impugnava il licenziamento in giudizio rilevando che, nell’arco temporale di sei settimane circa e sulla scorta della stessa motivazione oggettiva, la società aveva licenziato altri 5 dirigenti, deducendo così la riconducibilità del proprio nella sfera di quelli collettivi di cui agli artt. 4, 5 e 24 della L. n. 223/1991, vietati dalla normativa emergenziale Covid-19.
La società, costituitasi in giudizio, rilevava che nel periodo contestato si erano verificati 2 licenziamenti e non 6 in quanto 4 dei 6 rapporti di lavoro dirigenziali si erano conclusi con una risoluzione consensuale e a fronte di un incentivo economico (all’intimazione del licenziamento era seguita la revoca del recesso, un ripristino del rapporto e successiva cessazione per risoluzione consensuale).
Il Tribunale adito ha accolto il ricorso del dirigente ritenendo che la successiva revoca di 4 dei 6 licenziamenti sia del tutto irrilevante e inidonea a impedire l’integrazione della fattispecie di licenziamento collettivo, poiché il tenore letterale dell’art. 24 della L. n. 223/1991 non lascia spazio ad alcuna diversa interpretazione.
In particolare, ai sensi della norma soprarichiamata, il datore di lavoro – che occupi più di 15 dipendenti e intenda effettuare in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro almeno 5 licenziamenti nell’arco di 120 giorni – è tenuto ad osservare le procedure previste dalla medesima legge, restando irrilevante, ai fini della configurazione della fattispecie del licenziamento collettivo, che il numero dei licenziamenti effettivamente attuati sia eventualmente inferiore.
Nel caso di specie, a parere del Tribunale, il requisito numerico richiesto dalla norma era stato raggiunto a monte quando la società aveva adottato i 6 licenziamenti nell’arco temporale di 6 settimane circa manifestando apertamente la propria volontà di porre fine ai rapporti di lavoro.
Accertata, dunque, la sussistenza di un licenziamento collettivo, il Tribunale ha ravvisato la nullità del recesso intimato al dirigente per contrasto con la disciplina del blocco dei licenziamenti collettivi di cui all’art. 46 del D.L. n. 18/2020 e più volte prorogato «il cui carattere imperativo e di ordine pubblico non può mettersi in dubbio”. Il Tribunale ha così condannato la società a reintegrare il dirigente nel posto di lavoro e a corrispondergli una indennità risarcitoria.
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Pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 176 del 24 luglio 2021, la Legge n. 106 del 23 luglio 2021, (di seguito la “Legge di conversione”), di conversione del D.L. n. 73 del 25 maggio 2021 recante “misure urgenti connesse all’emergenza da COVID-19, per le imprese, il lavoro, i giovani, la salute e i servizi territoriali” (cd. Decreto Sostegni-bis). Il provvedimento è entrato in vigore il giorno successivo alla pubblicazione in Gazzetta, ossia il 25 luglio.
Si riportano di seguito le principali misure previste dal Decreto Sostegni-bis in materia di lavoro, alcune introdotte in sede di conversione.
Viene introdotta la possibilità, fino al 30 settembre 2022, di:
In tema di divieto di licenziamenti, individuali per motivi economici e collettivi, la Legge di conversione recepisce quanto già previsto dal recente D.L. n. 99/2021, abrogandolo e facendolo confluire nel Decreto Sostegni-bis.
Sul punto si segnala che il divieto in questione vige:
Vengono confermate le deroghe al divieto per i licenziamenti motivati da cessazione definitiva dell’attività, per la messa in liquidazione, fallimento o per accordo collettivo aziendale sugli esodi incentivati.
Oltre ad essere confermate tutte le misure previste dal Decreto Sostegni-bis e sopra in parte ricordate, la Legge di conversione ripropone le misure previste dall’abrogato D.L. n. 99/2021 in modo da garantire una continuità degli effetti prodotti dalle disposizioni di quest’ultimo, e in particolare:
Viene confermata la previsione originaria del Decreto Sostegni-bis secondo la quale anche le aziende con meno di 100 dipendenti possono sottoscrivere un contratto di espansione. Si ricorda che questo strumento consente, da un lato, la riqualificazione dei lavoratori utilizzando la cassa integrazione e, dall’altro, l’accesso a piani di prepensionamento agevolato per coloro che si trovino a non più di 60 mesi dalla pensione di vecchiaia o anticipata.
Viene confermata anche l’introduzione del contratto di rioccupazione, ovvero il contratto di lavoro a tempo indeterminato diretto ad incentivare l’inserimento nel mercato del lavoro dei lavoratori in stato di disoccupazione. Si ricorda che condizione per l’assunzione con il contratto di rioccupazione è la definizione, con il consenso del lavoratore, di un progetto individuale di inserimento della durata di 6 mesi, finalizzato a garantire l’adeguamento delle competenze professionali del lavoratore stesso al nuovo contesto lavorativo.
Al termine del periodo di inserimento le parti potranno recedere dal contratto con preavviso decorrente dal medesimo termine. Se nessuna delle parti recede il rapporto prosegue, invece, come ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Il contratto di rioccupazione prevede l’esonero dei contributi previdenziali ed assistenziali per i datori di lavoro che assumono lavoratori disoccupati dal 1° luglio al 31 ottobre 2021. L’esonero spetta in particolare ai datori di lavoro che, nei sei mesi precedenti l’assunzione, non abbiano proceduto a licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo.
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Tornano in modalità webinar i nostri HR Breakfast.
Martedì 8 giugno, De Luca & Partners organizza l’HR Virtual Breakfast con un focus sulle ultime novità in diritto del lavoro previste dal Decreto Sostegni Bis per esaminare insieme i primi passi verso la ripresa economica italiana per reagire all’impatto della pandemia da Covid19.
Il nostro Partner, Enrico De Luca e la nostra Managing Associate, Stefania Raviele fanno il punto sulle ultime novità in materia di lavoro introdotte con il Decreto Sostegni bis.
L’evento si terrà dalle h 8.00 alle h 9.00 tramite la piattaforma Zoom.
AGENDA:
La partecipazione è gratuita previa registrazione.
Info a: events@delucapartners.it
Il Tribunale di Mantova, con sentenza n. 112 depositata il giorno 11 novembre 2020, ha dichiarato affetto da radicale nullità, con conseguente applicabilità della reintegrazione nel posto di lavoro, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato in violazione dell’espresso divieto introdotto dai decreti-legge emanati per fronteggiare l’emergenza pandemica da Covid-19.
Una lavoratrice, apprendista di una Società operante nell’ambito del commercio al dettaglio di abbigliamento e bigiotteria, veniva dapprima posta in cassa integrazione a causa dell’emergenza sanitaria da Covid-19. A seguito della fruizione della cassa integrazione, la stessa veniva collocata in ferie per poi essere licenziata per giustificato motivo oggettivo.
Avverso il licenziamento intimatole la lavoratrice adiva l’autorità giudiziaria eccependo in via principale la relativa nullità per violazione della normativa emergenziale, e in via subordinata la mancanza del giustificato motivo oggettivo nonché la violazione dell’obbligo di repechage rilevando che avrebbe potuto essere ricollocata in altri sedi lavorative.
Il Tribunale adito nell’accogliere il ricorso della lavoratrice ha precisato che il divieto generalizzato di licenziamento individuale per giustifico motivo oggettivo rappresenta una tutela temporanea della stabilità dei rapporti per salvaguardare il mercato ed il sistema economico ed è una misura di politica del mercato del lavoro e di politica economica collegata ad esigenze di ordine pubblico.
Tale divieto di licenziamento è stato inizialmente introdotto dall’art. 46 del Decreto “Cura Italia” (D.L. n. 18/2020) fino alla data del 17 maggio 2020, per poi essere successivamente prorogato dalle successive disposizioni emergenziali.
Le diposizioni normative in questione, ha affermato il Tribunale, hanno carattere imperativo e di ordine pubblico con la conseguenza che i licenziamenti adottati in contrasto con esse, sono nulli con la conseguente applicazione della una sanzione ripristinatoria ex art. 18, 1° comma, L. 300/1970 ed ex art. 2 D.Lgs. 23/2015 (derivando la nullità “espressamente” dall’art. 1418 cod. civ.).
Il Tribunale ha poi aggiunto che al contratto di apprendistato è applicabile la disciplina del licenziamento prevista per i contratti a tempo indeterminato stante l’assimilabilità del rapporto di apprendistato all’ordinario rapporto di lavoro. In questo contesto il Tribunale ha, altresì, ribadito che grava sul datore di lavoro l’onere di provare la giusta causa o il giustificato motivo del licenziamento e, nel caso di specie, nulla era stato dimostrato non essendosi la società costituita.
Alla luce di tutto quanto sopra, il Tribunale ha ritenuto di dover applicare alla dipendente licenziata la tutela della reintegra nel posto di lavoro precedentemente occupato, con condanna della società al pagamento della retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR dalla data del licenziamento fino alla riammissione in servizio, ferma restando la facoltà della lavoratrice di richiedere, in alternativa, l’indennità sostitutiva della reintegra. Inoltre, il la società è stata condannata, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.
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Dalla sentenza in commento si evince che la violazione del divieto temporaneo di licenziamento comporta la radicale nullità dello stesso, per violazione di una norma imperativa con conseguente applicabilità della tutela reale “piena” prevista dall’art.18, comma 1, della L. 300/1970 e dall’art. 2 del D.Lgs. 23/2015 a seconda che si tratti di dipendenti assunti prima o dopo il 7 marzo 2015 (data di entrata in vigore del D.Lgs. 23/2015).
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