Confindustria, con una lettera interna del direttore generale trasmessa via e-mail ai direttori delle associate territoriali e settoriali del sistema, ha espresso la propria linea favorevole al possesso del certificato verde Covid-19 (meglio noto come green pass) per accedere ai contesti aziendali-lavoristici.
Secondo la posizione assunta da Confindustria, l’esibizione del certificato verde dovrebbe rientrare tra gli obblighi di diligenza, correttezza e buona fede su cui si fonda il rapporto di lavoro. Di conseguenza, il datore di lavoro, ove possibile, potrebbe adibire il lavoratore non vaccinato a mansioni diverse da quelle normalmente esercitate erogando la relativa retribuzione; se ciò non fosse possibile il datore di lavoro dovrebbe poter non ammettere il soggetto al lavoro, con sospensione della retribuzione in caso di allontanamento dall’azienda.
Certamente, un’iniziativa di questo tipo, insieme al protocollo sulla sicurezza aggiornato lo scorso 6 aprile e al protocollo per le vaccinazioni nei luoghi di lavoro sottoscritto in pari data, è finalizzata a tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori, nonché lo stesso svolgimento dei processi produttivi. La proposta, tra l’altro, troverebbe ragion d’essere anche a fronte della forte preoccupazione per una possibile terza ondata pandemica che potrebbe condurre a un nuovo arresto del lavoro e alla conseguente necessità di una ennesima proroga degli ammortizzatori sociali “Covid- 19”.
Tuttavia, da un punto di vista prettamente giuridico, la tematica presenta diversi profili di criticità.
Anzitutto, nella sfera dei diritti individuali, occorre considerare l’articolo 32 della Costituzione in materia di “diritto alla salute”, il quale rappresenta, in vero, un caleidoscopio di molteplici forme di tutela della salute. L’articolo in parola sancisce in primo luogo che «la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività», per poi precisare che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge».
La disposizione costituzionale in commento, dunque, tutela la salute sia come diritto fondamentale del singolo che come interesse della collettività e permette di imporre un trattamento sanitario se diretto, come specificato dalla Corte Costituzionale, «non solo a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri» (si veda in tal senso la sentenza n. 5/2018 della Corte Costituzionale).
Giova al riguardo sottolineare che l’articolo de quo contempla una riserva di legge “rinforzata” per cui affinché possa essere imposto un trattamento sanitario, rendendo dunque lo stesso obbligatorio, è anzitutto necessario che vi sia una legge a prevederlo e, inoltre, che tale legge, da un lato, imponga trattamenti sanitari determinati e, dall’altro, non violi in nessun modo i limiti imposti dal rispetto della persona umana.
Dalla riserva di legge “rinforzata” di cui all’articolo 32 della Costituzione, ne deriva che la costituzionalità di una previsione normativa in tal senso, oltre che presupporre la proporzionalità e la ragionevolezza delle conseguenze derivanti dalla decisione assunta, non può che avere quale premessa fondamentale la certezza dei dati scientifici, attestata dalle istituzioni sanitarie nazionali e internazionali competenti, della sicurezza del vaccino.
A tal proposito, non stupisce che nell’attuazione del piano vaccinale consapevolmente e volontariamente il legislatore non sia intervenuto per normare l’eventuale obbligatorietà del vaccino, eccetto per le professioni sanitarie e il personale medico-infermieristico. In effetti, per il momento, con il D.L. n. 105 del 22 luglio 2021, è stato previsto il possesso del certificato verde Covid-19 (in alternativa al test molecolare o antigenico rapido con risultato negativo al virus Sars-CoV-2, con validità di 48 ore dall’esecuzione del test) quale condizione per lo svolgimento di alcune attività per lo più di tipo ricreativo o culturale.
Ciò posto, in assenza di una norma ad hoc che preveda l’obbligo del vaccino per tutti, ci sembrano quanto meno affrettate le considerazioni espresse da alcuni commentatori nei giorni scorsi secondo cui sarebbe legittimo condizionare l’accesso ai locali aziendali all’avvenuta vaccinazione in forza dell’articolo2087 Cod. Civ.; quest’ultima disposizione, come è noto, prevede l’obbligo per il datore di lavoro di “adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro“.
La versione integrale dell’approfondimento sarà pubblicata sul prossimo numero 33/34 di Guida al Lavoro de Il Sole 24 Ore.
L’INAIL, il 20 maggio u.s., ha pubblicato la circolare 22 con la quale ha fornito alcuni chiarimenti in merito alla qualificazione dell’infezione da Covid-19 quale infortunio sul lavoro.
L’articolo 42, comma 2, del Decreto legge 18 del 17 marzo 2020, più comunemente noto come “Decreto Cura Italia”, successivamente convertito nella legge 24 aprile 2020, n. 27, dispone che «Nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS-CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato».
Sul tema l’Istituto assicurativo è intervenuto con la circolare 3 aprile 2020, n. 13 fornendo le indicazioni operative per la tutela dei lavoratori che hanno contratto l’infezione in occasione di lavoro a seguito dell’entrata in vigore della disposizione di cui sopra. L’Istituto ha affermato, nello specifico, che sia per gli operatori sanitari, esposti a un elevato rischio di contagio specifico, sia per coloro che svolgono attività lavorative che comportano il costante contatto con il pubblico e/o con l’utenza, vige una presunzione semplice di origine professionale dell’infezione da Covid-19 che, giova chiarirlo, “ammette sempre la prova contraria”.
Nella circolare 22 del 20 maggio l’INIAL ha, anzitutto, ribadito che l’art. 42, comma 2 del Decreto Cura Italia non ha fatto altro che riaffermare un principio già espresso da decenni dalla giurisprudenza, in virtù del quale le patologie infettive (come, ad esempio, l’epatite o l’AIDS), se contratte in occasione di lavoro, sono da sempre inquadrate e trattate come infortunio sul lavoro. Ciò in quanto la causa virulenta viene equiparata alla causa violenta propria dell’infortunio, anche quando i suoi effetti si manifestino dopo un certo tempo.
Con riferimento all’accertamento dell’avvenuto contagio, l’Istituto ha precisato che, nonostante la presunzione semplice di cui sopra, non sussiste alcun automatismo ai fini dell’ammissione alla tutela previdenziale. Occorre sempre accertare la sussistenza dei fatti noti, cioè di indizi gravi, precisi e concordanti, sui quali deve fondarsi la presunzione semplice di origine professionale.
Pertanto, la presunzione semplice presuppone l’accertamento rigoroso dei fatti e delle circostanze che facciano fondatamente desumere che il contagio sia avvenuto in occasione di lavoro (quali le modalità di svolgimento dell’attività lavorativa, le indagini circa i tempi di comparsa delle infezioni, etc.), ferma restando la possibilità di prova contraria da parte dell’Istituto.
In conclusione, il riconoscimento dell’origine professionale del contagio si fonda su un giudizio di ragionevole probabilità ed è totalmente avulso da ogni valutazione in ordine alla imputabilità di eventuali comportamenti omissivi in capo al datore di lavoro che possano essere stati causa del contagio.
A tal proposito, l’Istituto assicurativo tenta di porre fine ad un dibattito di recente sorto sull’argomento chiarendo che il riconoscimento dell’origine professionale del contagio è cosa ben diversa dall’affermare la responsabilità penale e civile in capo al datore di lavoro per l’infezione da Covid-19 contratta dai suoi dipendenti. Affinché si configurino le predette responsabilità è necessaria, oltre alla rigorosa prova del nesso di causalità, quella dell’imputabilità della condotta tenuta dal datore di lavoro quantomeno a titolo di colpa.
Pertanto, i presupposti per l’erogazione di un indennizzo Inail non possono essere confusi con i presupposti per la responsabilità penale e civile che devono essere rigorosamente accertati con criteri diversi da quelli previsti per il riconoscimento del diritto alle prestazioni assicurative.
Quanto chiarito dall’Istituto assicurativo è, peraltro, in linea con le recenti pronunzie giurisprudenziali espresse in materia, secondo le quali “[…] non si può automaticamente presupporre, dal semplice verificarsi del danno, l’inadeguatezza delle misure di protezione adottate, ma è necessario, piuttosto, che la lesione del bene tutelato derivi causalmente dalla violazione di determinati obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche in relazione al lavoro svolto” (Cass. n.3282/2020).
Poste tali premesse, l’Istituto conclude affermando che la responsabilità del datore di lavoro è ipotizzabile solo in caso di violazione della legge o di obblighi derivanti dalle conoscenze sperimentali o tecniche, che nel caso dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 si possono rinvenire nei protocolli e nelle linee guida governativi e regionali.
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In questa sede, verranno esaminate la nota diffusa dal Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bergamo il 12 maggio 2020 e la previsione contenuta nell’articolo 1.3 dell’Ordinanza della Regione Lombardia 547 del successivo 17 maggio relativa alla misura della rilevazione della temperatura corporea.
Entrambi i documenti si preoccupano di fornire chiarimenti e indicazioni operative per assicurare una business continuity o una ripresa dell’attività aziendale in sicurezza.
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La Procura della Repubblica di Bergamo, con nota del 12 maggio 2020, preso atto della riapertura di numerose attività produttive, ha inteso offrire indicazioni operative agli Organi di Vigilanza deputati alla verifica dell’applicazione del Protocollo condiviso di regolamentazione per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus COVID19 negli ambienti di lavoro del 24 aprile 2020 (il “Protocollo”).
Oltre a far cenno dei numerosi provvedimenti emergenziali che si sono susseguiti per il contenimento dell’emergenza da diffusione del COVID19, la nota sottolinea che ai sensi del comma 6 dell’articolo 2 del DPCM 26 aprile 2020 le imprese, le cui attività non sono sospese, devono rispettare i contenuti, tra l’altro, del Protocollo.
Precisato ciò, la nota affronta la questione della natura dei contenuti del Protocollo e delle sanzioni previste in caso di inosservanza.
Al tal proposito, la nota sottolinea che:
La Procura evidenzia, tuttavia, che l’impianto sanzionatorio di cui alla Legge 689/1981 non prevede il potere di prescrivere l’adozione di misure organizzative e gestionali “che produrrebbero il virtuoso effetto dell’adeguamento dei luoghi di lavoro alle precauzioni anti-contagio indicate nei protocolli e, quindi, il miglioramento delle condizioni di sicurezza e di igiene allo scopo di ridurre il fattore di rischio Covid-19”.
Per sopperire a questa lacuna, la nota sostiene che alle misure di contenimento contenute nel Protocollo corrispondano i precetti di cui alle norme del D.Lgs. 81/2008 e riprendendo l’articolazione del Protocollo, riporta i seguenti punti in comune:
Limitatamente, alle società con sedi site nella Regione Lombardia, di fondamentale importanza, per poter assicurare una safety business continuity o una ripresa dell’attività lavorativa in sicurezza, è l’Ordinanza regionale 547 emessa il 17 maggio 2020 ed efficace sino al successivo 31 maggio. La violazione delle disposizioni in essa contenute comporta l’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 2 D. L. n. 33/2020.
In questa sede, ci si soffermerà sulla previsione contenuta nell’articolo 1.3 relativa alla rilevazione della temperatura corporea da parte del datore di lavoro o di un suo delegato.
Nello specifico il predetto articolo prevede che il datore di lavoro o un suo delegato è tenuto a rilevare la temperatura corporea del personale dipendente prima dell’accesso al luogo di lavoro o anche qualora durante l’attività il lavoratore dovesse manifestare i sintomi di infezione da COVID19.
Se tale temperatura dovesse risultare superiore ai 37,5°, non sarà consentito l’accesso o la permanenza nel luogo di lavoro. Le persone in tale condizione saranno momentaneamente isolate e non dovranno recarsi al Pronto Soccorso e/o nelle infermerie di sede.
Il datore di lavoro sarà tenuto a comunicare tempestivamente tale circostanza, tramite il medico competente di cui al D.Lgs. 81/2008 e/o l’ufficio del personale, all’ATS territorialmente competente, la quale fornirà le opportune indicazioni cui la persona interessata dovrà attenersi.
Nel caso in cui il lavoratore prenda servizio in un luogo di lavoro o svolga la propria prestazione con modalità particolari che non prevedono la presenza fisica del datore di lavoro o suo delegato:
Da ultimo, l’ordinanza “raccomanda fortemente” la rilevazione della temperatura anche nei confronti dei clienti/utenti, prima dell’accesso. La raccomandazione si trasforma in un obbligo, in caso di accesso ad attività di ristorazione con consumo sul posto
Se la temperatura dovesse risultare superiore a 37,5°, non sarà consentito l’accesso alla sede e l’interessato sarà informato della necessità di contattare il proprio medico curante.
L’ordinanza si preoccupa di considerare anche l’ipotesi in cui il datore di lavoro non sia fornito di uno strumento di rilevazione idoneo per difficoltà di reperimento sul mercato, ammettendo solo in via transitoria, che lo stesso o suo delegato verifichi all’arrivo sul luogo di lavoro, la temperatura che il dipendente o anche il cliente, prova con strumento personale idoneo.
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Il Tribunale di Bologna, con la sentenza 2759 del 23 aprile 2020, ha chiarito la corretta applicazione e portata dell’articolo 39 del Decreto Legge 17/2020 (cd. “Decreto Cura Italia”), convertito nella Legge 27/2020, affermando che il lavoratore disabile ha il diritto di svolgere la propria attività in modalità di lavoro agile.
Una lavoratrice nel mese di marzo aveva richiesto, stante il proprio stato di invalidità, di essere collocata in modalità lavorativa agile per il periodo dell’emergenza da coronavirus. A sostegno della propria domanda la lavoratrice allegava documentazione medica attestante un’invalidità in misura del 60 per cento. Inoltre, la stessa evidenziava di avere una figlia affetta da disabilità ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 104/1992.
La società datrice di lavoro rispondeva alla lavoratrice che al momento sarebbe stata collocata in cassa integrazione e che alla ripresa dell’attività lavorativa sarebbero state prese in esame le richieste di collocamento in modalità di lavoro agile pervenute. Tuttavia, alla ripresa dell’attività solo ad alcuni dipendenti veniva concessa la possibilità di lavorare in modalità di lavoro agile e non alla stessa.
Da qui il ricorso sottoposto al Giudice del Lavoro, in via d’urgenza ex articolo 700 cod. proc. civ., finalizzato da un lato, ad accertare l’illegittimità della decisione assunta dalla società e, dall’altro, il diritto a poter prestare l’attività lavorativa in modalità agile.
Le fonti normative che si sono succedute negli ultimi mesi per fronteggiare l’emergenza pandemica in corso hanno individuato talune categorie di lavoratori a cui è riconosciuto il diritto o la priorità al lavoro agile.
In particolare, hanno diritto al lavoro agile. i lavoratori dipendenti disabili nelle condizioni di cui all’articolo 3, comma 3, della legge 104/1992 o che abbiano nel proprio nucleo familiare una persona con disabilità nelle condizioni di cui al predetto articolo e hanno, invece, la priorità i lavoratori del settore privato affetti da gravi e comprovate patologie con ridotta capacità lavorativa.
Sulla base delle disposizioni normative sopra richiamate, il Tribunale di Bologna ha ritenuto sussistente il diritto della ricorrente a essere collocata in modalità lavorativa agile qualificando la stessa come soggetto “fragile” sia per lo stato di invalida sia per aver a proprio a carico una figlia affetta da grave disabilità. Condizioni queste, sufficienti a giustificare la sussistenza del requisito del fumus boni iuris.
Mentre, per quanto concerne la sussistenza del periculum in mora il giudice di merito ha stabilito che sia la lavoratrice che la figlia sono “gravemente esposte al rischio di contagio, anche in forma grave, e l’emergenza sanitaria è ancora in corso. Vi è più che fondato timore di ritenere che lo svolgimento della attività di lavoro in modalità ordinarie, uscendo da casa per recarsi al lavoro, esponga la ricorrente, durante il tempo occorrente per una pronuncia di merito, al rischio di un pregiudizio imminente ed irreparabile per la salute sua e della figlia convivente”.
Su tali presupposti, il Tribunale di Bologna ha accolto il ricorso della lavoratrice ed ordinato alla società di consentirle lo svolgimento delle proprie mansioni in modalità di lavoro agile., riconoscendo come sussistente la compatibilità della modalità agile del lavoro con le caratteristiche della prestazione. Ciò sull’assunto che la ricorrente già utilizzava ordinariamente telefono e strumenti informatici.
Sul tema del lavoro agile. ai tempi del COVID-19 si è anche pronunciato il Tribunale di Grosseto con l’ordinanza 23 aprile 2020. A parere del Tribunale i numerosi provvedimenti emergenziali emanati allo scopo di prevenire la sua diffusione hanno considerato il ricorso al lavoro agile, disciplinato in via generale dalla legge 81/2017, come una priorità.
Pertanto, il datore di lavoro, laddove sia nelle condizioni di applicarlo, non può imporre, come nel caso di specie, al dipendente (disabile) la fruizione delle ferie. Il ricorso alle ferie, secondo il Tribunale, “non può essere indiscriminato, ingiustificato o penalizzante, soprattutto laddove vi siano titoli di priorità per ragioni di salute”.
Per completezza si segnala che il sempre maggior rilievo del lavoro agile in questo contesto epidemiologico è stato, da ultimo, confermato dal Decreto Rilancio. In particolare, detto Decreto ha riconosciuto, fino alla cessazione dello stato di emergenza e, comunque non oltre il 31 dicembre 2020, il diritto al lavoro agile ai genitori con figli di età inferiore a 14 anni, le cui mansioni siano compatibili con tale modalità di lavoro. Ciò a condizione che nel nucleo familiare non vi sia altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione dell’attività lavorativa o che non vi sia genitore non lavoratore.
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È stato approvato in Commissione alla Camera, il 21 maggio scorso, un emendamento al Decreto Liquidità che limiterebbe la responsabilità dei datori di lavoro qualora i dipendenti dovessero contrarre il COVID-19 in azienda, se seguiranno i protocolli. L’emendamento recita testualmente che: “Ai fini della tutela contro il rischio di contagio da SARS-CoV-2, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del Codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 fra il Governo e le parti sociali e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all’articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni, rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”. Se l’emendamento in esame dovesse essere approvato in sede di conversione assumerebbe valore normativo quanto annunciato dall’INAIL nelle sue circolari. A questo punto non resta che attendere la conversione in legge del Decreto Liquidità.
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