Il Tribunale di Bari, con la sentenza 2636 del 10 giugno 2019, ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad una lavoratrice per aver inviato tramite il suo profilo Facebook – installato indebitamente sul dispositivo aziendale – messaggi che rivelavano segreti aziendali ad imprese concorrenti.
I fatti di causa
Una lavoratrice, con mansioni di segretaria commerciale ed inquadrata nel VI livello impiegatizio ai sensi del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro del Terziario, veniva licenziata dalla società, sua datrice di lavoro, per giustificato motivo oggettivo. A seguito dell’impugnazione giudiziale del recesso da parte della lavoratrice, la società revocava il provvedimento espulsivo.
Dopodiché, la società azionava nei confronti della lavoratrice un procedimento disciplinare per:
Di tali informazioni la società ne era venuta a conoscenza proprio perché il telefono, durante il periodo di assenza della lavoratrice per malattia, era rimasto in azienda ed i messaggi in arrivo erano stati controllati dal legale rappresentante.
La lavoratrice, nel rendere le sue giustificazioni, contestava la genericità degli addebiti, dichiarandosi ad essi del tutto estranei. La società concludeva il procedimento intimandole un licenziamento per giusta causa.
La lavoratrice nell’impugnare il recesso eccepiva la sua nullità, poiché intimato in seguito al recesso per giustificato motivo oggettivo, ossia quando si era già verificata la causa estintiva del rapporto di lavoro.
Sul presupposto dell’insussistenza del fatto materiale posto a base del licenziamento, della mancanza di giusta causa e della violazione dei principi di specificità e tempestività delle contestazioni, la lavoratrice chiedeva che venisse accertata e dichiarata la sua illegittimità con condanna della società alla sua reintegrazione, al pagamento, a titolo risarcitorio, di una somma pari a 24 mensilità della retribuzione globale di fatto nonché al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali.
Costituendosi in giudizio, la società:
La decisione del Tribunale
Ad avviso del Tribunale nella fattispecie in esame la condotta posta in essere dalla lavoratrice è idonea a integrare la giusta causa di licenziamento.
Innanzitutto il Tribunale, conformandosi all’orientamento giurisprudenziale consolidatosi sul punto, ha osservato che ai fini dell’accertamento della giusta causa incombe sul datore di lavoro l’onere di provare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale e, dall’altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta (cfr Cassazione civile, n.35/2011).
Ciò detto, a parere del Tribunale, dal punto di vista oggettivo il comportamento della dipendente costituisce un grave illecito disciplinare. In particolare, la lavoratrice, oltre ad aver installato indebitamente un suo profilo Facebook sul telefono aziendale, ha utilizzato tale dispositivo per intrattenere frequenti e numerose conversazioni private durante l’orario di lavoro svelando, tra l’altro, notizie aziendali riservate.
Tali circostanze, provate in giudizio tramite gli schreenshot delle diverse conversazioni, sono state ritenute di una gravità tale da ledere irrimediabilmente il rapporto di fiducia con l’azienda. In particolare, secondo il giudice, la condotta osservata ha integrato una violazione dei doveri di correttezza e buona fede nonché degli obblighi contrattualmente assunti di diligenza e di fedeltà.
In considerazione di quanto sopra esposto, il Tribunale ha rigettato l’impugnativa della lavoratrice dichiarando legittimo il licenziamento.
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 13799 del 31 maggio 2017, è intervenuta in materia di licenziamento per giusta causa intimato ad una dipendente che aveva postato su Facebook alcuni commenti contro la propria società nonché nei confronti del legale rappresentante della stessa. Nel caso di specie la società, condannata in appello a reintegrare il lavoratore e a risarcirgli il danno pari alle retribuzioni dal dì del licenziamento a quello della reintegra, è ricorsa in Cassazione lamentando la mancata applicazione del principio secondo cui l’art. 18, L. 300/1970, riconosce la tutela reintegratoria solo in caso di insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento. Le doglienze della società sono state ritenute infondate dalla Corte di Cassazione, la quale, richiamando i propri precedenti in materia, ha affermato che: “l’insussistenza del fatto contestato, di cui all’art. 18 stat. lav., come modificato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 42, comprende l’ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, sicché (anche) in tale ipotesi si applica la tutela reintegratoria”. Orbene, stando a questo orientamento, non è detto che postare su Facebook espressioni contro il proprio datore di lavoro presenti il carattere dell’antigiuridicità che legittima un licenziamento per giusta causa.