Con l’ordinanza n. 15987 del 2025, la Corte di Cassazione – Sezione Lavoro – ha ribadito l’applicazione rigorosa dell’art. 1335 c.c., secondo cui la presunzione di conoscenza degli atti recettizi non può essere superata da ostacoli soggettivi, nemmeno quando il destinatario versi in condizioni di fragilità psicofisica e la notifica venga volutamente occultata da un familiare convivente.
Il caso di specie trae origine dal licenziamento per inidoneità assoluta e permanente, intimato ad un lavoratore mediante lettera inviata all’indirizzo di residenza dello stesso. In particolare, la lettera di licenziamento, regolarmente recapitata, è stata ritirata dalla madre del lavoratore che, nel dichiarato intento di preservare il figlio da eventuali ripercussioni psicologiche, ha omesso volontariamente di informarlo del contenuto della comunicazione. In considerazione di ciò, il dipendente ha impugnato il recesso oltre il termine di decadenza previsto dalla legge.
Tuttavia, sia il Tribunale di primo grado, che la Corte d’Appello di Bologna dichiararono inammissibile il ricorso, in considerazione dell’intervenuta decadenza dell’impugnazione, ritenendo perfezionata la presunzione di conoscenza con la regolare ricezione dell’atto all’indirizzo del destinatario.
La Corte di Cassazione ha, dunque, confermato la correttezza della pronuncia della Corte d’Appello di Bologna. Il fulcro della decisione risiede nella rigorosa interpretazione dell’art. 1335 c.c., secondo cui un atto recettizio si presume conosciuto dal momento in cui perviene all’indirizzo del destinatario, salvo che quest’ultimo provi di essere stato nella condizione oggettiva e incolpevole di non poterne avere notizia. Non assumono, pertanto, rilevanza gli impedimenti di natura soggettiva né le determinazioni assunte da terzi conviventi.
Nel caso specifico, gli Ermellini hanno escluso che lo stato di salute del lavoratore o la decisione della madre di occultare la lettera potessero configurare un impedimento oggettivo. Tali circostanze, infatti, attengono alla sfera personale e familiare del destinatario e non possono considerarsi sufficienti a elidere gli effetti della presunzione legale di conoscenza. In particolare, solo fatti esterni, estranei alla volontà del soggetto, come calamità naturali, errori postali o assenza prolungata per causa di forza maggiore, possono integrare la prova contraria ammessa dalla norma.
In conclusione, la pronuncia in commento evidenzia la natura perentoria dei termini di impugnazione del licenziamento, anche nei casi in cui emergano elementi soggettivi che impediscano al lavoratore di essere messo a conoscenza del provvedimento disciplinare a proprio carico.
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Il Tribunale di Milano, con il provvedimento n. 5145/2020, ha affermato che la sospensione dei termini processuali introdotta durante il periodo emergenziale si applica anche al termine di 60 giorni per l’impugnazione stragiudiziale del licenziamento. Sotto diverso profilo, i Tribunali di Roma (pronuncia n. 86577/2020) e di Palermo (sentenza 30615/2020) si sono, invece, soffermati sull’impugnativa del licenziamento, inviata a mezzo pec quale allegato, scansione dell’originale, priva di autentica sottoscrizione da parte dell’interessato.
L’art. 6 della Legge 604/1966 prevede che:
Ciò premesso, gli articoli 83, comma 2, del Decreto Cura Italia, e 36, comma 1, del Decreto Liquidità, tra le misure per far fronte all’emergenza sanitaria dovuta al diffondersi del virus COVID-19, hanno disposto la sospensione “straordinaria” dei termini processuali dal 9 marzo 2020 sino al successivo 11 maggio.
In tema di impugnativa del licenziamento, il Tribunale di Milano, con il provvedimento del 14 ottobre 2020 n. 5145, ha affermato che la sospensione dei termini in questione non si applica solo al termine di 180 giorni relativo all’impugnazione giudiziale del licenziamento ma anche al termine decadenziale di 60 giorni inerente alla sua impugnazione stragiudiziale.
A parere del Tribunale una interpretazione restrittiva contrasterebbe con la natura unitaria dei due termini di impugnazione e con la “la ratio della decretazione d’urgenza di limitare le conseguenze negative della pandemia anche per la tutela giurisdizionale dei diritti”.
2) Modalità di impugnazione
Sotto altro profilo, i Tribunali di Roma e di Palermo si sono di recente soffermati sull’impugnativa del licenziamento, inviata a mezzo pec quale allegato, scansione dell’originale, e dunque una copia immagine priva di autentica sottoscrizione da parte dell’interessato.
Il Tribunale di Roma, con la pronuncia del 20 ottobre 2020, n. 86577, ha dichiarato che l’impugnativa di licenziamento può avvenire, indifferentemente, sia (i) allegando al messaggio pec un documento informatico (il c.d. “atto nativo digitale”) sia (ii) inviando la scansione dell’atto cartaceo sottoscritto dal difensore e dall’interessato, anche se privo di firma digitale.
Di diverso avviso è stato il Tribunale di Palermo che, con la sentenza del 28 ottobre 2020, n. 30615, ha dichiarato inefficace l’impugnativa di licenziamento inviata dal legale del lavoratore al datore di lavoro, tramite pec, se non accompagnata dalla sottoscrizione digitale o da un’attestazione di conformità degli atti.
Il contrasto giurisprudenziale ormai aperto sul tema, ci si auspica sia a breve risolto da una decisione della Suprema Corte o da una novella normativa.
Stabilire, infatti, se l’impugnativa quale copia immagine sia efficace o meno è dirimente nel decidere se l’atto così composto abbia il valore di un atto interruttivo dei termini di decadenza di cui all’art. 6 L. n. 604/1966.
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