In caso di infortuni sul lavoro, la nomina di un preposto non è sufficiente per evitare la condanna del datore di lavoro. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sezione penale, sentenza 10 giugno 2024, n. 23049.
La Suprema Corte ha, infatti, chiarito che il datore di lavoro deve vigilare per prevenire l’instaurazione di prassi contrarie alla legge che possano mettere in pericolo i lavoratori. Pertanto, in caso di incidente o infortunio, l’ignoranza del datore di lavoro non vale ad escluderne la colpa per omessa vigilanza sul comportamento del preposto.
Nel caso sottoposto all’attenzione della Corte, un lavoratore riportava lesioni gravi e permanenti a seguito dell’utilizzo di reagenti chimici durante lo svolgimento di operazioni di pulizia di un macchinario. Nello svolgere tale attività emergeva che il lavoratore non era dotato di adeguati dispositivi di protezione e non aveva ricevuto la necessaria formazione.
Il Tribunale adito in primo grado condannava il datore di lavoro, riconoscendo l’esistenza del nesso causale tra la condotta colposa e l’evento delittuoso e sottolineando che l’evento lesivo si sarebbe potuto scongiurare designando come preposto un soggetto dotato di maggiore competenza.
La Corte d’Appello, riformando la sentenza di condanna di primo grado, da un lato assolveva il datore di lavoro osservando che il soggetto preposto era dotato di comprovata esperienza, e quindi idoneo alle mansioni ed al ruolo assegnatogli e, dall’altro, inquadrava come eccentrica ed imprevedibile la condotta del lavoratore.
La Corte di Cassazione, annullando la decisione della Corte d’Appello che non aveva tenuto conto del fatto che il lavoratore coinvolto non aveva ricevuto una adeguata formazione, rileva che, data la natura delle sue mansioni, non avrebbe comunque dovuto essere coinvolto in operazioni che prevedessero l’uso di sostanze chimiche.
La Suprema Corte, anche precisando che il datore di lavoro ai fini della sicurezza è tenuto a garantire la corretta formazione dei lavoratori indipendentemente dall’esperienza operativa che possano avere nel tempo acquisito, ha riconosciuto profili di responsabilità in capo al datore di lavoro per mancata vigilanza sull’operato del preposto.
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Le infezioni da Coronavirus avvenute nell’ambiente di lavoro o a causa dello svolgimento dell’attività lavorativa sono tutelate a tutti gli effetti come infortunio sul lavoro.
A statuirlo è l’articolo 42 del D.L. Cura Italia (convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 27/2020), il quale, al comma 2, dispone che “nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS- CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato”.
Come noto, per infortunio sul lavoro si intende ogni lesione del lavoratore originata da una causa violenta (o virulenta, secondo l’indirizzo Inail vigente) in occasione di lavoro.
Al fine di delimitare l’ambito di intervento dell’Inail occorre, pertanto, soffermarsi sull’analisi della locuzione “occasione di lavoro”.
Con un’interpretazione estensiva, la giurisprudenza di legittimità vi ha fatto rientrare“tutte le condizioni temporali, topografiche e ambientali in cui l’attività produttiva si svolge e nelle quali è imminente il rischio di danno per il lavoratore, sia che tale danno provenga dallo stesso apparato produttivo e sia che dipenda da situazioni proprie e ineludibili del lavoratore” (Cass.13 maggio 2016, n. 9913).
Al fine dell’intervento dell’Istituto assicuratore non è tuttavia sufficiente che l’infortunio avvenga durante e sul luogo di lavoro, in quanto è necessario che sussista il nesso di causalità tra l’attività lavorativa e l’infortunio.
Il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell’”equivalenza delle condizioni”: ciò significa che il nesso eziologico sarà riconosciuto ad ogni circostanza che ha contribuito, anche in modo indiretto e remoto, alla produzione dell’evento, mentre dovrà escludersi quando un fattore esterno sia stato di per sé sufficiente a produrre l’evento.
Richiamati brevemente i principi cardine su cui si fonda l’attivazione dell’assicurazione, l’Inail, a fronte della novella legislativa relativa all’infortunio da Coronavirus, ha fornito, con la circolare n. 13 del 3 aprile 2020, i primi chiarimenti in merito alle tutele garantite ai propri assicurati.
L’Istituto ha precisato che l’assicurazione infortunistica opera non solo in ipotesi di contagio nell’ambiente di lavoro, ma altresì nell’ipotesi di contagio avvenuto durante il normale percorso di andata e ritorno da casa al lavoro (c.d. infortunio in itinere).
Per quanto attiene al nesso causale, l’Inail ha precisato che nell’attuale situazione pandemica l’ambito della tutela riguarda innanzitutto gli operatori sanitari esposti a un elevato rischio di contagio nonché quelle attività lavorative che comportino il costante contatto con il pubblico/l’utenza. Sul punto l’Istituto ha evidenziato come per tali situazioni sia prevista la presunzione semplice di origine professionale, considerata proprio la elevatissima probabilità che gli stessi vengano a contatto con il coronavirus.
Tuttavia, tali situazioni non esauriscono l’ambito di intervento dell’Istituto, in quanto residuano fattispecie che, pur in assenza di indizi “gravi precisi e concordanti” tali da far scattare ai fini dell’accertamento medico-legale la presunzione semplice, potrebbero essere qualificati come infortunio sul lavoro.
Ebbene, nel contesto epidemiologico di riferimento caratterizzato da incertezze scientifiche relative alle modalità di contagio, al grado di virulenza e ai tempi di incubazione, non v’è chi non veda come l’equiparazione del Coronavirus ad infortunio sul lavoro conduca a notevoli criticità connesse alla dimostrazione che il contagio sia avvenuto in occasione di lavoro e, conseguentemente, all’accertamento del relativo nesso di causalità.
Alla luce del quadro sopra descritto, non sono tardate critiche e preoccupazioni da parte dei datori di lavoro in relazione ai possibili profili di responsabilità, anche penali, derivanti dal riconoscimento del contagio da Covid-19 come infortunio sul lavoro.
Al fine di arginare tali timori, l’Inail, in una nota diffusa il 15 maggio u.s. a poche ore dalla riapertura delle attività produttive, ha precisato che la previsione normativa introdotta dal c.d. Cura Italia “non assume alcun rilievo per sostenere un’accusa di responsabilità penale o civile del datore di lavoro”, argomentando che il datore di lavoro ne potrà rispondere solo “se viene accertata la propria responsabilità per dolo e colpa”.
A ben vedere, la nota pubblicata dall’Inail – seppur diffondendo l’illusione di un ’’alleggerimento” dalla responsabilità gravante sul datore di lavoro – ha semplicemente ribadito i principi cardine del nostro ordinamento in tema di responsabilità del datore di lavoro in materia di salute e sicurezza sul lavoro.
Come noto, infatti, il datore di lavoro, nell’esercizio dell’impresa, è tenuto ad adottare, ai sensi della norma di chiusura del sistema antinfortunistico ex art. 2087 c.c., tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore, secondo la miglior scienza ed esperienza del momento, al fine di impedire il verificarsi di eventi dannosi (gli “infortuni”) per la salute e sicurezza dei prestatori di lavoro.
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Fonte: Agendadigitale.eu
La Corte di Cassazione, Quarta Sez. Penale, con sentenza n. 35934 del 9 agosto 2019, ha affrontato il caso relativo a un incidente occorso a un lavoratore “in nero”. I giudici di legittimità, confermando la decisione di merito, hanno riconosciuto sia la responsabilità del legale rappresentante della società, nella sua qualità di datore di lavoro, sia la responsabilità amministrativa della stessa società in base al Dlgs 231/2001. Quanto a quest’ultima alla società è stata applicata, oltre alla sanzione pecuniaria, la sanzione amministrativa dell’interdizione dall’esercizio dell’attività economica per la durata di un mese, con un conseguente ulteriore danno patrimoniale e d’immagine.
I fatti e i precedenti gradi di giudizio
La controversia in esame ha ad oggetto l’incidente occorso a un lavoratore in nero che, mentre stava smontando una trave modulare del palco ove si era tenuta una manifestazione musicale, aveva perso l’equilibrio, cadendo da un’altezza di circa due metri rispetto al piano stradale. Il lavoratore aveva riportato lesioni da cui era derivata un’incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai quaranta giorni, con indebolimento permanente della funzione uditiva.
Sia il Tribunale di Brindisi che la Corte d’Appello di Lecce avevano dichiarato il legale rappresentante della società, nella sua qualità di datore di lavoro, colpevole del reato di lesioni colpose, condannandolo altresì al risarcimento dei danni patiti dall’infortunato, con riconoscimento di una provvisionale pari a Euro 10.000,00. I giudici di merito avevano, inoltre, riconosciuto la responsabilità amministrativa della stessa società in base al Dlgs 231/2001.
La Corte di Cassazione
Avverso la decisione della Corte di Appello, il datore di lavoro, in proprio e nella sua qualità di legale rappresentate della società, è ricorso dinanzi la Corte di Cassazione, per due diversi motivi.
Con il primo, è stato affermata la sussistenza di una condotta abnorme ed imprevedibile dell’infortunato, che si era avventurato per dare una mano al suo collega, ponendo così in essere una condotta opinabile ed esorbitante, tale da privare di ogni responsabilità il datore di lavoro.
Con il secondo motivo, veniva eccepito che non risultava provato il nesso di causalità tra le condotte omissive dell’imputato e l’evento verificatosi.
La responsabilità della società
La Corte di Cassazione ha dichiarato, innanzitutto, inammissibile il ricorso presentato dalla società per evidente incompatibilità dell’avvocato che assisteva sia il datore di lavoro imputato del reato presupposto, sia la società chiamata a rispondere dell’illecito amministrativo conseguente. Invero, in tema di responsabilità amministrativa degli enti, il legale rappresentante indagato o imputato del reato presupposto non può provvedere, a causa di tale condizione di incompatibilità, alla nomina del difensore dell’ente, per il generale e assoluto divieto di rappresentanza posto dal Dlgs n. 231/2001, articolo 39, (S.U., n. 33041 del 28 maggio 2015).
Inoltre, la Suprema Corte ha confermato la responsabilità della società per l’illecito amministrativo previsto dall’articolo 25-septies, comma 3, del Dlgs 231/2001, quindi per non aver posto in essere un Modello organizzativo e di gestione per la salute e la sicurezza sul lavoro (si veda l’articolo 30 del Dlgs 81/2008) idoneo a prevenire la commissione del reato di lesioni gravi con violazione delle norme antinfortunistiche.
Di conseguenza, alla società è stata applicata la sanzione pari a 100 quote, per un importo complessivo di 30.000,00 euro; inoltre, alla stessa è stata comminata la sanzione amministrativa dell’interdizione dall’esercizio dell’attività per la durata di un mese (articolo 9, comma 2, lettera A, del Dlgs 231/2001), con un conseguente ulteriore danno patrimoniale e d’immagine.
La responsabilità del datore di lavoro
La Suprema Corte ha, altresì, ritenuto congrua e completa di motivazione la decisione della Corte territoriale la quale aveva riconosciuto la responsabilità del ricorrente che aveva “agito come datore di lavoro”, essendo stato proprio lo stesso a telefonare alla persona offesa per invitarla a recarsi al cantiere.
Inoltre, secondo la Corte, l’asserita abnormità della condotta dell’infortunato costituiva doglianza manifestamente infondata. Invero, “in tema di prevenzione antinfortunistica, perché la condotta colposa del lavoratore possa ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l’evento lesivo, è necessario non tanto che essa sia imprevedibile, quanto, piuttosto, che sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia”.
Ebbene, nel caso di specie l’infortunato era intento a svolgere il compito che gli era stato assegnato e la sua caduta, avvenuta mentre stava aiutando un collega a trasportare un traliccio, rientrava per l’appunto nell’espletamento dei sui compiti. Egli, quindi, non ha posto in essere alcuna condotta abnorme, esorbitante o eccedente le sue mansioni. Inoltre, sempre a parere della Corte di Cassazione, era stato provato che se vi fossero stati i necessari ed idonei dispositivi di protezione individuale e, in particolare, quelli previsti per i lavori da svolgersi in quota, l’evento non si sarebbe verificato.
Di conseguenza, la Corte ha dichiarato entrambi i ricorsi inammissibili e condannato i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.