Il frammentato e spesso criptico quadro normativo di riferimento sta creando lungaggini e difficoltà operative nell’accesso alla cassa integrazione in deroga, che mal si conciliano con la necessità di far fronte ad una situazione emergenziale. Facciamo il punto.
Disposizioni di legge, decreti ministeriali, circolari e accordi quadro si sono espressi in modo non sempre coerente in merito alle concrete modalità di accesso all’ammortizzatore in deroga nell’ambito dell’emergenza epidemiologica in corso e, in particolare, in relazione all’effettiva sussistenza di un obbligo di accordo sindacale aziendale per poter accedere all’integrazione salariale.
Prendendo le mosse dal Decreto Legge n. 18 del 17 marzo 2020 (c.d. “Cura Italia”), si rammenta, a tal proposito, che l’art. 22 – nell’estendere a tutto il territorio nazionale il trattamento in deroga – ha disposto che “le Regioni e le Province autonome […] possono riconoscere, […] previo accordo con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale […] trattamenti di cassa integrazione salariale in deroga”.
Il successivo 6° comma del medesimo articolo ha esplicitato, inoltre, che al trattamento in deroga non si applicano le disposizioni di cui all’articolo 19, comma 2, disciplinanti – come noto – la procedura semplificata di consultazione sindacale (della durata di 3 giorni) prevista per l’accesso alla cassa ordinaria e all’assegno erogato dal FIS con causale “emergenza COVID-19”.
Dal tenore letterale delle norme sopra citate parrebbe, quindi, che siano le Regioni e le province autonome a dover sottoscrivere un accordo con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale al fine di definire i possibili beneficiari del trattamento in deroga nel territorio regionale di riferimento, senza ulteriori obblighi di consultazione e sottoscrizione di accordi sindacali in capo alle aziende.
Sennonché, le Regioni – nello stipulare gli accordi quadro ai sensi del citato art. 22 – hanno regolamentato l’accesso alla cassa in deroga con modalità tra loro differenti prevedendo, talvolta, l’obbligatorietà dell’accordo sindacale aziendale quale condizione imprescindibile per l’accesso al trattamento di integrazione salariale.
Si richiamano, ad esempio, l’accordo quadro della Regione Piemonte che dispone espressamente che “il riconoscimento del trattamento di integrazione salariale per i datori di lavoro che occupano più di cinque dipendenti è subordinato alla sottoscrizione di un accordo sindacale, da allegare alla domanda di CIGD”, ovvero, ancora, l’accordo quadro dell’Emilia Romagna che prevede che “per accedere alla cassa integrazione in deroga […] i datori di lavoro devono sottoscrivere l’accordo con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentativa sul piano nazionale”.
Un approccio diametralmente opposto si ravvisa in altre Regioni – tra le quali la Toscana e Veneto – ove la sottoscrizione dell’accordo sindacale non è prevista quale condizione necessaria per l’accesso alla cassa in deroga, essendo sufficienti una mera informativa e consultazione sindacale.
In tale contesto l’Inps – con la circolare n. 47 del 28 marzo 2020 volta a fornire “i primi indirizzi applicativi delle misure straordinarie” introdotte dal D.L. Cura Italia – ha successivamente precisato che “si considera esperito l’accordo di cui all’art. 22, comma 1, con la finalizzazione della procedura di informazione, consultazione ed esame congiunto di cui all’art. 19, comma 1”.
La circolare dell’Inps sopra citata, se da un lato pare aver confermato l’indirizzo interpretativo secondo il quale, ai sensi dell’art. 22 del D.L. “Cura Italia”, l’accordo sindacale aziendale non è necessario per poter accedere alla cassa in deroga, dall’altro – nonostante la propria funzione interpretativa e non normativa – ha introdotto un onere in capo ai datori di lavoro non previsto – anzi esplicitamente escluso – dal D.L. Cura Italia: ed infatti, con un richiamo (verosimilmente non corretto) al 1° comma dell’art. 19, l’Inps ha introdotto, anche per la cassa in deroga, la fase di consultazione sindacale “semplificata” prevista dal Governo per la cassa ordinaria e l’assegno erogato dal FIS.
Nell’”articolato quadro normativo di riferimento”, in data 8 aprile 2020 è intervenuto il Ministero del Lavoro con la circolare n. 8 finalizzata, come si legge in premessa, a fornire “le prime indicazioni interpretative in materia di concessione di trattamenti ordinari di integrazione salariale e di cassa integrazione in deroga”.
La Circolare prende in esame la Cassa integrazione ordinaria, la sospensione del trattamento di CIGS per Coronavirus e le disposizioni introdotte dal D.L. Cura Italia per la cassa integrazione in deroga.
Con tale disposizione il Ministero ha espressamente previsto – sembrerebbe per le sole aziende plurilocalizzate (ovverosia con unità produttive dislocate in 5 o più regioni e province autonome) – che “le domande (n.d.r. di CIGD) dovranno essere corredate dall’accordo sindacale, come previsto espressamente al comma 1 dell’articolo 1, del D.L. n. 18/2020”.
Pare, quindi, che, da ultimo, il Ministero abbia chiarito, quanto meno per le aziende plurilocalizzate, che sia necessario l’accordo sindacale aziendale per poter presentare la domanda di accesso all’ammortizzatore in deroga, sennonché, con buona pace del tanto atteso chiarimento ministeriale, l’art. 1 del D.L. Cura Italia richiamato dalla recente circolare n. 8/2020 si appalesa non conferente, essendo rubricato “Finanziamento aggiuntivo per incentivi in favore del personale dipendente del Servizio sanitario nazionale”.
Nell’attuale contesto, sarebbe stato opportuno, se non necessario, prevedere un accesso agli ammortizzatori sociali semplificato, unitario e di immediata attuazione, al fine di garantire la continuità retributiva ai dipendenti ed efficaci strumenti di gestione della situazione di crisi alle imprese.
Inutile evidenziare come il frammentato e spesso criptico quadro normativo di riferimento ha creato e sta creando lungaggini e difficoltà operative che mal si conciliano con la necessità di far fronte ad una situazione emergenziale che necessita di risposte chiare ed immediate per non aggravare il già precario contesto economico di riferimento.
Fonte: Agendadigitale.eu
Il Tribunale territorialmente competente, con sentenza n. 106/2019 pubblicata in data 3 febbraio 2020, ha affermato che l’esistenza dei certificati A1 crea una presunzione di regolarità contributiva del lavoratore distaccato.
I fatti
Una Compagnia aerea avente sede legale fuori dal territorio italiano ha adito in giudizio l’Istituto nazionale di previdenza sociale italiano (“INPS”), in quanto destinataria di un verbale unico di accertamento ispettivo con cui le veniva contestato il mancato pagamento dei contributi previdenziali in Italia di 31 dipendenti.
In particolare, l’INPS, richiamando il principio della lex loci laboris per il quale i lavoratori occupati nel territorio di uno Stato membro devono essere soggetti alla legislazione di tale stato, ha eccepito che:
La decisione del Tribunale
Il Tribunale investito della causa ha accolto il ricorso della Compagnia area, dando seguito alla giurisprudenza comunitaria dalla stessa prodotta secondo cui: l’esistenza dei certificati A1 crea una presunzione di regolarità contributiva del lavoratore distaccato (Corte di Giustizia C-202/97). Secondo la Corte di Giustizia, inoltre, il certificato A1 (ex E 101) è vincolante per l’ente competente dello Stato membro in cui gli stessi lavoratori sono distaccati. Una soluzione contraria, prosegue la Corte di Giustizia, potrebbe, infatti, pregiudicare il principio dell’iscrizione dei lavoratori subordinati ad un unico regime previdenziale, come pure la prevedibilità del regime applicabile e, quindi, la certezza del diritto.
Il Giudice, nell’argomentare la sua decisione, prosegue richiamando il Regolamento (CE) n. 883/2004 del 29 aprile 2004, il quale all’art. 12 dispone che “la persona che esercita un’attività subordinata in uno Stato membro per conto di un datore di lavoro che vi esercita abitualmente le sue attività ed è da questo distaccata in un altro Stato Membro, rimane soggetta alla legislazione del primo stato membro a condizione che la durata prevedibile di tale lavoro non superi i 24 mesi e che esse non sia inviata in sostituzione di un’altra persona”.
L’ulteriore Regolamento (CE) n. 987/2009 del 16 settembre 2009, richiamato anch’esso dal Giudice adito, dispone, altresì, che in caso di dubbio sulla validità dei certificati A1, l’istituto previdenziale dello Stato membro destinatario del documento deve chiedere direttamente all’istituzione emittente il certificato i chiarimenti necessari e, se del caso, il ritiro del certificato stesso.
Sulla base delle richiamate disposizione Europee, pertanto, il Giudice investito di tale complessa questione, conclude le proprie motivazioni affermando che:
(i) l’INPS non ha competenza per pronunciarsi sulla validità o meno dei certificati A1 e
(ii) l’unico strumento riconosciuto all’ente previdenziale è la procedura di dialogo e conciliazione, in base alla quale lo stesso avrebbe dovuto rivolgersi previamente all’Autorità del Paese estero per metterla in condizioni di valutare la correttezza dei formulari A1 rilasciati. Nel caso di mancato accordo, l’INPS avrebbe dovuto investire della questione la Commissione amministrativa comunitaria e che, a dispetto dei formulari, ha comunque provveduto ad addebitare la contribuzione omessa in Italia.
In considerazione di quanto sopra esposto il Giudice di prime cure ha dichiarato infondata la pretesa creditoria azionata dall’INPS, compensando le spese del giudizio.
L’INPS, con messaggio n. 3359 del 17 settembre 2019, ha riassunto ed illustrato agli operatori economici e alle sue sedi territoriali, i principi consolidatisi a livello di giurisprudenza di legittimità circa la compatibilità tra la titolarità di cariche sociali e/o la figura del socio di società di capitali con un distinto rapporto di lavoro subordinato.
Il messaggio muove le mosse da quanto già precisato sul tema dallo stesso Istituto nella nota circolare 179 dell’8 agosto 1989 (“Accertamenti e valutazione della sussistenza del rapporto di lavoro subordinato”), in parte rivisto alla luce del messaggio 12441 dell’8 giugno 2011.
L’Istituto previdenziale, partendo dall’assunto che l’incarico di amministratore di una società di capitali non esclude a priori la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato purché ne sussistano le relative caratteristiche tipiche (i.e. l’assoggettamento al potere direttivo, di controllo e disciplinare dell’organo di amministrazione), si sofferma sulle varie cariche sociali evidenziando, per ciascuna di esse, i limiti alla compatibilità con un parallelo rapporto di lavoro subordinato.
Cariche sociali
In primo luogo, viene presa in esame la carica di presidente del consiglio di amministrazione che, ad avviso dell’Istituto, non è incompatibile con lo status di lavoratore subordinato ferma restando la sottoposizione del presidente medesimo alle direttive, alle decisioni ed al controllo dell’organo collegiale, anche in presenza dell’eventuale conferimento della rappresentanza legale della società.
Quanto sopra, diversamente dall’amministratore unico in quanto “detentore del potere di esprimere da solo la volontà propria dell’ente sociale, come anche i poteri di controllo, di comando e di disciplina”. La carica di amministratore unico risulta, infatti, incompatibile con un rapporto di lavoro subordinato in quanto il lavoratore finirebbe per eseguire prestazioni lavorative ordinate dall’organo direttivo, ovverosia da sé stesso.
La compatibilità tra la carica di amministratore delegato ed un parallelo rapporto di lavoro subordinato va invece valutata, secondo la giurisprudenza di legittimità e l’Istituto, in base (i) all’ampiezza della delega conferita dal consiglio di amministrazione, (ii) al numero di eventuali altri amministratori delegati ed (iii) alla facoltà di agire congiuntamente o disgiuntamente.
Stante ciò e ferma comunque restando la sussistenza degli elementi tipici della subordinazione, l’Istituto – sulla scorta delle sentenze esaminate – ritiene che la figura dell’amministratore delegato al quale siano conferite specifiche e limitate deleghe e che agisca in presenza di altri organi delegati, non sia ostativa all’instaurazione di un genuino rapporto di lavoro.
Da escludere, invece, è la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato in capo all’unico socio di una società di capitali poiché la concentrazione della proprietà delle azioni in capo ad un solo soggetto esclude in nuce la sua effettiva soggezione alle direttive di un organo societario, assurgendo a “sovrano” della società stessa.
Diverso, invece, il caso del socio (non unico) di una società di capitali. In capo a tale figura, anche in presenza di un contemporaneo incarico di amministratore, non è infatti astrattamente possibile configurare un autonomo rapporto di lavoro subordinato previo il concreto accertamento dello svolgimento di attività estranee alle funzioni inerenti al rapporto organico, contraddistinte in ogni caso dai caratteri tipici della subordinazione.
Prova della cumulabilità tra carica sociale e rapporto di lavoro subordinato
L’Istituto concentra, infine, la propria analisi sulla prova che deve fornire in giudizio il soggetto che voglia far valere il vincolo di subordinazione in presenza di un rapporto di tipo unicamente gestorio.
Prendendo le mosse dalle decisioni della giurisprudenza di legittimità, l’INPS precisa che la cumulabilità tra carica sociale e rapporto di lavoro subordinato presuppone la prova delle seguenti condizioni:
In tale contesto, precisa l’INPS, verranno poi valutati alcuni degli elementi distintivi della subordinazione, quali:
In sostanza, fatta eccezione per il caso del socio unico di società di capitali, l’Istituto ammette il cumulo tra la carica di amministratore e quella di lavoro subordinato purché venga fornita la prova concreta e rigorosa dello svolgimento di attività estranee alle funzioni inerenti al rapporto organico e contraddistinte dai caratteri tipici della subordinazione.
L’INPS, con la circolare 63 del 9 maggio 2019, ha fornito:
Entriamo nel dettaglio della circolare.
Il massimale INPS e il regime prescrizionale dei contributi
A decorrere dal 1° gennaio 1996, a seguito dell’introduzione del massimale della base contributiva e pensionabile di cui all’art. 2, comma 18, della Legge 335/1995, per i lavoratori rientranti nel sistema pensionistico contributivo la retribuzione percepita oltre il limite annualmente fissato (pari ad Euro 102.543 per l’anno 2019) non è assoggettata a contribuzione previdenziale, né viene computata nel calcolo delle prestazioni pensionistiche.
Tuttavia, può accadere che il datore di lavoro, per il calcolo della contribuzione dovuta, assuma come riferimento una retribuzione imponibile superiore rispetto a quella di cui al massimale annuo. In questo caso, lo stesso datore di lavoro può richiedere all’INPS la restituzione della contribuzione versata in eccesso sulla base delle norme che disciplinano l’indebito oggettivo di cui all’art. 2033 cod. civ.
La circolare ricorda che il termine di prescrizione per richiedere la restituzione, ai sensi dell’art. 2946 cod. civ., è di 10 anni. Qualora tale termine decorra inutilmente, le somme rimarranno acquisite all’Istituto anche se, comunque, non produrranno effetti previdenziali.
Inoltre, l’Inps rammenta che all’eccedenza di contribuzione de quo, non si applica l’art. 8 del D.P.R. 818/1957, “il cui regime prevede l’acquisizione alla gestione previdenziale, e il conseguente computo ai fini del diritto alle prestazioni, dei contributi indebitamente versati per i quali l’accertamento dell’indebito versamento sia posteriore di oltre cinque anni dalla data in cui il versamento stesso è stato effettuato”. Ciò in quanto lo scopo dell’art. 2, comma 18, L. 335/1995, è proprio quello di fissare, per i lavoratori privi di anzianità contributiva al 31 dicembre 1995, un “massimale annuo”, che costituisce non solo un tetto inderogabile ai fini della base contributiva ma anche la base dell’età pensionabile. E sul punto l’Istituto richiama la circolare 282 del 15 novembre 1995, con la quale aveva già precisato che i contributi previdenziali e assistenziali indebitamente versati non sono annoverati nell’ambito delle contribuzioni computabili ai fini pensionistici.
Recupero della contribuzione indebita non prescritta
Con la circolare in commento, l’INPS ricorda che, al fine di evitare il ricorrere di versamenti eccedenti rispetto al “massimale annuo”, i datori di lavoro devono in primo luogo individuare il corretto regime previdenziale applicabile ai dipendenti, acquisendo le dichiarazioni degli stessi sia al momento dell’instaurazione del rapporto di lavoro sia nel corso del suo svolgimento.
Sul piano operativo, il datore di lavoro è poi tenuto a dichiarare mensilmente nel flusso Uniemens il regime applicato a ciascun dipendente attraverso la compilazione dell’apposita sezione, apponendovi il valore “S” se il lavoratore è soggetto a regime contributivo o il valore “N” se l’ipotesi non ricorre.
Quanto al recupero sul massimale della contribuzione eccedente non prescritta, l’Inps ricorda che esso può essere richiesto attraverso le seguenti modalità:
Inoltre, i datori di lavoro dovranno trasmettere flussi di variazione Emens per la sistemazione delle posizioni individuali.
Gestione nel flusso Uniemens dell’indennità sostitutiva del preavviso
Infine, l’INPS con la circolare in commento ricorda che per consentire il corretto assoggettamento a contribuzione dell’indennità sostitutiva del preavviso a cavallo di due annualità, corrisposta a un lavoratore soggetto al massimale contributivo, occorre fare riferimento a quanto previsto nel suo messaggio 159/2003. In esso si precisa che il massimale dell’anno interesserà unicamente le quote di indennità che ricadono nell’anno stesso. Dette quote potranno essere integralmente, parzialmente o per nulla assoggettate a contribuzione, a seconda del valore del massimale raggiunto e la quota di indennità, che temporalmente ricade nell’annualità successiva, dovrà essere assoggettata al massimale dell’anno successivo.
L’art. 2, comma 31, della legge 92/2012 (cd. Legge Fornero) ha introdotto un contributo, a carico dei datori di lavoro, per ogni interruzione di rapporto di lavoro a tempo indeterminato per le causali che, indipendentemente dal requisito contributivo, danno diritto all’ASPI (oggi NASPI). La somma dovuta è pari al 41% del massimale mensile di NASPI per ogni 12 mesi di anzianità aziendale negli ultimi tre anni (cd. “Ticket di licenziamento”). Con riferimento all’anno 2019, L’Inps, con la circolare 5/2019, ha dichiarato che la retribuzione da prendere a riferimento per il calcolo delle indennità di disoccupazione NASPI è Euro 1.221,46. Pertanto, le imprese che procedono ad un licenziamento nell’anno in corso devono versare all’INPS un Ticket di licenziamento pari ad Euro 500,79 (41% di Euro 1.221,46; contro i 495,34 Euro del 2018) per ogni anno di anzianità maturato dal dipendente fino ad un massimale di Euro 1502,36 (contro i 1.486,02 del 2018). Il Ticket di licenziamento, secondo quanto disposto dalla circolare INPS 44/2013, deve essere versato entro il giorno 16 del secondo mese successivo a quello in cui avviene il licenziamento. La legge di bilancio 2018 ha introdotto modifiche alla disciplina del contributo nell’ambito dei licenziamenti collettivi, prevedendo un innalzamento della aliquota percentuale del massimale NASPI per ogni dodici mesi di anzianità aziendale negli ultimi tre anni dal 41% all’82%. Pertanto, in presenza di licenziamenti collettivi il contributo per il 2019 è pari ad Euro 1001,59 fino ad un massimale di Euro 3004,79. L’importo, così come disposto dall’art. 2, comma 35 della Legge Fornero, è moltiplicato per tre volte nei casi di licenziamenti collettivi senza accordo sindacale.
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