Il 12 dicembre 2024, la Corte di cassazione ha ritenuto conformi le richieste di referendum depositate a luglio dalla Cgil inerenti, tra l’altro, la disciplina dei licenziamenti illegittimi nell’ambito del contratto di lavoro cosiddetto a tutele crescenti di cui al Dlgs 23/2015.
Tale sistema rimediale ha, da sempre, interessato l’opinione pubblica e il dibattito politico, e ancora oggi rappresenta un punto di frattura tra le parti sociali. Basti pensare che, se da un lato, lo scorso 8 settembre 2024, in occasione del primo incontro pubblico tra il leader della Cgil, Maurizio Landini, e il presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, quest’ultimo aveva confermato che «superare il Jobs act sarebbe un tuffo nel passato, abbiamo un gap tra domanda e offerta di lavoro che vale 43 miliardi all’anno. Per noi oggi il tema è attrarre persone, non superare una misura che sta funzionando», dall’altro, il segretario generale della Cgil ha affermato che con il via libera della Cassazione ai quesiti referendari «si apre una grande opportunità per il Paese».

Orbene, stante il persistente divario tra le posizioni delle parti sociali e il forte impatto che il contratto a tutele crescenti ha sull’opinione pubblica (prova ne è, da ultimo, il raggiungimento del quorum referendario), appare utile valutare se, da un mero punto di vista tecnico/legale, la normativa di cui al Dlgs 23/2015 presenti attualmente sostanziali differenze rispetto alla tutela offerta dall’articolo 18, dello Statuto dei lavoratori, come modificato dalla legge 92/2012, tali da renderne – ad avviso dei sostenitori del referendum – indispensabile l’abrogazione nell’ottica di ampliare l’ambito di applicabilità della tutela reintegratoria.

Nella sua originaria formulazione, l’intervento del legislatore era caratterizzato dall’automatica determinazione dell’indennità risarcitoria dovuta in caso di licenziamento illegittimo, sulla base di una formula matematica, al fine di superare un sistema imperniato sulla discrezionalità dell’organo giudicante.

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Sei anni fa, il 7 marzo 2015, entravano in vigore le tutele crescenti del Jobs Act, innovative tutele in caso di licenziamento illegittimo per i nuovi assunti a tempo indeterminato: un intervento ai tempi considerato rivoluzionario dei principi regolanti le tutele sino ad allora in vigore, che si prefiggeva di disciplinare le conseguenze del licenziamento illegittimo in modo esclusivamente automatico e sulla base di una formula matematica, dando forma all’ambizioso progetto di superare le incertezze di un sistema fino ad allora imperniato sulla discrezionalità del giudicante.

In base alle nuove regole, veniva d’un tratto ridefinito, per le aziende con più di quindici dipendenti, l’ambito di operatività del dibattuto diritto alla reintegrazione che, veniva relegata ad ipotesi residuale applicabile solo ai casi più gravi (insussistenza del fatto contestato al lavoratore, ovvero licenziamento discriminatorio o in altro modo radicalmente nullo) cedendo così il passo ad una tutela risarcitoria, da un minimo di quattro a un massimo di ventiquattro mensilità, per i canoni sino ad allora vigenti piuttosto contenuta soprattutto nei primi anni di servizio.

Almeno nelle intenzioni, la riforma avrebbe dovuto favorire nuova occupazione e ridurre gli ostacoli normativi all’attrazione degli investimenti in Italia.

A distanza di pochi anni, tuttavia, può dirsi con una certa tranquillità che le tutele crescenti originariamente introdotte hanno avuto vita molto breve e altrettanto travagliata.

Da un lato infatti l’economia reale, vero motore di ogni forma di sviluppo e crescita dell’occupazione, non ha avuto il trend auspicato dovendo affrontare da ultimo lo scenario pandemico, inimmaginabile nel 2015, rendendo impossibile riscontrare nel tempo l’incidenza espansiva delle tutele crescenti da un punto di vista occupazionale. D’altra parte, non si sono fatti attendere interventi normativi da parte dei successivi governi e in rapida successione della Corte Costituzionale, che hanno stravolto i connotati della riforma lasciando ben poco di quanto originariamente previsto.

Il primo colpo al sistema delle tutele crescenti veniva inferto dal Decreto Dignità (D.L. n. 87/2018) che, senza modificare la formula per il calcolo dell’indennizzo spettante sulla base di due mensilità per ogni anno di servizio, aumentava l’intervallo dell’indennizzo, che diventava da sei a trentasei mensilità.

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La Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE), con la sentenza del 17 marzo 2021 (causa C-652/2019), si è espressa sulle questioni pregiudiziali sollevate dal Tribunale di Milano il 5 agosto 2019 relativamente alla legittimità della disciplina dei licenziamenti collettivi contenuta nel Jobs Act.

I fatti di causa

Il caso riguarda una lavoratrice assunta a tempo determinato antecedentemente all’entrata in vigore del Jobs Act, stabilizzata a tempo indeterminato a fine marzo 2015 e poi licenziata nel 2017 nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo.

I dipendenti interessati dalla procedura in questione, inclusa la lavoratrice, adivano il Tribunale di Milano che dichiarava illegittimi i licenziamenti impugnati per violazione dei criteri di scelta. Il Tribunale riconosceva alla lavoratrice – diversamente dai suoi colleghi che erano stati reintegrati poiché assunti a tempo indeterminato prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 23/20215 (cd. Jobs Act), ossia prima del 7 marzo 2015 – la sola tutela indennitaria.

Il Tribunale, preso atto dell’esistenza di due regimi sanzionatori differenti in caso di licenziamento collettivo illegittimo scaturenti dall’introduzione del contratto a tutele crescenti, ha chiesto alla Corte di Strasburgo se una simile differenza di trattamento fosse contraria al diritto dell’Unione europea.

La decisione della CGUE

La Corte di Giustizia ha riconosciuto la conformità del D.Lgs. n. 23/2015 con il diritto dell’Unione europea, chiarendo che non è discriminatorio il regime che prevede solo un’indennità (e non anche la reintegrazione) per il lavoratore assunto con contratto a termine prima del 7 marzo 2015 e stabilizzato dopo. Ciò in quanto il diverso trattamento è giustificato dal fatto che i lavoratori interessati dalle tutele crescenti ottengono, in cambio di un regime di tutela meno forte, una forma di stabilità dell’impiego.

Si tratterebbe secondo la Corte di Strasburgo di un incentivo volto a favorire la conversione dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato che costituisce un obiettivo legittimo di politica sociale e di occupazione, la cui scelta rientra nell’ampio margine di discrezionalità degli Stati membri.

A parere della Corte di Strasburgo tale considerazione si pone in linea con quanto deciso dalla Consulta nel 2018, la quale, trattando sostanzialmente la medesima questione, aveva ritenuto legittimo che la disciplina rimediale potesse essere differenziata in relazione alla data di assunzione.

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La Legge di Bilancio 2021 prevede un ampio ventaglio di interventi in materia di lavoro, fiscale, sostegno alla liquidità e sviluppo delle imprese, con i suoi ben 1.150 commi, rappresenta una delle norme principali della manovra finanziaria.

L’art. 1, comma 279[1], della legge 30 dicembre 2020, n. 178, in particolare, ha esteso fino al 31 marzo 2021 la possibilità di prorogare o rinnovare i contratti a tempo determinato derogando all’obbligo delle tanto severe quanto discusse causali introdotte nella disciplina generale dei contratti a termine dal D.Lgs. 81/2015 c.d. Jobs Act[2], così come modificato dal Decreto Dignità (D.L. 87/18 come convertito dalla L. 96/18).

Questa importante deroga, fonte di ritrovata flessibilità nell’utilizzo dei contratti a termine, era stata dapprima introdotta dal c.d. Decreto Rilancio fino al 31 agosto 2020, per poi essere prorogata fino al 31 dicembre 2020 e da ultimo, dunque, ulteriormente estesa con la Legge di Bilancio fino alla prossima primavera. Questa possibilità di proroga o rinnovo “agevolata” è consentita per una sola volta e per durata massima di 12 mesi, nel rispetto in ogni caso del limite di durata massima dei contratti di lavoro a tempo determinato pari a 24 mesi.

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Con la sentenza 254 del 26 novembre 2020 , la Corte costituzionale ribadisce la leale collaborazione con la Corte di giustizia europea e dichiara inammissibile le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte d’appello di Napoli sulle disposizioni del Jobs act relative ai licenziamenti collettivi intimati in violazione dei criteri di scelta.

Nella motivazione della sentenza 254/2020 della Corte costituzionale si legge, infatti, quanto segue: «vi è un legame inscindibile tra il ruolo della Corte di giustizia dell’Unione europea, chiamata a salvaguardare il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei trattati» e il ruolo di tutti i giudici nazionali, depositari del compito di garantire «una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione» (articolo 19 del trattato). In un sistema integrato di garanzie, riveste un ruolo essenziale la leale e costruttiva collaborazione tra le diverse giurisdizioni, chiamate – ciascuna per la propria parte – a salvaguardare i diritti fondamentali nella prospettiva di una tutela sistemica e non frazionata».

Le questioni di legittimità sollevate e la decisione della Corte europea
Prima di entrare nel merito della decisione della Corte costituzionale, si precisa che, riguardo alla violazione delle norme della Carta di Nizza, la Corte di Appello di Napoli aveva ha ritenuto di proporre contemporaneamente rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea, allo scopo di chiarire il «contenuto della Carta dei Diritti fondamentali», per assumere poi «una diretta rilevanza nel giudizio di costituzionalità»
e un incidente di costituzionalità.
Si è pronunciata per prima la Corte di giustizia che, con ordinanza del 4 giugno 2020, ha dichiarato manifestamente irricevibili le questioni proposte sostenendo l’assenza «di un collegamento tra un atto di diritto dell’Unione e la misura nazionale in questione», collegamento richiesto dall’articolo 51, paragrafo 1, della Carta di Nizza. Esso non si identifica nella mera affinità tra le materie prese in esame e nell’indiretta influenza che una materia esercita sull’altra».
In altre parole, la Corte di Lussemburgo non ha rinvenuto alcun collegamento fra la disciplina nazionale inerente ai criteri di scelta nell’ambito dei licenziamenti collettivi e un atto di diritto dell’Unione, non potendo, pertanto, assumere alcuna posizione sull’asserita violazione della stessa Carta.

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