La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 254 depositata il 26 novembre 2020, ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte d’appello di Napoli sulle disposizioni del Jobs Act riguardanti i licenziamenti collettivi intimati in violazione dei criteri di scelta. La Consulta ha ritenuto, per un verso, insufficiente la motivazione del giudice sulla rilevanza e, per altro verso, incerta la richiesta di un suo intervento correttivo.
I fatti di causa
La Corte d’appello di Napoli aveva sollevato un giudizio di legittimità costituzionale in merito all’art. 1, co. 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183 e agli artt. 1, 3 e 10 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23.
Secondo la Corte partenopea, le disposizioni censurate avrebbero irragionevolmente introdotto un regime sanzionatorio differenziato in caso di violazione dei criteri di scelta nell’ambito della medesima procedura di licenziamento collettivo; nel merito, solo per i rapporti di lavoro instaurati alla data del 7 marzo 2015, sarebbe stata riconosciuta una tutela reintegratoria, mentre, per i rapporti sorti successivamente, sarebbe stata garantita solo una tutela meramente indennitaria.
Il descritto sistema sanzionatorio, secondo le censure dei giudici di merito, oltre a comportare una violazione dei principi sanciti dagli artt. 3, 4, 24, 35, 38, 41, 111, 10 e 117, co. 1, della Costituzione, avrebbero comportato una collisione con alcuni principi della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, meglio nota come Carta di Nizza.
Con riguardo alla violazione delle norme della Carta di Nizza, veniva contemporaneamente proposto un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea e incidente di costituzionalità.
Il 4 giugno 2020, la Corte di Strasburgo ha dichiarato il ricorso manifestamente irricevibile, non riscontrando alcun collegamento fra la menzionata disciplina nazionale, ovvero i criteri di scelta nell’ambito dei licenziamenti collettivi, e un atto di diritto dell’Unione, e pertanto, non si è espressa sull’asserita violazione della Carta di Nizza.
La decisione della Corte Costituzionale
La Corte Costituzionale, nella sentenza in analisi, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale. Ciò in quanto la Corte d’appello ha omesso di (i) descrivere la fattispecie concreta – non offrendo così un ragguaglio sulle ragioni d’illegittimità del licenziamento collettivo del caso di specie per violazione dei criteri di scelta – e (ii) allegare gli elementi idonei a corroborare l’accoglimento dell’impugnazione in virtù di una violazione dei criteri di scelta, impedendole così di valutare la rilevanza delle questioni sollevate.
La Corte Costituzionale, pertanto, si è limitata a ribadire la consonanza con le indicazioni della Corte di Giustizia circa l’ambito di applicazione del diritto UE. Inoltre, la stessa ha affermato che vi è un legame inscindibile tra il ruolo della Corte di Giustizia, chiamata a salvaguardare “il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei trattati” e il ruolo di tutti i giudici nazionali, depositari del compito di garantire “una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione”.
A parere della Consulta, in un sistema integrato di garanzie, riveste un ruolo essenziale la leale e costruttiva collaborazione tra le diverse giurisdizioni, chiamate, ciascuna per la propria parte, a salvaguardare i diritti fondamentali nella prospettiva di tutela sistemica e non frazionata.
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Con sentenza 150 depositata lo scorso 16 luglio la Consulta ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 4 del D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23 limitatamente alle parole “di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”.
La questione di costituzionalità era stata sollevata dai Tribunali di Bari e di Roma rispettivamente con ordinanza del 18 aprile 2019 e del 9 agosto 2019 nell’ambito di giudizi aventi ad oggetto l’illegittimità dei licenziamenti intimati in violazione delle norme procedurali tra cui l’art. 7 della Legge n. 300/1970.
Ad avviso dei giudici rimettenti, il licenziamento intimato in violazione delle prescrizioni formali (i) determina l’inosservanza di disposizioni imperative, preordinate a garantire il principio di civiltà giuridica “audiatur et altera pars”, e (ii) si configurerebbe pur sempre come “un illecito che deve dar luogo ad un risarcimento “adeguato e personalizzato”, ancorché forfettizzato”.
La Consulta ha rilevato, uniformandosi ai principi espressi nella precedente sentenza n.194/2018, che il meccanismo di quantificazione dell’indennità applicato solo ai licenziamenti per vizi di natura formale “non fa che accentuare la marginalità dei vizi formali e procedurali e ne svaluta ancor più la funzione di garanzia di fondamentali valori di civiltà giuridica, orientati alla tutela della dignità della persona del lavoratore”. Difatti, tale criterio matematico non appare “congruo rispetto alla finalità di dissuadere i datori di lavoro dal porre in essere licenziamenti affetti da vizi di forma”.
Inoltre, l’anzianità di servizio “trascura la valutazione della specificità del caso concreto” ed è inidonea a esprimere “la vasta gamma di variabili che vedono direttamente implicata la persona del lavoratore”. Pertanto, essa non presenta una ragionevole correlazione con il disvalore del licenziamento affetto da vizi formali e procedurali, che il legislatore ha inteso sanzionare e che non può esaurirsi nel mero calcolo aritmetico dell’anzianità di servizio.
Per la Consulta, quindi, nel rispetto del limite minimo e massimo stabilito dal legislatore, il giudice adito, nella determinazione dell’indennità deve tener conto, innanzitutto, dell’anzianità di servizio, che rappresenta “la base di partenza della valutazione”. Ad ogni modo, il giudice non può prescindere dall’applicazione “con apprezzamento congruamente motivato” di altri criteri, che concorrono “in chiave correttiva” a rendere la determinazione dell’indennità aderente alle particolarità del caso concreto. Tra questi rilevano la gravità delle violazioni, ai sensi dell’art. 18, sesto comma, della Legge n. 300/1970, il numero degli occupati, le dimensioni dell’impresa, il comportamento e le condizioni delle parti, richiamati dall’art. 8 della Legge n. 604 del 1966.
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Nei giorni scorsi il cd. Decreto Dignità (D.L. 87/2018), in vigore dallo scorso 14 luglio, non ha superato il vaglio delle Commissioni Finanza e Lavoro che, in sede referente, hanno approvato diversi emendamenti. Con specifico riferimento al contratto a tempo determinato, le nuove disposizioni dovrebbero trovare applicazione ai contratti stipulati successivamente alla data di entrata in vigore del Decreto nonché ai rinnovi ed alle proroghe successivi al 31 ottobre 2018 (cd. clausola di transizione). Le Commissioni parlamentari hanno, altresì, approvato l’emendamento secondo il quale, salvo diversa previsione dei contratti collettivi applicati dall’utilizzatore, il numero dei lavoratori assunti con contratto a tempo determinato ovvero con contratto di somministrazione a tempo determinato non può eccedere complessivamente il 30% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza presso l’utilizzatore stesso. Inoltre, le Commissioni hanno deliberato l’introduzione della cd. somministrazione fraudolenta che si verifica qualora l’utilizzo di lavoratori somministrati è finalizzato ad eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo. Il testo del Decreto si è anche arricchito di un nuovo esonero contributivo in caso di assunzione di under 35 nel biennio 2019-220. Si tratta di uno sgravio parziale (nella misura del 50%) ed è concesso per 36 mesi. Infine le Commissioni, con riferimento all’offerta conciliativa di cui all’art. 6 del D.Lgs. 23/2015 hanno proposto di aumentare i parametri da un minimo di 3 ad un massimo di 27 mensilità. Si attende ora di vedere se il testo subirà ulteriori emendamenti in sede di approvazione.
Con la definitiva approvazione del c.d. Jobs Act del lavoro autonomo – allo stato in attesa di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale – è stata introdotta nell’ordinamento italiano una riforma finalizzata alla tutela economico e sociale dei lavoratori autonomi che svolgono la loro attività in forma non imprenditoriale. Sul piano della tutela economica, si segnala che il provvedimento considera abusive, con conseguente diritto del lavoratore autonomo al risarcimento dei danni, le clausole (i) che attribuiscono al committente il diritto di recedere dal contratto senza congruo preavviso nonché di modificare unilateralmente le condizioni ivi previsti e (ii) con le quali le parti concordano termini di pagamento superiori a 60 giorni. Analogamente, è considerata abusiva la condotta del committente che si rifiuti di stipulare il contratto in forma scritta. Anche in tale caso, il lavoratore autonomo avrà diritto al risarcimento dei danni. Si segnalano, inoltre, l’applicazione della disciplina prevista in materia di abuso di dipendenza economica e la previsione del riconoscimento, in capo al lavoratore autonomo, dei diritti di utilizzazione economica relativi ad apporti originali e invenzioni realizzati nell’esecuzione del contratto, salvo il caso in cui l’attività inventiva sia prevista come oggetto del contratto medesimo e compensata. Queste sono solo alcune delle principali novità introdotte dal Jobs Act del lavoro autonomo ma appaiono già sufficienti per indurre i committenti a valutare attentamente l’opportunità di contrattualizzare in modo adeguato i rapporti in essere e futuri con i lavoratori autonomi.
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