Il mondo del lavoro italiano, che in queste settimane ha nuovamente posto il tema al centro dei propri dibattiti, potrebbe interpretare questo quesito come una provocazione.  

Nel nostro ordinamento, infatti, il lavoro agile è definito come una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato da stabilirsi attraverso un accordo tra le parti. Ciò comporta che il lavoratore potrebbe anche farne richiesta ma spetta comunque al datore di lavoro la facoltà di scegliere, in primis, se introdurre o meno tale modalità di esecuzione delle mansioni lavorative all’interno della propria organizzazione. Scelta che il datore può assumere senza nemmeno dover fornire eventuali giustificazioni – la normativa vigente in Italia non prevede infatti che l’azienda debba esibire spiegazioni o motivazioni.

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In una direzione differente sembra andare l’approccio che vorrebbe adottare il governo laburista del Regno Unito. Lo scorso 10 ottobre, infatti, è stato presentato ed illustrato al Parlamento il c.d.” Employment Rights Bill”, un disegno di legge che in ventotto punti si pone l’obiettivo di riformare i diritti dei lavoratori d’oltre manica.

Nell’ambito delle numerose riforme che la proposta vuole introdurre e che già hanno suscitato da un lato molta attesa e dall’altro le preoccupazioni delle aziende, l’”Employment Rights Bill” promuove il lavoro flessibile a tal punto che il “work from home” potrebbe diventare di default la regola per tutti i lavoratori – ovviamente, a condizione che le mansioni assegnate siano compatibili con tale modalità di esecuzione delle attività lavorative. Nello specifico, si prevede, da un lato, che i lavoratori dipendenti possano – sin dal primo giorno di lavoro – presentare richiesta di lavorare in modalità flessibile e, dall’altro, che il datore di lavoro abbia la possibilità di rifiutare una richiesta se però dimostra di avere una buona ragione per farlo.

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Lo scorso 28 dicembre 2023 l’Italia ha aderito all’Accordo quadro europeo denominato “Framework Agreement on the application of Article 16 (1) of Regulation (EC) No. 883/2004 in cases of habitual cross-border Telework”.

Ai sensi dell’art. 1 del Framework Agreement viene definita “cross-border teleworker” l’attività che il lavoratore svolge da remoto in uno o più Stati membri tramite l’utilizzo di tecnologie informatiche.

L’accordo prevede che i lavoratori che svolgono l’attività di cui sopra potranno essere assoggetti al regime previdenziale dello Stato membro in cui si trova la sede legale del datore di lavoro, a condizione l’attività lavorativa prestata in regime “telelavoro” nello Stato di residenza sia inferiore al 50% dell’orario di lavoro totale.

Tale regime si applica solo se lo Stato di residenza del lavoratore e quello in cui il datore di lavoro ha la sede legale siano entrambi firmatari del Framework Agreement. Pertanto, in mancanza di adesione, si applicheranno le disposizioni previste dall’art. 13 e ss. del Regolamento Comunitario n. 883/2004, che prevedono l’applicazione del regime previdenziale dello Stato membro di residenza qualora il lavoratore presti in tale Stato una parte sostanziale della sua attività.

Laddove ricorrano le condizioni di cui al Framework Agreement, per poter derogare alle previsioni generali stabilite a livello europeo in materia di individuazione della normativa applicabile, sarà necessario avviare un’apposita procedura ai sensi dell’art. 18 del Regolamento no. 987/2009. Tale procedura deve essere intrapresa dinanzi all’autorità competente dello Stato membro in cui il lavoratore subordinato chiede di applicare la legislazione che, nel caso dell’Italia, è l’INPS.

Da ultimo, si segnala che le richieste presentate sino 30 giugno 2024 potranno coprire retroattivamente un periodo fino a 12 mesi precedenti a quello della richiesta.

Storicamente, il lavoro frontaliero tra l’Italia e la Svizzera è stato disciplinato dall’Accordo siglato a Roma nel 1974 e, altresì, dalla Convenzione contro le doppie imposizioni del 1976, tuttora in vigore tra i due paesi.

Dette intese stabilirono che i salari, gli stipendi e gli altri elementi facenti parte della remunerazione che un lavoratore frontaliero – generalmente inteso quale lavoratore, sia dipendente che autonomo, che svolge la propria attività in uno Stato diverso da quello in cui risiede, e che ritorna nello Stato di residenza, in linea di massima, quotidianamente o almeno una volta alla settimana – riceve come corrispettivo di un’attività dipendente fossero imponibili soltanto nello Stato in cui tale attività è svolta.

Tuttavia, lo sviluppo tecnologico e, soprattutto, il periodo di emergenza Covid hanno mutato gli originari scenari imponendo all’Italia ed alla Svizzera di far fronte alla forte diffusione dell’utilizzo delle c.d. modalità agili di svolgimento della prestazione lavorativa che, diversamente dal passato, non è più necessariamente resa all’interno dei locali aziendali e, per quanto qui di stretto interesse, non comporta più il quotidiano passaggio oltreconfine.

A decorrere dal 1° gennaio 2024, per effetto dell’entrata in vigore della Legge n. 83/2023 a recepimento dell’accordo del 23 dicembre 2020, importanti novità sono subentrate nei rapporti tra Italia e Svizzera dal punto di vista della normativa fiscale applicabile ai cosiddetti lavoratori frontalieri, con effetto anche sulle linee guide attinenti al lavoro da remoto.

Le nuove misure fiscali applicabili ai lavoratori frontalieri

Con l’entrata in vigore della Legge n. 83/2023 si è concluso il processo di revisione degli accordi tra Italia e Svizzera aventi ad oggetto il regime del lavoro frontaliero, avviata dal già citato protocollo del 23 dicembre 2020. Il nuovo accordo, formalizzato dalla citata legge, interviene sull’accordo e la convenzione per evitare le doppie imposizioni siglati rispettivamente nel 1974 e nel 1976, adeguandoli alla luce delle nuove intese raggiunte dai due Paesi.

Le nuove disposizioni concordate tra Italia e Svizzera – entrate in vigore il 17 luglio 2023, ma applicabili dal 1° gennaio 2024 – hanno ad oggetto la definizione del lavoro frontaliero e il regime fiscale applicabile rispetto ai redditi di lavoro conseguiti dalle persone interessate. Le parti hanno concordato che le stesse siano soggette a riesame su base quinquennale.

Nel dettaglio, la definizione di lavoratore frontaliero è stata rivista dal nuovo accordo, venendo attribuita a qualsiasi lavoratore residente in uno Stato contraente che è fiscalmente domiciliato in un Comune il cui territorio si trova, totalmente o parzialmente, nella zona di 20 km dal confine con l’altro Stato contraente. Le aree di frontiera contemplate dall’accordo sono, per la Svizzera, i cantoni Grigioni, Ticino e Vallese, e, per l’Italia, le regioni Lombardia, Piemonte, Valle d’Aosta e la provincia autonoma di Bolzano. 

Per essere considerato frontaliero , il lavoratore deve svolgere un’attività di lavoro nelle citate area di frontiera dell’altro Stato e tornare, in linea di principio, al proprio domicilio principale nello Stato di residenza quotidianamente. Tale status viene mantenuto se il lavoratore non rientra al proprio domicilio, per motivi professionali, per un massimo di 45 giorni in un anno civile, esclusi i giorni di ferie e di malattia.

Ai fini fiscali, il nuovo accordo dispone una distinzione tra “vecchi” “nuovi” frontalieri . Rispetto ai primi – ossia i lavoratori già in possesso dello status di frontalieri al 17 luglio 2023 oppure che nel periodo compreso tra il 31 dicembre 2018 ed il 17 luglio 2023 hanno svolto un’attività di lavoro nell’area di frontiera – continueranno ad applicarsi le regole della precedente versione dell’accordo, che contemplano il principio della tassazione esclusiva nel Paese di svolgimento dell’attività lavorativa, ammesso che il lavoratore risieda entro 20 km dal confine tra i due Stati.

Rispetto ai secondi – ossia i lavoratori che hanno conseguito lo status di frontalieri a partire dal 17 luglio 2023 – l’imposizione fiscale avverrà secondo il criterio della tassazione concorrente.

Difatti, lo Stato dove l’attività lavorativa viene esercitata effettuerà una ritenuta alla fonte sul reddito conseguito dal soggetto, fino ad un massimo dell’80% di quanto dovuto in base alle disposizioni sulle imposte sui redditi delle persone fisiche, comprese le imposte locali.

Lo Stato di residenza del lavoratore, altresì, assoggetterà ad imposizione fiscale il medesimo reddito, garantendo l’eliminazione della doppia imposizione secondo le regole previste dalla convenzione fiscale vigente tra i due Paesi (nel dettaglio, riconoscendo un credito pari alle imposte versate nello Stato di svolgimento dell’attività lavorativa oppure garantendo l’esenzione rispetto al reddito ivi assoggettato).

Le novità attinenti al lavoro da remoto

Per effetto delle disposizioni in vigore dal 1° gennaio 2024, ai lavoratori frontalieri tra l’Italia e la Svizzera è concessa la possibilità di svolgere la propria attività lavorativa in regime di lavoro agile presso il proprio domicilio ed entro la soglia del 25% dell’orario di lavoro, senza che ciò comporti alcun impatto sul relativo regime fiscale.

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Il riconoscimento del diritto ad eseguire le prestazioni lavorative in modalità agile da parte dei lavoratori appartenenti alla categoria dei c.d. “fragili” non può essere «assoluto» ma deve essere contemperato con le esigenze organizzative e produttive aziendali prospettate dal datore di lavoro. È quanto stabilito dal Tribunale di Trieste, sezione lavoro, con ordinanza 21 dicembre 2023, n. 525/2023.

Nel caso di specie, una dipendente “fragile” svolgeva la propria prestazione lavorativa in modalità agile cinque giorni alla settimana, in forza di un accordo individuale a termine. Alla scadenza del termine accordato, il datore di lavoro comunicava alla lavoratrice che, a causa delle mutate esigenze aziendali ed organizzative, avrebbe dovuto lavorare per tre giorni alla settimana in presenza e, per i restanti due giorni, da remoto.

A fronte di ciò, la lavoratrice lamentava l’incompatibilità del proprio stato di salute con il lavoro in presenza   sostenendo che lo svolgimento delle mansioni assegnatele fossero assolutamente compatibili con lo svolgimento delle attività da remoto – anche tenuto conto che negli ultimi tre anni le aveva svolte integralmente da remoto – ed evidenziando l’illegittimità della condotta datoriale per violazione dell’articolo 2087 c.c. 

Il datore di lavoro, contestando l’infondatezza del ricorso per asserita violazione della libertà di organizzazione dell’impresa, tutelata dall’articolo 41 della Costituzione Italiana, giustificava il rifiuto di concedere alla dipendente lo svolgimento della prestazione lavorativa integralmente da remoto sulla base di comprovate ragioni organizzative e ribadiva la necessità della presenza della medesima sul luogo di lavoro per almeno tre giorni alla settimana.

Il Tribunale adito ha evidenziato che il diritto al lavoro agile riconosciuto ai “fragili” (cfr. art. 90, comma 1, del decreto-legge 34/2020) non è un diritto assoluto ma un diritto subordinato espressamente alla compatibilità dello svolgimento delle attività da remoto con le caratteristiche della prestazione lavorativa.  

Il Tribunale ha, altresì, riconosciuto che le modalità con le quali il datore ha esercitato il proprio potere di organizzazione dell’impresa sono apparse concrete e congrue e che la possibilità di eseguire, seppur parzialmente, la prestazione da remoto non è mai stata negata ma semmai concessa parzialmente a seguito di un contemperamento e di una rivalutazione delle reciproche esigenze delle parti.

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In conclusione, si può affermare che la valutazione sulla compatibilità dello svolgimento da remoto delle attività lavorative da parte dei lavoratori fragili deve essere concretamente effettuata sulla base delle esigenze organizzative e produttive dell’organizzazione di riferimento comportando, ove necessario, una inevitabile esigenza di alternanza tra giornate in cui la prestazione deve essere resa in presenza e giornate in cui può essere resa da remoto. Tale lettura, tra le altre, ben si concilia con quanto previsto dall’art. 18 della L. 81/2017 che nel definire il lavoro agile prevede l’esecuzione delle attività “in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno”.

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La Corte di Cassazione, con la recente ordinanza del 5 luglio 2023 n. 19023, si è pronunciata in tema di competenza per territorio ex art. 413 c.p.c., negando che l’abitazione del lavoratore, dalla quale questi eseguiva la sua attività lavorativa in “Remote working”, potesse essere qualificata come dipendenza aziendale, in difetto di alcun collegamento oggettivo o soggettivo del luogo di effettuazione della prestazione con l’organizzazione aziendale.

Il caso di specie

La vicenda tra origine dal decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Roma a favore di un lavoratore intermittente, con il quale veniva ingiunto al datore di lavoro di corrispondere al lavoratore le competenze derivanti dalla nullità del contratto di lavoro intermittente e per la prosecuzione dell’attività oltre la scadenza del termine, con conseguente trasformazione del contratto di lavoro a tempo indeterminato.

La società proponeva opposizione al decreto, chiedendo preliminarmente che fosse dichiarata l’incompetenza territoriale del Tribunale di Roma a favore, alternativamente, del Tribunale di Genova, se operativa ed effettiva dell’attività svolta dal lavoratore, ovvero il Tribunale di Udine, luogo in cui ha sede legale la società.

Nel giudizio così instaurato, il Tribunale di Roma dichiarava la propria incompetenza per territorio, ritenendo competenti, alternativamente, il Tribunale di Genova o di Udine, nonché il Tribunale di Civitavecchia, essendo il lavoratore residente a Civitavecchia ed eseguendo le sue prestazioni lavorative in remote working dalla sua abitazione.

Il ricorso in Cassazione e la decisione assunta dalla Corte

Avverso tale sentenza, la società proponeva ricorso per regolamento di competenza affidato ad un unico motivo, con il quale eccepiva l’errata interpretazione del dettato normativo e del consolidato orientamento giurisprudenziale in ordine alla individuazione da parte del Tribunale di Roma della competenza del Tribunale di Civitavecchia.

La società rilevava, infatti, che non vi fosse alcun elemento per radicare la competenza nel foro di Civitavecchia, non essendoci, presso l’abitazione del lavoratore, alcun nucleo di beni organizzati per l’esercizio dell’impresa, dovendosi così escludersi la competenza territorio nel luogo dello remote working.

L’ordinanza emessa della Cassazione muove dall’analisi dell’art. 413 c.p.c., il quale sancisce che il giudice del lavoro è competente per territorio alternativamente nel luogo in cui è sorto il rapporto, in quello dove si trova l’azienda ovvero, infine, in quello ove si trova la dipendenza aziendale alla quale il lavoratore è addetto.

Secondo quanto statuito dalla Suprema Corte nell’ordinanza in commento, con specifico riferimento alla “dipendenza aziendale”, occorre far riferimento al luogo in cui il datore ha dislocato un nucleo, seppur modesto, di beni organizzati per l’esercizio dell’impresa (Cass. n. 14449/2019; Cass. n. 4767/2017).

Qualora, invece, come nella fattispecie in esame, l’attività di remote working si atteggi, secondo quanto dichiarato dallo stesso lavoratore, unicamente quale luogo di svolgimento della prestazione senza l’allegazione di alcun altro elemento che caratterizzi in qualche modo l’abitazione quale dipendenza aziendale, allora tale criterio non può essere preso in considerazione ai fini della individuazione della competenza territoriale, residuando unicamente i criteri del luogo di conclusione del contratto oppure della sede ove il lavoratore era addetto.

Conseguentemente, la Corte di Cassazione ha accolto l’istanza di regolamento di competenza proposta dalla Società, dichiarando la competenza per territorio alternativa esclusivamente dei fori di Udine e di Genova e non anche di quello di Civitavecchia.

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