Massima 

Il termine ultimo – di giorni quindici dalla comunicazione dell’impugnativa di licenziamento – per la revoca del licenziamento (ai sensi dell’art. 18, comma 10, della l. n. 300 del 1970, introdotto dalla legge n. 92 del 2012) va individuato nel momento di invio della comunicazione al lavoratore e non in quello della sua acquisita conoscenza, perché l’atto di autotutela del datore costituisce esercizio di un diritto potestativo che produce in via immediata la modifica della sfera giuridica del destinatario.

Abstract 

Con la recente ordinanza n. 16630 del 14 giugno 2024, la Suprema Corte di Cassazione ha statuito che – affinché si producano gli effetti ripristinatori del rapporto di lavoro ai sensi dell’articolo 18, comma 10, Stat. Lav. – è sufficiente che il datore di lavoro invii la comunicazione di revoca del licenziamento entro quindici giorni dall’intimazione del recesso, non essendo necessario che tale comunicazione venga ricevuta dal dipendente nel medesimo arco temporale.

La revoca del licenziamento: normativa e cenni giurisprudenziali

La disciplina della revoca del licenziamento ha subìto una radicale riforma a seguito delle modifiche introdotte dalla cd. Riforma Fornero, ossia dalla L. 28.6.2012, n. 92, entrata in vigore il 18.7.2012.

Prima dell’introduzione di tali disposizioni – che sono state, peraltro, riprese anche dal D.Lgs. 4.3.2015, n. 23, in materia di contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti – la revoca del licenziamento era soggetta ai principi generali di natura civilistica e poteva essere comunicata al dipendente in qualunque forma e in qualsivoglia momento, con effetti diversi a seconda del momento in cui la revoca veniva conosciuta dal lavoratore.

Ed infatti, il datore di lavoro poteva revocare il licenziamento prima che la comunicazione di recesso giungesse all’indirizzo del lavoratore: in questo caso, per applicazione del principio generale di cui all’articolo 1328, cod. civ., il licenziamento non avrebbe prodotto alcun effetto. È il caso, ad esempio, del datore di lavoro che comunica il licenziamento al dipendente a mezzo raccomandata e, prima che la lettera venga recapitata all’indirizzo del destinatario, il datore gli spedisce un telegramma o una raccomandata veloce contenente la revoca del licenziamento.

Diverso, invece, è il caso della revoca del recesso datoriale giunta nella sfera di conoscenza del dipendente dopo che gli era stata notificata – in forma scritta – la volontà del datore di risolvere il rapporto. In tal caso, considerato che lo scopo della revoca del licenziamento è quello di ripristinare il rapporto di lavoro, ormai estinto per effetto del licenziamento intimato, la giurisprudenza riteneva che la revoca fosse da considerare alla stregua di una nuova proposta contrattuale avente ad oggetto, per l’appunto, la ricostituzione del rapporto di lavoro e l’eliminazione delle conseguenze pregiudizievoli derivanti dall’interruzione del rapporto stesso. Per tale motivo la revoca necessitava dell’accettazione da parte del lavoratore.

La L. 92/2012 ha formalmente introdotto, per la prima volta, una disciplina speciale della revoca del licenziamento, derogando ai principi generali di diritto civile sopra richiamati, in base ai quali il licenziamento, essendo un atto unilaterale recettizio, una volta giunto a destinazione non è più revocabile senza l’accettazione da parte del lavoratore, e attribuendo al datore di lavoro un diritto potestativo di ripensamento, da esercitare entro un termine perentorio, con conseguente ricostituzione del rapporto senza possibilità per il lavoratore di opporsi.

Nello specifico, con l’articolo 1, comma 42, lettera b), L. 92/2012, è stato introdotto, nell’articolo 18, L. 300/1970, il comma 10, che dispone quanto segue: “Nell’ipotesi di revoca del licenziamento, purché effettuata entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione al datore di lavoro dell’impugnazione del medesimo, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, con diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca, e non trovano applicazione i regimi sanzionatori previsti dal presente articolo”.

La ratio di tale disciplina consiste “sia in un effetto deflattivo del contenzioso, sia nel consentire al datore di lavoro, oltre che nei casi di ripensamento sostanziale della propria decisione, di ritirare facilmente licenziamenti che presentino vizi formali o di procedura, evitando così di incorrere nelle conseguenze sanzionatorie previste dall’art. 18 della legge 300/1970” (Trib. Monza, 29 gennaio 2014. Negli stessi termini: Cass. Civ., Sez. lav., 21 maggio 2018, n. 12448).

Conseguentemente, con la revoca disposta dal datore entro il termine perentorio di 15 giorni dall’impugnazione del licenziamento, il lavoratore ha diritto alla sola ricostituzione del rapporto di lavoro con efficacia retroattiva alla data del recesso, e alla rimozione del danno subìto consistente nella perdita della retribuzione che avrebbe nel frattempo maturato dalla data del recesso sino a quella dell’intervenuta revoca del licenziamento, rimanendo espressamente esclusa l’applicazione dei regimi sanzionatori previsti per il recesso illegittimo dall’articolo 18, L. 300/1970.

Occorre precisare che la giurisprudenza ha, invece, escluso la ricostituzione automatica del rapporto di lavoro nel caso in cui la revoca del licenziamento, effettuata entro il termine di 15 giorni dall’impugnazione, contenga anche diverse condizioni contrattuali, come ad esempio un mutamento della sede di lavoro, poiché non si è in presenza di una semplice revoca, ma di una nuova proposta contrattuale per la quale occorre il consenso del lavoratore (Tribunale Vigevano, 25 marzo 2013).

La revoca del licenziamento è, dunque, oggi, un negozio tipico e nominato, espressione di un diritto potestativo attribuito al datore di lavoro, diritto il cui esercizio determina la ricostituzione ex tunc del rapporto.

Il testo dell’art. 18 comma 10 è quasi del tutto identico a quello dell’art. 5 del D.Lgs. 23/2015 (relativo ai dipendenti soggetti alla disciplina del c.d. Jobs Act), rinvenendosi, quale unica differenza, il rinvio a diversi sistemi sanzionatori del recesso.

Il fatto affrontato

Con lettera del 17 gennaio 2018, una dipendente veniva licenziata per giustificato motivo oggettivo. La lavoratrice impugnava il recesso con comunicazione trasmessa alla società a mezzo pec il 13 febbraio 2018, ricevuta dal datore di lavoro in pari data.

Il successivo 1° marzo la dipendente riceveva un telegramma, inviatole dalla società il 28 febbraio, avente ad oggetto la revoca del licenziamento e contenente l’invito a riprendere servizio.

La dipendente contestava la tardività della revoca e non adempiva all’invito del datore di lavoro.

A causa dell’assenza ingiustificata della lavoratrice protrattasi per oltre tre giorni, la società le intimava il recesso per giusta causa.

La dipendente agiva in giudizio eccependo la tardività della revoca del primo licenziamento, in quanto la relativa comunicazione era stata da lei ricevuta oltre il termine di 15 giorni decorrente dell’impugnazione del recesso.

Il tribunale nonché la corte d’appello, nel rigettare le domande della ricorrente, precisavano che la revoca del primo licenziamento era da considerarsi tempestiva, in quanto non si era verificata alcuna decadenza, dovendosi applicare – in tema di revoca del recesso – il principio di scissione degli effetti dell’atto inviato e ricevuto.

L’ordinanza

La Cassazione – nel confermare la pronuncia di merito – ha rilevato, preliminarmente, che l’istituto della revoca del licenziamento, introdotto della L. 92/2012 e disciplinato dall’articolo 18, comma 10, Stat. Lav., è un diritto potestativo del datore di lavoro cui soggiace il lavoratore.

Secondo i Giudici di legittimità, trattasi di una sorta di autotutela, esercitabile dal datore di lavoro, che determina il ripristino del rapporto senza soluzione di continuità e senza che sia necessario il concorso di una analoga manifestazione di volontà da parte del dipendente.

Unica condizione necessaria stabilita dalla norma è che detta revoca sia effettuata entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione al datore di lavoro della impugnazione del licenziamento.

Partendo, dunque, dall’analisi del testo letterale della norma – che àncora il dies a quo alla comunicazione dell’impugnativa di licenziamento e il dies ad quem all’effettuazione della revoca – i giudici di legittimità hanno statuito che, l’assenza di un espresso riferimento alla comunicazione all’interessato, “induce a ritenere sufficiente il mero invio della revoca al lavoratore nel termine prescritto e non anche la ricezione da parte dello stesso nel medesimo termine”.

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In data 16 giugno 2021, Confcommercio Imprese per l’Italia e Manageritalia hanno sottoscritto un accordo per la proroga sino al 31 dicembre 2021 dell’attuale vigenza del CCNL del 21 luglio 2016. Con lo stesso accordo le Parti Sociali hanno modificato alcune previsioni relativi ad istituti regolati dal CCNL stesso. Entrando nel dettaglio delle principali novità, viene confermata la durata massima del periodo di comporto in 240 giorni in un anno solare con la precisazione che per “anno solare” s’intende il periodo a ritroso di 365 giorni rispetto all’ultimo evento morboso. Inoltre, dal 1° luglio 2021,  il datore di lavoro dovrà corrispondere al CFMT (Centro di Formazione Management del Terziario),  un contributo pari a 2.500 Euro – in caso di risoluzione del rapporto di lavoro, anche a seguito di accordo transattivo o conciliazione, fatta eccezione per le ipotesi di cessazione per giusta causa, licenziamento disciplinare, dimissioni volontarie e risoluzione consensuale – per l’attivazione di un servizio di outplacement o per l’accesso a programmi di politiche attive finalizzate alla ricollocazione dei dirigenti. Vengono anche introdotte novità con riferimento ai termini di decorrenza del periodo di preavviso in caso di dimissioni o licenziamento. Per quanto riguarda le dimissioni, a far data dal 1° luglio 2021 il periodo di preavviso decorre dal 1° o dal 16° giorno di ciascun mese, a seconda che la comunicazione delle dimissioni pervenga al datore di lavoro, rispettivamente, nella seconda quindicina del mese antecedente o nella prima quindicina del mese corrente. Ugualmente, a far data dal 1° luglio 2021, il periodo di preavviso in caso di licenziamento decorre dal 1° o dal 16° giorno di ciascun mese a seconda che la comunicazione di licenziamento pervenga al dirigente, rispettivamente, nella seconda quindicina del mese antecedente o nella prima quindicina del mese corrente. Il dirigente avrà, altresì, diritto a percepire per intero la retribuzione ad egli spettante per la frazione di mese in cui è stata ricevuta la comunicazione di licenziamento.

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Revirement del Tribunale di Roma: il blocco dei licenziamenti non si applica ai dirigenti

I dirigenti apicali che non godono delle ferie non hanno diritto alla relativa indennità sostitutiva

LO SAI CHE… Dal 10 settembre i redditi derivanti da piani retributivi basati su strumenti finanziari non rilevano ai fini del TFR, degli istituti contrattuali e del calcolo dell’indennità sostitutiva del preavviso dei Dirigenti del CCNL Terziario?

Il vero problema del nostro sistema: l’assenza di un serio progetto di politiche attive del lavoro. L’avvocato Vittorio De Luca, managing partner dell’omonimo studio entra nel merito dell’intesa sulla fine del blocco
dei licenziamenti e sul decreto legge 99/2021, appena approvato dal governo Draghi. «Il rischio di una esplosione dei licenziamenti altro non è che la conseguenza di un divieto che si è protratto troppo a lungo. Ulteriori proroghe generalizzate non avrebbero fatto altro che peggiorare la situazione. Il blocco non ha permesso alle imprese di rinnovarsi per un arco temporale decisamente troppo ampio, paralizzando così i processi di riallocazione dei lavoratori. Finalmente ora potranno ripartire e movimentare nuovamente il mercato e l’occupazione».
Altro tema caldo sul tavolo è la riforma degli ammortizzatori sociali più volte annunciata e sempre più necessaria nel post pandemia. «Il sistema degli ammortizzatori, dopo la riforma del 2015, risulta frastagliato e non in grado di tutelare tutte le categorie colpite dalla recessione e di erogare prestazioni economiche tali da rappresentare un decisivo e duraturo sostegno. La pandemia ha dunque mostrato in modo evidente tutti i limiti del nostro sistema di ammortizzatori sociali. Risulta indispensabile,
quindi, procedere con una riforma organica quanto prima».
Il governo ha raggiunto una intesa con le parti sociali in merito al blocco dei licenziamenti. «L’intesa prevede un “impegno” a far ricorso a tutti gli ammortizzatori sociali esistenti prima di ricorrere ai licenziamenti; tuttavia
rappresenta una mera forma di moral suasion. Di tale impegno, inoltre, non viene fatto cenno nel testo del nuovo decreto. Certamente, si tratta di una magra consolazione per chi chiedeva a gran voce di prorogare ulteriormente il divieto di licenziamento».

Il Tribunale di Roma, con la sentenza n. 3605 del 19 aprile 2021, si è nuovamente pronunciato in merito all’estensione o meno del blocco dei licenziamenti, disposto dall’art. 46 del Decreto Cura Italia e confermato dai successi provvedimenti emergenziali, al personale dirigenziale. Nello specifico il Tribunale – contrariamente alle conclusioni a cui era giunto il precedente 26 febbraio – ha statuito che “il dato letterale della norma, in uno con la filosofia che la sorregge, non consente di ritenere che la figura del dirigente possa essere ricompresa nel blocco“.

I fatti di causa

Per far fronte ad una situazione di crisi, aggravata dalle conseguenze dell’emergenza pandemica, una società, con comunicazione del 29 aprile 2020, aveva licenziato il proprio Chief Operating Officer per soppressione della posizione, con ridistribuzione delle funzioni allo stesso assegnate tra altri responsabili aziendali.

Il dirigente aveva impugnato il recesso eccependo, da un lato, la sua nullità per violazione dell’art. 46 del D.L. 18/2020 (c.d. “Decreto Cura Italia”) sull’assunto che il divieto di licenziamento individuale introdotto dalla normativa emergenziale dovesse applicarsi anche al personale dirigenziale e, dall’altro, l’illegittimità dello stesso.

La decisione del Tribunale

Nel rigettare il ricorso promosso dal dirigente, il Tribunale di Roma ha preliminarmente rilevato che l’art. 46 del Decreto Cura Italia – così come i successivi provvedimenti emergenziali che hanno prorogato il blocco dei licenziamenti – ha espressamente escluso la possibilità di intimare recessi per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della Legge 604/66.

Orbene, sulla base del tenore letterale della norma e sull’assunto che l’art. 3 della Legge 604/66 non si applica ai dirigenti, sia per espressa previsione normativa (art. 10 L. 604/66) che per costante orientamento giurisprudenziale, il Tribunale ha escluso che la figura dirigenziale possa essere ricompresa nel blocco dei licenziamenti.

Il Tribunale ha poi rilevato la “chiara ed evidente simmetria” tra il blocco dei licenziamenti e il ricorso agli ammortizzatori sociali, che ha consentito in maniera pressoché generalizzata alle aziende la possibilità di ridurre il costo del lavoro per far fronte alle perdite. Simmetria confermata, oltretutto, dalla possibilità per i dator di lavoro, introdotta sempre dall’art. 46 del Decreto Cura Italia al comma 1-bis, di revocare i licenziamenti già intimati prima del blocco purché contestualmente venisse fatta richiesta di accesso al trattamento di integrazione salariale.

In ogni caso, a parere del Tribunale, il binomio “divieto di licenziamento” e “ricorso agli ammortizzatori sociali” non regge con riferimento ai dirigenti, in quanto agli stessi non è consentito, in costanza di rapporto, di beneficiare degli ammortizzatori sociali. Un’interpretazione che consentisse di includere il personale dirigenziale nel blocco dei licenziamenti presenterebbe profili di incostituzionalità, in quanto lascerebbe a carico del datore di lavoro gli oneri del rapporto di lavoro dirigenziale pur in presenza di una giustificatezza del recesso.

Il Tribunale ha, inoltre, ritenuto di non poter giungere a conclusioni diverse neppure in ragione dell’ordinanza del medesimo Tribunale del 26 febbraio 2021, a parere della quale il divieto si estenderebbe ai dirigenti poiché “secondo una ‘interpretazione costituzionalmente orientata’ non si capirebbe l’esclusione dei dirigenti dal blocco visto la ratio della norma che è quella di impedire il licenziamento in generale senza distinzione di sorta“.

Con la pronuncia in esame, il Tribunale non ha neanche condiviso l’ulteriore motivazione contenuta nell’ordinanza del 26 febbraio scorso secondo cui sarebbe irragionevole non includere i dirigenti nel divieto poiché protetti dalla disciplina del licenziamento collettivo. Ed infatti, con la sentenza in commento, il Tribunale ha statuito che la diversità tra fattispecie giustifica una diversità di trattamento e non può costituire valido motivo per estendere il beneficio del blocco al licenziamento individuale del dirigente.

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Il percorso logico-giuridico che ha condotto il Tribunale ad escludere l’estensione del blocco dei licenziamenti al personale dirigenziale può risultare condivisibile, poiché in linea con le previsioni di legge e con la ratio dell’intero impianto normativo emergenziale.

Non può non riflettersi, tuttavia, sulla circostanza che la giurisprudenza di merito sino ad oggi intervenuta sull’interpretazione della medesima fonte normativa, sia giunta a soluzioni diametralmente opposte, con una conseguente incertezza per le aziende circa gli esiti e costi dell’eventuale licenziamento delle figure apicali.

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Con la sentenza n. 1514/2021, pubblicata in data 25 gennaio 2021, la Corte di Cassazione, richiamando principi ormai consolidati, fornisce un quadro preciso delle ragioni inerenti all’attività produttiva che legittimano l’irrogazione di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ribadendo peraltro che, una volta accertata la sussistenza del motivo posto alla base del recesso, risulta superflua l’indagine sul suo eventuale carattere ritorsivo.

La pronuncia della Corte trae origine dall’impugnazione promossa da una lavoratrice avverso una sentenza della Corte d’Appello di Cagliari che aveva dichiarato legittimo il licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo dalla Congregazione religiosa presso cui la dipendente ricopriva mansioni di responsabile di struttura.

In particolare la Corte distrettuale aveva ritenuto legittimo il licenziamento in considerazione dell’andamento economico negativo delle strutture gestite dalla Congregazione le quali avevano imposto una riduzione dei costi ed una rimodulazione dell’organizzazione di lavoro, realizzata tramite la soppressione del posto di lavoro della dipendente che comportava il costo più elevato per la Congregazione con la conseguente attribuzione delle mansioni ad altra religiosa che invece prestava la sua opera senza corresponsione di retribuzione.

Con il primo motivo di ricorso la ricorrente denunciava violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 5 della legge n. 604 del 1966, nonché dell’art. 2697 cod. civ. adducendo che la Corte distrettuale avrebbe invertito, nella sua disamina, il rapporto di necessaria causalità tra soppressione della posizione della lavoratrice e riassegnazione delle sue mansioni ad altro personale, ritenendo erroneamente che quest’ultima potesse essere causa della prima e non già il contrario.

La Corte di Cassazione ha ritenuto infondato il motivo di ricorso e, richiamandosi a quanto già affermato in precedenti pronunce, ha ribadito il principio per cui la ragione inerente all’attività produttiva (art. 3 legge n. 604 del 1966) è quella che determina un effettivo ridimensionamento riferito alle unità di personale impiegate in una ben individuata posizione lavorativa, a prescindere dalla ricorrenza di situazioni economiche sfavorevoli o di crisi aziendali (cfr. Cass. n. 25201 del 2016, Cass. n. 10699 del 2017, Cass. n. 24882 del 2017).

Fissato tale principio generale, la Corte si sofferma ad individuare le circostanze che legittimano l’irrogazione di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo fondato su una modifica della struttura organizzativa, le quali possono individuarsi sia nella esternalizzazione a terzi dell’attività a cui è addetto il lavoratore licenziato, sia nella soppressione della funzione cui il lavoratore è adibito sia nella ripartizione delle mansioni di questi tra più dipendenti già in forze (Cass. n. 21121 del 2004, Cass. n. 13015 del 2017, Cass. n.24882 del 2017) sia nella innovazione tecnologica che rende superfluo il suo apporto, sia nel perseguimento della migliore efficienza gestionale o produttiva o dell’incremento della redditività.

In tutti questi casi, prosegue la Corte, resta ferma la non sindacabilità dei profili di congruità ed opportunità delle scelte datoriali a cui fa da contraltare il controllo sia sulla effettività e non pretestuosità della ragione concretamente addotta dall’imprenditore a giustificazione del recesso sia sul nesso causale tra l’accertata ragione e l’intimato licenziamento.
Al riguardo, continua la Corte richiamando precedenti pronunce (cfr. Cass. n. 25201 del 2016 e da ultimo Cass. n. 3819 del 2020), l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa.

Continua a leggere la versione integrale pubblicata su Il Quotidiano del Lavoro de Il Sole 24 Ore.