Con l’ordinanza n. 2058 del 29 gennaio 2025, la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa di una lavoratrice che, attraverso i social network, aveva pubblicamente denigrato i superiori gerarchici.
La vicenda riguarda una lavoratrice, licenziata per giusta causa a seguito della pubblicazione di dichiarazioni su Facebook e dell’invio di una serie di e-mail, contenenti affermazioni diffamatorie nei confronti dei superiori gerarchici e dell’azienda stessa.
A seguito dell’impugnazione del licenziamento, con cui la dipendente ha sostenuto che le sue affermazioni fossero espressione della propria libertà di opinione e che non avessero arrecato un concreto danno all’immagine dell’azienda, sia il Tribunale sia la Corte d’Appello confermavano la legittimità del recesso per giusta causa ritenendo che il comportamento della lavoratrice fosse tale da compromettere irreparabilmente il rapporto di fiducia con il datore di lavoro.
La Corte Territoriale ha ritenuto, infatti, che il contegno della lavoratrice «avesse esorbitato dai limiti della continenza formale del diritto di critica» integrando, dunque, giusta causa di licenziamento.
Nel valutare la legittimità del licenziamento, la Corte d’Appello ha altresì statuito che «il contenuto delle e-mails inviate dall’account aziendale e i post pubblicati su Facebook, connotati da particolare astio ed acrimonia, con l’uso di un linguaggio scurrile di rara volgarità, rileva l’intenzione di offendere ed umiliare a livello personale e professionale i superiori gerarchici, degradando a livello di mero preteso l’affermata intenzione di tutelare gli interessi aziendali». I giudici di secondo grado hanno, inoltre, evidenziato come il comportamento messo in atto dalla lavoratrice non fosse espressione del diritto di critica della stessa, ma piuttosto finalizzato a ledere gratuitamente il decoro del datore di lavoro, attraverso la derisione dei suoi vertici e l’insinuazione di infondate ipotesi di corruzione.
La lavoratrice impugnava la pronuncia resa dalla Corte Territoriale e della Corte d’Appello proponendo ricorso avanti alla Suprema Corte sulla base di plurimi motivi.
Nel confermare la sentenza resa dalla Corte d’Appello, la Cassazione ha statuito che la condotta denigratoria sui social network può integrare giusta causa di licenziamento, in quanto tale comportamento incide negativamente sul rapporto fiduciario tra il lavoratore e il datore di lavoro. La Suprema Corte ha, infatti, stabilito che le «manifestazioni del pensiero superassero il limite della continenza formale, con conseguente inapplicabilità della scriminante del diritto di critica» e, ancora, che «il fatto che quei post non riguardassero la società è circostanza del tutto irrilevante, poiché riguardavano comunque i superiori gerarchici […] e quindi senza dubbio hanno rilievo disciplinare qualora – come accertato nella specie – superino il limite della continenza formale».
Gli Ermellini hanno, infine, evidenziato che la violazione degli obblighi di lealtà e correttezza, in particolare quando manifestata in ambito pubblico e sui social, può determinare una rottura irreparabile del rapporto di fiduciario, rendendo, dunque, legittimo il licenziamento.
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Con l’ordinanza n. 24595 del 13 settembre 2024, la Corte di Cassazione ha statuito che è illegittima, perché non qualificabile come attività di regolare affissione o proselitismo, la condotta del lavoratore che entra in azienda con volantini sindacali attaccati al corpo.
Il lavoratore ha impugnato giudizialmente la sanzione disciplinare conservativa irrogatagli per essere entrato all’interno dei locali aziendali con volantini sindacali attaccati al petto e alla schiena.
La Corte d’Appello ha rigettato la predetta domanda, ritenendo che tale manifestazione non rientrasse nel libero esercizio dell’attività sindacale, anche in considerazione della circostanza che il dipendente non aveva mai rivestito alcun ruolo sindacale.
La Suprema Corte, nel confermare la pronuncia di merito, ha statuito che l’attività di proselitismo sindacale nei luoghi di lavoro incontra i limiti previsti dall’art. 26, comma 1, della L. n. 300 del 1970, e pertanto si deve ritenere consentita soltanto se effettuata senza pregiudizio per il normale svolgimento dell’attività aziendale, alla luce delle concrete modalità organizzative dell’impresa e del tipo di lavoro cui sono addetti i destinatari delle comunicazioni.
In particolare, con la sentenza in commento, la Corte ha individuato i limiti in cui intendere legittima l’opera di proselitismo sindacale e legittimo l’esercizio del diritto in tal senso, in quanto rispettoso degli “spazi” comunicativi messi a disposizione dal datore di lavoro, in adempimento degli obblighi imposti dal legislatore, anche concordati pattiziamente, e comunque tali da non recare pregiudizio all’ordinario svolgimento della vita aziendale, sotto il normale profilo funzionale e produttivo.
La corte di merito, proprio in riferimento a tale ultima condizione, aveva correttamente ritenuto, con giudizio valutativo, che l’attività di volantinaggio attraverso il c.d. “uomo sandwich” esulasse dai limiti imposti dall’art. 26 richiamato, in quanto fonte di costante distrazione rispetto all’attività lavorativa, recando, dunque, pregiudizio all’ordinario svolgimento della vita ed attività aziendale.
Su tali presupposti, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso proposto dal dipendente, confermando la legittimità della sanzione disciplinare irrogatagli.
Con due sentenze “gemelle” (n. 19863 e n. 20620, l’ultima, depositata lo scorso 7 agosto), la Corte di Cassazione ha avuto modo di pronunciarsi sulla disciplina dei licenziamenti collettivi, connessa con le operazioni di scissione societaria. Nel caso di specie, una società aveva operato una scissione parziale – attraverso l’assegnazione a due società di nuova costituzione di altrettanti rami d’azienda – redistribuendo la complessiva forza lavoro fra i tre soggetti giuridici risultati dalla suddetta operazione. Un’operazione di tal guisa, a parere della Cassazione così come dei giudici di merito, costituisce negozio in frode alla legge qualora, nell’arco dei successivi 120 giorni, siano realizzati plurimi licenziamenti per giustificato motivo oggettivo. È stato, infatti, ravveduto nel caso in esame un intento elusivo in frode alla legge – inter alia, degli adempimenti ex artt. 4 e 24, L. n. 223/1991, dunque della procedura di informazione e consultazione sindacale a salvaguardia e garanzia della scelta dei lavoratori in esubero, secondo i criteri di legge – proprio in forza del collegamento negoziale fra l’operazione societaria ed i licenziamenti intimati. A parere della Corte, di fatto, il frazionamento societario ha consentito di attivare licenziamenti individuali suddivisi fra le tre “neonate” società (12 in tutto i lavoratori licenziati, 4 per ognuna), i cui più ridotti requisiti dimensionali non richiedevano di dare impulso alla procedura collettiva di riduzione del personale. Pertanto, benché il mezzo utilizzato sia stato in sé lecito, è stato considerato illecito il risultato perseguito. Valore dirimente, ad avviso della Cassazione, ha rivestito il fatto che, a fronte di un’organizzazione del lavoro sostanzialmente immutata – ove i dipendenti hanno continuato a svolgere negli stessi spazi aziendali le medesime mansioni – il nuovo assetto sia stato solo formale, risolvendosi in una mera frammentazione della forza lavoro.