Il superamento del periodo di comporto per malattia rappresenta un delicato punto di equilibrio tra i diritti del lavoratore e le esigenze aziendali. La giurisprudenza ha offerto negli anni indicazioni importanti. Quali verifiche deve fare il datore di lavoro e quali sono i doveri del dipendente?

Il tema del superamento del periodo di comporto per malattia rappresenta un aspetto di grande rilievo nella gestione delle risorse umane. Da un lato, infatti, c’è la tutela del lavoratore che, in caso di patologie gravi o prolungate, necessita di un adeguato periodo di assenza per curarsi senza perdere il posto di lavoro. Dall’altro, le imprese devono garantire la continuità operativa e possono trovarsi in difficoltà nel gestire assenze prolungate.

La gestione del superamento del periodo di comporto per malattia richiede quindi un approccio equilibrato e attento: il datore di lavoro deve verificare il rispetto delle norme contrattuali e agire nel rispetto del principio di buona fede, evitando provvedimenti affrettati o discriminatori. 

Il lavoratore, dal canto suo, ha il dovere di comunicare in modo corretto la propria condizione e rispettare le regole previste dal contratto e dalla legge. La giurisprudenza ha fornito nel tempo indicazioni fondamentali per contemperare questi interessi, ma solo un’attenta valutazione del singolo caso può garantire il giusto bilanciamento tra la tutela del dipendente e le esigenze aziendali. 

Cosa dice la legge superamento del periodo di comporto

Il periodo di comporto è regolato principalmente dall’articolo 2110 del Codice Civile, che stabilisce che in caso di malattia il lavoratore ha diritto alla conservazione del posto di lavoro per un periodo determinato dai contratti collettivi. Superato questo limite, il datore di lavoro può recedere dal rapporto, salvo il diritto all’indennità di preavviso.

Inoltre, la Legge 300/1970 (Statuto dei Lavoratori) all’art. 18 entra nel merito della cessazione del rapporto di lavoro: la norma tutela il lavoratore da licenziamenti intimati in violazione dell’articolo 2110, secondo comma, del Codice Civile, prevedendo il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro.

Sentenze esemplari

Nel corso degli anni, diverse sentenze della Corte di Cassazione hanno fatto notizia in merito al superamento del periodo di comporto e hanno chiarito che il datore di lavoro deve considerare la specifica situazione del dipendente e valutare eventuali alternative prima di procedere con il licenziamento. 

Oltre al caso, salito agli onori della cronaca, di un dipendente licenziato quando mancavano ancora alcuni giorni alla conclusione del periodo di comporto (Cassazione n. 24766/2017), ecco qualche sentenza che ha fatto “storia”

  • Cassazione n. 11815/2016: la Corte ha ribadito che il licenziamento per superamento del comporto è legittimo solo se il datore di lavoro dimostra di aver correttamente calcolato i giorni di assenza e di aver tenuto conto di eventuali periodi di sospensione del conteggio (ad esempio, ferie o infortuni sul lavoro).
  • Cassazione n. 6464/2020: è stato evidenziato che il licenziamento di un lavoratore per superamento del comporto è illegittimo se il datore di lavoro non ha valutato la possibilità di assegnarlo a mansioni compatibili con la sua condizione di salute residua.
  • Cassazione n. 26675/2018: la Corte ha confermato che il datore di lavoro deve considerare la possibilità di soluzioni alternative, come il ricollocamento del lavoratore in una posizione meno gravosa, prima di procedere con il licenziamento.

Le verifiche del datore di lavoro

Per evitare contenziosi, il datore di lavoro deve effettuare attente verifiche prima di adottare provvedimenti disciplinari. In particolare deve:

  1. calcolare correttamente il periodo di comporto: deve essere verificata con precisione la somma delle assenze per malattia nel periodo di riferimento, distinguendo tra comporto secco (assenza continuativa) e frazionato (assenze ripetute)
  2. analizzare il contratto collettivo: alcuni CCNL prevedono termini differenti o deroghe per particolari categorie di lavoratori
  3. valutare eventuali richieste di prolungamento: se il dipendente ha diritto a una proroga per condizioni di salute gravi, il datore di lavoro deve tenerne conto
  4. tutelare la buona fede: la giurisprudenza richiede che il datore di lavoro agisca con correttezza, valutando la situazione caso per caso e considerando eventuali alternative prima del licenziamento.

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Le implicazioni negative dei fatti penalmente illeciti sulla regolare esecuzione della prestazione, nel rispetto degli obblighi facenti capo al lavoratore, rappresentano giusta causa di licenziamento

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 31866 dell’11 dicembre 2024, ha statuito che la condotta illecita extra-lavorativa è suscettibile di rilievo disciplinare poiché il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta ma altresì, quale obbligo accessorio, a non porre in essere, fuori dall’ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o compromettere il rapporto fiduciario con lo stesso; tali condotte, ove connotate da caratteri di gravità, possono anche determinare l’irrogazione della sanzione espulsiva.

Giusta causa e condotte extra lavorative: excursus giurisprudenziale

Come noto, con l’art. 2119 c.c. il legislatore ha definito come giusta causa di recesso «una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto» e, dunque, un fatto, attribuibile a uno dei contraenti, che sia di gravità tale da rendere qualsiasi altra opzione diversa dal recesso immediato inattuabile, siccome insufficiente ad offrire tutela dell’interesse della parte recedente.

La nozione di giusta causa affonda le proprie radici nella ampiezza della sua formulazione, essendo non a caso ricompresa nel novero delle c.d. “clausole generali” (Cass. 8 maggio 2018, n. 10964): si tratta di una nozione aperta, che richiede di essere concretizzata dall’interprete tramite la valorizzazione di elementi di fatto (anche relativi all’evolversi della coscienza sociale e della percezione di gravità di determinati accadimenti) e di diritto.

Richiamando le parole della Suprema Corte, la “giusta causa di licenziamento è una nozione che la legge, allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo, configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle c.d. clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modello generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama” (Cass., 30 settembre 2022, n. 28515). È stato peraltro ribadito, anche recentemente, che la valorizzazione di fattori esterni, relativi alla coscienza generale, è parte integrante del processo interpretativo (Cass. 22 agosto 2024, n. 23029)

Nel delineare la casistica dei comportamenti del lavoratore suscettibili di costituire giusta causa di licenziamento, la giurisprudenza ha stabilito che la lesione del vincolo fiduciario possa essere conseguenza sia di un inadempimento agli obblighi previsti dal contratto di lavoro sia di una condotta tenuta dal lavoratore in ambito extra-lavorativo.

Il lavoratore è, infatti, tenuto al rispetto – oltre che degli obblighi contrattuali – degli obblighi accessori di comportamento che, pure in ambito “extra-lavorativo”, impongono di tutelare gli interessi morali e patrimoniali del datore di lavoro e la cui violazione determina il venir meno della fiducia anche in relazione al futuro corretto adempimento della prestazione.

A titolo esemplificativo, in diverse occasioni la giurisprudenza ha qualificato come giusta causa di recesso comportamenti adottati in violazione del cd. “minimo etico”, intendendosi per tale un comportamento che il lavoratore, non diversamente da ogni altra persona, può rappresentarsi come contrario ai principi alla base della convivenza civile o ai principi di correttezza e buona fede.

Si pensi ad esempio al licenziamento per giusta causa intimato dal datore di lavoro ad un dipendente con mansioni di conducente di scuolabus a seguito della condanna penale definitiva inflittagli per aver compiuto atti idonei, in modo non equivoco, a cagionare l’interruzione della gravidanza della compagna. La Suprema Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del recesso in ragione dell’oggettiva gravità del reato ascritto e considerato il disvalore sociale dell’atto avente un riflesso diretto sull’immagine del datore di lavoro (Cass. 3 aprile 2024, n. 8728).

E ancora, la detenzione, in ambito extra-lavorativo, di un significativo quantitativo di sostanze stupefacenti a fine di spaccio è stata ritenuta in grado di incidere in maniera particolarmente grave il rapporto di lavoro, in termini di prognosi futura circa l’affidabilità del dipendente, poiché il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta ma anche a non porre in essere, fuori dall’ambito lavorativo, comportamenti tali da comprometterne il rapporto fiduciario, il cui apprezzamento spetta al giudice di merito (Cass. 6 agosto 2015, n. 16524. Nel caso di specie, la Suprema Corte confermava la decisione del giudice di merito che aveva ritenuto particolarmente grave in termini di prognosi futura di affidabilità la condotta del dipendente, “chef de rang” di un ente termale, normalmente addetto al cd. “room service”, attese le mansioni svolte, implicante contatti con il pubblico, e l’acquisto dello stupefacente da un collega).

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Con l’ordinanza n. 2058 del 29 gennaio 2025, la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa di una lavoratrice che, attraverso i social network, aveva pubblicamente denigrato i superiori gerarchici.

Il fatto affrontato

La vicenda riguarda una lavoratrice, licenziata per giusta causa a seguito della pubblicazione di dichiarazioni su Facebook e dell’invio di una serie di e-mail, contenenti affermazioni diffamatorie nei confronti dei superiori gerarchici e dell’azienda stessa.

A seguito dell’impugnazione del licenziamento, con cui la dipendente ha sostenuto che le sue affermazioni fossero espressione della propria libertà di opinione e che non avessero arrecato un concreto danno all’immagine dell’azienda, sia il Tribunale sia la Corte d’Appello confermavano la legittimità del recesso per giusta causa ritenendo che il comportamento della lavoratrice fosse tale da compromettere irreparabilmente il rapporto di fiducia con il datore di lavoro.

La Corte Territoriale ha ritenuto, infatti, che il contegno della lavoratrice «avesse esorbitato dai limiti della continenza formale del diritto di critica» integrando, dunque, giusta causa di licenziamento.

Nel valutare la legittimità del licenziamento, la Corte d’Appello ha altresì statuito che «il contenuto delle e-mails inviate dall’account aziendale e i post pubblicati su Facebook, connotati da particolare astio ed acrimonia, con l’uso di un linguaggio scurrile di rara volgarità, rileva l’intenzione di offendere ed umiliare a livello personale e professionale i superiori gerarchici, degradando a livello di mero preteso l’affermata intenzione di tutelare gli interessi aziendali». I giudici di secondo grado hanno, inoltre, evidenziato come il comportamento messo in atto dalla lavoratrice non fosse espressione del diritto di critica della stessa, ma piuttosto finalizzato a ledere gratuitamente il decoro del datore di lavoro, attraverso la derisione dei suoi vertici e l’insinuazione di infondate ipotesi di corruzione.

La lavoratrice impugnava la pronuncia resa dalla Corte Territoriale e della Corte d’Appello proponendo ricorso avanti alla Suprema Corte sulla base di plurimi motivi. 

La pronuncia della Cassazione

Nel confermare la sentenza resa dalla Corte d’Appello, la Cassazione ha statuito che la condotta denigratoria sui social network può integrare giusta causa di licenziamento, in quanto tale comportamento incide negativamente sul rapporto fiduciario tra il lavoratore e il datore di lavoro. La Suprema Corte ha, infatti, stabilito che le «manifestazioni del pensiero superassero il limite della continenza formale, con conseguente inapplicabilità della scriminante del diritto di critica» e, ancora, che «il fatto che quei post non riguardassero la società è circostanza del tutto irrilevante, poiché riguardavano comunque i superiori gerarchici […] e quindi senza dubbio hanno rilievo disciplinare qualora – come accertato nella specie – superino il limite della continenza formale».

Gli Ermellini hanno, infine, evidenziato che la violazione degli obblighi di lealtà e correttezza, in particolare quando manifestata in ambito pubblico e sui social, può determinare una rottura irreparabile del rapporto di fiduciario, rendendo, dunque, legittimo il licenziamento.

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Con sentenza n. 2618 del 4 febbraio 2025, la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa nei confronti di un lavoratore che, fruendo del congedo parentale, aveva intrapreso un’attività lavorativa parallela, così configurando un abuso di tale diritto.

Nel caso in esame, il lavoratore, durante il periodo di congedo parentale, aveva intrapreso un’attività di compravendita di autovetture, senza darne preventiva comunicazione al datore di lavoro. L’attività svolta, era emersa all’esito di una verifica effettuata da un’agenzia investigativa incaricata dalla Società datrice. A seguito delle indagini da parte dell’agenzia investigativa è, infatti, emerso che lo svolgimento dell’attività lavorativa parallela non fosse né saltuaria, né episodica, ponendosi così in contrasto con le finalità del congedo parentale retribuito, le quali, così come affermato dalla Suprema Corte «postulano che durante la sua fruizione, i tempi e le energie del padre lavoratore siano dedicati, anche attraverso la propria presenza, al soddisfacimento dei bisogni affettivi del minore».

Tale condotta, configurandosi come un abuso del diritto al congedo parentale, ha, dunque, giustificato la sanzione espulsiva nei confronti del lavoratore. La Corte di Cassazione ha, infatti, statuito quanto segue: «ove si accerti che il periodo di congedo viene utilizzato dal padre per svolgere una diversa attività lavorativa, si configura un abuso per sviamento dalla funzione del diritto, idoneo ad essere valutato dal giudice ai fini della sussistenza di una giusta causa di licenziamento, non assumendo rilievo che lo svolgimento di tale attività contribuisca ad una migliore organizzazione della famiglia».

Pertanto, gli Ermellini hanno ribadito che il congedo parentale, pur essendo un diritto del lavoratore-genitore, non possa essere utilizzato per perseguire finalità estranee a quelle per le quali è stato istituito.

In definitiva, l’abuso del congedo legittima la sanzione espulsiva, venendo in rilievo un comportamento che, oltre che costituire una grave violazione del dovere di fedeltà gravante sul lavoratore, è connotato da evidente un disvalore sociale alla luce dei costi sociali ed economici connessi.

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Il 20 febbraio 2025 Vittorio De Luca ha partecipato alla quinta edizione del Welfare & HR Summit de Il Sole 24 Ore, ha analizzato i principali aspetti giuslavoristici legati alla disciplina degli appalti e le novità introdotte, da ultimo, dal “Decreto Correttivo”.

Qui il link per vedere un estratto del suo intervento.