Legittimo il licenziamento per giusta causa del lavoratore che consegni ad altri il badge personale affinché ne attesti la presenza (falsa) in azienda

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 10239 del 18 aprile 2023, ha confermato la decisione assunta dalla Corte di Appello di Lecce che aveva ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore che, assente dal servizio, aveva consegnato il proprio badge ad un collega affinché ne attestasse la presenza sul luogo di lavoro. Nell’ambito delle valutazioni effettuate dalla corte territoriale e confermate poi dagli Ermellini, era risultata priva di rilievo, ai fini della  valutazione  della  legittimità  del  recesso,  sia  l’asserita  esigua  assenza  dal  servizio  del lavoratore licenziato sia il fatto che nessun danno fosse stato arrecato all’azienda datrice di lavoro.  Inoltre,  ad  avviso  della  Corte  di  Cassazione,  la  corte  territoriale  salentina  aveva correttamente evidenziato come la circostanza che il lavoratore si fosse reso già altre volte protagonista  della  medesima  condotta  truffaldina  connotasse  di  particolare  gravità  l’episodio oggetto di contestazione, giustificando così la sanzione espulsiva allo stesso irrogata. Nell’ambito delle proprie valutazioni, gli Ermellini hanno poi confermato il proprio orientamento sui limiti alla censurabilità, in sede di legittimità, dell’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 cod. civ., compiuta dal giudice di merito ai fini della individuazione della giusta causa di licenziamento,  per  la  cui  contestazione  non  è  sufficiente  contrapporre  una  ricostruzione  e valutazione dei fatti diversa rispetto a quella posta a base della decisione impugnata.

Il fatto affrontato e l’esito dei giudizi di merito

La vicenda processuale trae origine dal licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore in data 23 maggio 2017 al quale era stata contestato di aver consegnato ad un collega il proprio badge personale affinché ne attestasse falsamente la propria presenza in servizio.

Il lavoratore impugnava giudizialmente il licenziamento deducendone l’illegittimità e chiedendo, in via principale, la reintegrazione nel posto di lavoro in precedenza occupato e, in via subordinata, la condanna della società datrice al risarcimento del danno.

Sia nella fase sommaria del c.d. Rito Fornero che in sede di opposizione ex art. 1, comma 57, Legge n. 92/2012, il Tribunale di Taranto rigettava il reclamo del lavoratore, confermando la legittimità del recesso.

Con  sentenza  n.  290/2019,  la  Corte  di  Appello  di  Lecce  rigettava  il  reclamo  proposto  dal lavoratore confermando la sentenza di primo grado del Tribunale di Taranto. Nello specifico, la Corte di Appello salentina osservava che, pur non essendo possibile accertare in che misura l’utilizzo  improprio  del  badge  avesse  permesso  al  lavoratore  di  attestare  falsamente  la  sua presenza in azienda, la valutazione circa la sussistenza della giusta causa di licenziamento dovesse riguardare proprio “l’uso distorto del rilevatore delle presenze” che, in base ad uno specifico  ordine  di  servizio  interno,  doveva  essere  necessariamente  essere  eseguito personalmente dai lavoratori e non da parte di terzi compiacenti “come puntualmente contestato al lavoratore restando così irrilevante la durata dell’assenza dal posto di lavoro“.

Sulla scorta di tali considerazioni, la Corte di Appello di Lecce aveva poi ritenuto proporzionata la sanzione  espulsiva  irrogata  trattandosi  di  abuso  di  fiducia  punito  con  il  licenziamento  dalla contrattazione collettiva nazionale applicata al rapporto di lavoro de quo.

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La “giusta causa” di licenziamento, ex articolo 2119 cod. civ., integra una clausola generale che richiede di essere concretizzata dall’interprete tramite la valorizzazione di fattori esterni quali la coscienza generale e i principi del nostro ordinamento tacitamente richiamati dalla norma.

Con ordinanza n. 7029, del 9 marzo 2023, la Corte di Cassazione, ribaltando le conclusioni a cui era addivenuta la Corte d’Appello di Bologna, ha ritenuto sorretto da giusta causa il licenziamento di un lavoratore che, in forma dialettale e con fare irrisorio si era rivolto nei confronti di una collega utilizzando espressioni sconvenienti e offensive quali: “ma perché sei uscita incinta pure tu?”, “ma perché non sei lesbica tu”, “e come sei uscita incinta tu?”.

L’episodio era avvenuto alla fermata dell’autobus dove la collega era in attesa di prendere servizio come autista, alla presenza di altre persone, mentre sia il lavoratore licenziato che la sua interlocutrice erano in divisa e quindi riconoscibili come dipendenti della società datrice di lavoro.

Il dipendente licenziato, impugnato il provvedimento, ne aveva dunque ottenuto l’annullamento nel secondo giudizio di merito avendo ritenuto la Corte d’Appello che l’episodio contestato al dipendente, seppur pacifico dal punto di vista fattuale, andasse relegato nell’ambito di una condotta “sostanzialmente inurbana”, in quanto tale punibile tuttalpiù con una sanzione conservativa (la sospensione dalla retribuzione e dal servizio).

La Corte di Cassazione ha invece in seguito ribaltato la decisione dei giudici di appello partendo dal presupposto che, richiamandosi a consolidata giurisprudenza, la “giusta causa” di licenziamento ex articolo 2119 cod. civ. integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall’interprete tramite la valorizzazione di fattori esterni quali la coscienza generale e i principi del nostro ordinamento tacitamente richiamati dalla norma.

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La Corte di Cassazione, con la pronuncia del 7 febbraio 2022, n. 3820, ha stabilito che la contestazione disciplinare ha la funzione di indicare al lavoratore i fatti addebitati per consentirgli di esercitare il suo diritto di difesa e non ha, invece, per oggetto le prove ad essi relative, soprattutto quando si tratta di fatti che, svolgendosi fuori dall’azienda, sfuggono alla diretta cognizione del datore di lavoro. In tali casi è sufficiente che il datore indichi la fonte della sua conoscenza.

I fatti di causa

Una società aveva azionato un procedimento disciplinare nei confronti di due dipendenti addetti ad una stazione autostradale, rei di aver apposto della carta sulla barriera ottica della sbarra di cadenzamento al fine di paralizzare il sistema di rilevamento dei veicoli in transito e di lucrare, in prima persona, il ricavato dei pedaggi. Il procedimento disciplinare, che era incentrato sulla condotta dagli stessi assunta il 27 ottobre 2016 e in altre circostanze indicate in un allegato alla lettera di contestazione, si era concluso con il loro licenziamento per giusta causa.

I dipendenti licenziati avevano impugnato il provvedimento espulsivo dinanzi al Tribunale territorialmente competente che nel giudizio in fase sommaria aveva respinto il ricorso, accolto nella fase di opposizione con declaratoria di illegittimità del licenziamento e condanna della società a reintegrarli.

La Corte d’Appello di Napoli, adita dalla società soccombente, accoglieva il reclamo proposto e, in riforma della sentenza di primo grado, respingeva l’originaria domanda dei dipendenti di impugnativa di licenziamento.

La Corte territoriale riteneva legittimo il licenziamento in questione in ragione (i) del particolare grado di fiducia richiesto dalla specifica posizione dagli stessi ricoperta, non suscettibile di controllo continuo; (ii) del fatto che essi avevano rapporti con l’utenza nei cui confronti rappresentavano l’azienda; (iii) della responsabilità connessa al maneggio di denaro. Secondo la Corte territoriale risultava irrilevante rispetto a tali elementi “il dato della esiguità della somma sottratta e dell’episodio isolato in cui ciò si sarebbe verificato, in quanto la circostanza che i dipendenti avessero posto in essere specifici artifici e raggiri per appropriarsi di denaro in danno del datore di lavoro rivestiva un elevato disvalore giuridico e sociale, tale da ledere in modo irrimediabile il vincolo fiduciario e rendere proporzionata la sanzione espulsiva”.

Avverso la decisione della Corte d’Appello i due lavoratori ricorrevano in cassazione, a cui resisteva la società con controricorso.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha, innanzitutto, chiarito che in tema di esercizio del potere disciplinare, la contestazione dell’addebito ha la funzione di indicare il fatto contestato al fine di consentire la difesa del lavoratore, mentre non ha per oggetto le relative prove, soprattutto per i fatti che, svolgendosi fuori dall’azienda, sfuggono alla diretta cognizione del datore di lavoro; conseguentemente è sufficiente che il datore di lavoro indichi la fonte della sua conoscenza.

Inoltre, la Corte di Cassazione ha osservato che, in tema di licenziamento per giusta causa, quando vengono contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, non occorre che l’esistenza della “causaidonea a non consentire la prosecuzione del rapporto sia ravvisabile esclusivamente nel complesso dei fatti ascritti. A parere della Corte di Cassazione, il giudice può – nell’ambito degli addebiti posti a fondamento del licenziamento dal datore di lavoro – individuare anche solo in alcuni o in uno di essi il comportamento che giustifica la sanzione espulsiva, se lo stesso presenta il carattere di grave inadempimento richiesto dall’art. 2119 cod. civ.

La Corte di Cassazione ha poi evidenziato che il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione dell’illecito commesso si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso. L’inadempimento “deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 c.c., sicché l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata soltanto in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali (L. n. 604 del 1966, art. 3) ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto”. E, nel caso di specie la lesione del vincolo fiduciario è connessa all’impiego, da parte dei dipendenti, di artifici e raggiri allo scopo di sottrarre danaro (indipendente dalla sua entità) alla società datrice di lavoro.

In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso dei lavoratori, condannandoli alla rifusione delle spese di lite.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 25731 del 22 settembre 2021, ha affermato che, in mancanza della preventiva informazione ai sensi dell’articolo 4, co. 3, della Legge n. 300/1970 il datore non può utilizzare ai fini disciplinari i dati rinvenuti all’interno di una chat aziendale in cui un dipendente parla male dei suoi superiori e dei colleghi.

I fatti di causa

Una lavoratrice era stata licenziata per giusta causa in quanto – in occasione di un controllo effettuato dal personale IT al fine di verificare, in ragione della chiusura della chat, se vi fossero dati aziendali da conservare – sarebbe stata rinvenuta una conversazione nella quale la stessa, chattando con un’altra collega, aveva usato toni pesantemente offensivi nei confronti di una superiore gerarchica e di qualche altra collega.

Il Tribunale, prima, e la Corte di Appello, poi, avevano ritenuto illegittimo il licenziamento per giusta causa.

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L’articolo 4, Legge 300/1970

L’articolo 4, Legge 300/1970, prevede quanto segue:

1. “Gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali. (…)”

2.  La disposizione di cui al comma 1 non si applica agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa (…).

3. Le informazioni raccolte ai sensi dei commi 1 e 2 sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196”.

Per quanto di nostro interesse, quest’ultimo comma prescrive la necessità di informare i dipendenti sulle modalità d’uso e di controllo degli strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, installati per le esigenze di cui al primo comma o assegnati per svolgere la prestazione lavorativa di cui al comma 2, affinché i dati raccolti siano utilizzati a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro, ivi inclusi quelli disciplinari.

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La Corte d’Appello di Milano aveva rilevato che l’accesso alla chat effettuato dalla società era illegittimo, in quanto effettuato in violazione del predetto comma 3 avendo la società datrice di lavoro omesso di dare la necessaria tempestiva ed adeguata informazione ai dipendenti sui controlli e sulle modalità di esecuzione degli stessi.

La società soccombente ricorreva così in cassazione.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione, richiamando le argomentazioni esposte dalla Corte di Appello di Milano, ha affermato che l’accesso alla chat aziendale effettuato dalla società era illegittimo poiché posto in essere in violazione dell’art. 4, co. 3, Legge 300/1970. Invero, secondo la Corte, la chat aziendale è certamente da qualificare come uno strumento di lavoro ai sensi del comma 2 del citato articolo 4. Pertanto, il controllo della stessa sarebbe potuto avvenire solo fornendo ai lavoratori “adeguata informazione delle modalità d’uso” della stessa.

Nel caso di specie, sussisteva un regolamento aziendale che prevedeva la possibilità di effettuare controlli sulla chat in occasione di interventi di manutenzione, aggiornamento o per ricavare dati utili per la programmazione dei costi. Tuttavia, nessuna preventiva ed adeguata informazione era stata fornita ai dipendenti in merito al controllo in ragione della chiusura della chat ed al conseguente progressivo suo abbandono, né in merito alle modalità di controllo dello strumento. Anzi, nel caso in esame, la comunicazione della interruzione del servizio di chat era stata inviata quando i controlli erano stati già eseguiti.

In aggiunta a quanto sopra, la Suprema Corte, confermando quando affermato dalla Corte territoriale, ha ritenuto che il materiale raccolto non potesse essere utilizzato dal datore di lavoro. Ciò in quanto le conversazioni della dipendente costituivano una forma di “corrispondenza privata svolta in via riservata, rispetto alla quale si impone una tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni ai sensi dell’art. 15 della Costituzione”.

Il contenuto riservato delle conversazioni si rinveniva anche dalla circostanza che alla chat era possibile accedere solo con l’uso di una password personale ed i messaggi inviati potevano essere letti solo dai destinatari, “con la conseguenza che l’accesso al contenuto delle comunicazioni è precluso agli estranei e non ne è consentita la rivelazione ed utilizzazione”.

Inoltre, la Corte ha “escluso un intento denigratorio” della dipendente, ritenendo che, “il contenuto delle e-mail e le espressioni in esse utilizzate costituissero uno sfogo della mittente, destinato ad essere letto dalla sola destinataria, privo del carattere di illiceità ed espressione della libera manifestazione del pensiero in una conversazione privata”.

Sulla base di quanto precede, la Corte di Cassazione, confermando la decisione della Corte di Appello di Milano, ha ritenuto insussistente la giusta causa di licenziamento, condannando la società datrice di lavoro alla reintegrazione della dipendente nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno in suo favore nella misura di sette mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

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Con la sentenza 15465 del 3 giugno 2021 la Corte di cassazione, sezione lavoro, è tornata a pronunciarsi sulle peculiarità del licenziamento per giusta causa irrogato al dipendente che svolga altra attività lavorativa durante il congedo per malattia.

In particolare, è stato intimato un licenziamento disciplinare a un dipendente pubblico il quale, a seguito di infortunio, allegando attestazioni mediche relative a una presunta sindrome ansioso depressiva, otteneva un periodo di congedo per malattia durante il quale, tuttavia, veniva filmato da una agenzia investigativa mentre svolgeva attività lavorativa nell’esercizio commerciale della figlia, dimostrando con ciò di non essere affetto da alcun disturbo, né fisico né psichico.

A seguito dell’impugnazione del licenziamento, nel giudizio di primo grado era emerso che la prestazione eseguita presso tale esercizio non era occasionale ma continuativa e caratterizzata da un impegno non meno gravoso di quello richiesto per lo svolgimento delle proprie mansioni da impiegato d’ordine presso l’agenzia del Demanio. In grado di appello, inoltre, era risultato che le attestazioni mediche rilasciate in ordine all’esistenza e alla natura delle patologie che avevano colpito il dipendente successivamente all’infortunio non erano coerenti tra loro. La Corte d’appello, pertanto, riteneva che la sindrome ansioso depressiva non sussisteva e che, se anche latentemente esistente, non era collegabile all’infortunio.

Il Tribunale di primo grado e la Corte territoriale avevano così respinto il ricorso del dipendente avallando la tesi della legittimità del recesso datoriale. Il dipendente è dunque ricorso in Cassazione lamentando, anzitutto, che nel giudizio di merito non fosse emerso il carattere “non occasionale” dell’attività lavorativa contestatagli e che, in secondo luogo, fosse stata violata la previsione del Ccnl di categoria laddove prevedeva la sospensione dal servizio con privazione della retribuzione, fino a un massimo di 10 giorni, in caso di «svolgimento di altre attività durante lo stato di malattia o di infortunio, incompatibili e di pregiudizio per la guarigione».

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