Come noto, in sede di assunzione, datore di lavoro e lavoratore possono pattuire un “periodo di prova”, con lo scopo di consentire ad entrambi di valutare la “convenienza” del rapporto di lavoro.
Durante o al termine del periodo di prova, entrambe le parti sono libere di recedere dal contratto di lavoro senza dover fornire alcuna motivazione e senza obbligo di dare il preavviso o di pagare la relativa indennità sostitutiva.
La legittimità del recesso “ad nutum” presuppone, tuttavia, che il patto di prova sia stato validamente costituito.
A tal fine, la clausola che prevede il periodo di prova deve essere, per legge, formulata in forma scritta e, secondo costante e maggioritaria giurisprudenza, contenere l’indicazione puntuale delle mansioni affidate al lavoratore così da consentire a quest’ultimo di avere ben chiare le attività su cui la prova sarà effettivamente svolta.
In alternativa, il datore di lavoro può fare riferimento al sistema classificatorio della contrattazione collettiva indicando all’interno della clausola relativa al periodo di prova, l’indicazione del profilo professionale attribuito al lavoratore secondo le declaratorie del CCNL applicato (C. Cass., Sez. Lav., 4 agosto 2014, n, 17591; C. Cass., Sez. Lav., 18 luglio 2013, n, 17587).
Quali sono le conseguenze per il datore di lavoro che receda ad nutum durante il periodo di prova previsto tramite una clausola priva dei requisiti di sostanza sopra richiamati?
Al riguardo, con sentenza n. 20239 del 14 luglio scorso, la Corte di Cassazione, sezione lavoro, ha statuito che: “la nullità̀ della clausola che contiene il patto di prova, in quanto parziale, non si estende all’intero contratto ma determina la automatica conversione dell’assunzione in definitiva sin dall’inizio”.
Pertanto, in merito alle conseguenze connesse al licenziamento “ad nutum” intimato dal datore di lavoro in presenza di un patto di prova nullo, la Corte ha chiarito che «la trasformazione dell’assunzione in definitiva comporta il venir meno del regime di libera recedibilità̀ sancito dall’art. 1 l. n. 604 del 1966; in presenza di un patto di prova invalido, la cessazione unilaterale del rapporto di lavoro per mancato superamento della prova è inidonea a costituire giusta causa o giustificato motivo di licenziamento e non si sottrae alla relativa disciplina limitativa dettata dalla legge n. 604 del 1966; il recesso del datore di lavoro equivale, quindi, ad un ordinario licenziamento soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza o meno della giusta causa o del giustificato motivo”.
Nel caso sottoposto al vaglio dei giudici di legittimità, la lavoratrice rivendicava la nullità del licenziamento chiedendo l’applicazione della tutela reintegratoria prevista dall’art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015.
La Corte, disattendendo la richiesta della lavoratrice, ha invece ritenuto che «il recesso ad nutum in oggetto, intimato in assenza di valido patto di prova, non riconducibile ad alcuna delle specifiche ipotesi di cui al comma 2 dell’art. 3 d. lgs n. 23 del 2015 nelle quali è prevista la reintegrazione, resta assoggettato alla regola generale della tutela indennitaria».
Il datore di lavoro non può licenziare immediatamente un lavoratore affetto da patologia che genera disabilità subito dopo il superamento del periodo di comporto, ma deve adottare ragionevoli accomodamenti per la conservazione del posto di lavoro, nel rispetto dei principi di buona fede e correttezza. Tra questi principi, rientra anche l’attività di informare il dipendente della possibilità di fruire di una aspettativa non retribuita prima del superamento del periodo di comporto. Così ha deciso la Corte di appello di Trento con la sentenza n. 8 del 6 luglio 2023.
La pronuncia trae origine da una sentenza del Tribunale di Rovereto (n. 54 del 2022) che aveva ritenuto legittimo il licenziamento comminato ad un lavoratore affetto da diabete di tipo 2, che ha comportato l’amputazione di un dito, a termine del periodo massimo di assenza previsto dal CCNL. Il Tribunale ha ritenuto il licenziamento legittimo sulla base del fatto che la disabilità del lavoratore non fosse stata certificata prima della cessazione del rapporto e che non ci fosse alcun obbligo in capo al datore di informare il dipendente prima del superamento del periodo di comporto.
Avverso la sentenza del Tribunale di Rovereto, il lavoratore è ricorso dinanzi alla Corte d’appello.
La Corte d’appello è giunta ad una diversa conclusione, articolando il proprio ragionamento partendo dalla verifica della sussistenza di una discriminazione indiretta nei confronti del lavoratore. La Corte ha richiamato, preliminarmente, l’orientamento della Corte di giustizia UE, secondo cui la disabilità è una «limitazione di capacità risultante da durature menomazioni fisiche, mentali o psichiche» idonea a incidere sulla piena partecipazione della persona alla vita professionale, in situazione di parità con gli altri soggetti, la cui definizione è, in realtà, molto ampia e prescinde dal riconoscimento formale di un’invalidità «intesa come riduzione – accertata da organi a ciò preposti – della capacità lavorativa». Inoltre, secondo la Corte, è necessario operare una distinzione tra malattia ed handicap, che si sostanzia nella «permanenza della patologia e dalla lunga durata».
Nel caso specifico, la sentenza ha evidenziato come l’azienda fosse stata periodicamente informata dal lavoratore circa il suo stato di malattia e che proprio in tale contesto avrebbe potuto intraprendere «idonee iniziative di tutela». La Corte ha sostenuto che il fatto che il CCNL applicato prevedesse l’aspettativa non retribuita solo su richiesta dell’interessato, non esclude il dovere del datore di lavorodi assumere un ruolo attivo. Il datore di lavoro dovrebbe infatti informare il dipendente dell’approcciarsi della scadenza del periodo di comporto e della possibilità per lo stesso di richiedere l’aspettativa come forma di accomodamento. Questa azione sarebbe in linea con i principi di correttezza e buona fede del rapporto di lavoro, anche se formalmente il dipendente non aveva ancora raggiunto lo status di invalidità secondo la legge.
La Corte ha quindi dichiarato il licenziamento nullo in quanto discriminatorio, poiché l’azienda non ha dimostrato di essersi impegnata adeguatamente per fornire ragionevoli accomodamenti al dipendente. L’azienda non ha altresì dimostrato che tali misure avrebbero causato gravi problemi organizzativi o finanziari, né che avrebbero comportato oneri sproporzionati. Di conseguenza, il dipendente è stato reintegrato sul posto di lavoro, con il riconoscimento di un’indennità risarcitoria pari alla retribuzione globale di fatto tra la data del licenziamento e quella della effettiva reintegrazione.
Altri Insights collegati:
Con la recente sentenza n. 20284 del 14 luglio 2023, la Corte di Cassazione ha statuito che, anche se non specificamente previste nel codice disciplinare, costituiscono ragione valida di licenziamento le violazioni da parte del lavoratore dei doveri fondamentali posti alla base del rapporto di lavoro.
Un dipendente con mansioni di venditore di I livello viene licenziato dalla società datrice di lavoro stante il costante mancato raggiungimento dei target di produzione periodicamente stabiliti dall’azienda.
Il dipendente impugna il licenziamento dinanzi il Tribunale, il quale – confrontando i risultati raggiunti dal dipendente con gli obiettivi previsti dalla programmazione aziendale – conferma l’inequivocabile scarsa resa produttiva del lavoratore. Pertanto, il Giudice adito dichiara legittimo il licenziamento, qualificandolo come licenziamento per giustificato motivo soggettivo.
La sentenza viene impugnata dal lavoratore dinanzi la Corte di Appello di Roma dove il dipendente insiste sulla illegittimità del licenziamento stante la mancata affissione del codice disciplinare in aziendale.
Al riguardo, la Corte, confermando la sentenza di primo grado, statuisce che ai fini della configurazione del licenziamento è irrilevante la mancata affissione del codice disciplinare in azienda essendo contestato al lavoratore l’inadempimento per negligenza e imperizia degli obblighi derivanti dal contratto di lavoro e che il licenziamento era fondato sulla scarsa resa produttiva del dipendente conseguente al costante mancato rispetto dei programmi di lavoro in precedenza stabiliti.
Per la Corte, inoltre, ai fini della valutazione di gravità della condotta inadempiente, devono essere considerati anche i precedenti disciplinari che connotano la recidiva del lavoratore nella medesima mancanza.
Il lavoratore, dunque, impugna la sentenza della Corte d’Appello in cassazione.
Investita della questione, la Corte di Cassazione conferma le pronunce dei giudici di merito relativamente alla legittimità del licenziamento.
In primo luogo, i Giudici di Cassazione ribadiscono che il potere di risolvere il contratto di lavoro subordinato in caso di notevole inadempimento degli obblighi contrattuali deriva al datore di lavoro direttamente dalla legge (art. 3 della legge n. 604 del 1966) e non necessita, per il suo legittimo esercizio, di una dettagliata previsione, nel contratto collettivo o nel regolamento disciplinare aziendale, di ogni possibile ipotesi di comportamento integrante il suddetto requisito. Spetta infatti al giudice di verificare, ove si contesti la legittimità del recesso, se gli episodi addebitati integrino una fattispecie legale di inadempimento.
Per tale motivo, prosegue la Corte, anche se non specificamente previste dalla normativa negoziale, costituiscono ragione di valida intimazione del recesso le gravi violazioni dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro; si tratta nello specifico di quei doveri che sorreggono l’esistenza del rapporto lavorativo, quali i doveri imposti dagli artt. 2104 e 2105 cod. civ. (obblighi di diligenza e di fedeltà) nonché quelli derivanti da direttive aziendali.
Per i Giudici di legittimità, dunque, in tema di sanzioni disciplinari, deve distinguersi tra illeciti relativi alla violazione di specifiche prescrizioni attinenti all’organizzazione aziendale e ai modi di produzione, conoscibili solamente in quanto espressamente previste, ed illeciti concernenti comportamenti manifestamente contrari ai doveri dei lavoratori e agli interessi dell’impresa, per i quali non è invece richiesta la specifica inclusione nel codice disciplinare.
Quanto al codice disciplinare, i giudici ribadiscono che deve essere, in ogni caso, redatto in forma tale da rendere chiare le ipotesi di infrazione, sia pure dandone una nozione schematica e non dettagliata, e da indicare le correlative previsioni sanzionatorie, anche se in maniera ampia e suscettibile di adattamento secondo le effettive e concrete inadempienze.
In definitiva, dunque, con le citate sentenze viene confermata la legittimità del recesso datoriale anche laddove l’inadempimento contestato al lavoratore non costituisce una fattispecie espressamente disciplinata nel codice disciplinare aziendale ovvero dalla contrazione collettiva, ma si realizza attraverso la violazione dei doveri posti alla base rapporto lavorativo.
Altri insights correlati:
Il mancato rispetto dei termini previsti dal contratto collettivo per la comunicazione della lettera di licenziamento integra una violazione di natura procedimentale con conseguente applicazione della sanzione indennitaria dell’articolo 18, comma 6.
La Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 10802 del 21 aprile 2023, è tornata a pronunciarsi in merito alla tempestività della comunicazione del licenziamento, analizzando, da un lato, i presupposti affinché possa trovare applicazione il principio della scissione tra il momento in cui la volontà di recedere viene manifestata e quello in cui si producono gli effetti e, dall’altro, le conseguenze sanzionatorie connesse al mancato rispetto dei termini di conclusione del procedimento disciplinare previsti dal contratto collettivo.
La tempestività della comunicazione del licenziamento
Come noto, la legge non prevede un preciso termine entro il quale il datore di lavoro, a chiusura del procedimento disciplinare, deve comunicare al dipendente il recesso.
Ed infatti, l’art. 7 St. lav. non indica un termine “finale” entro cui la sanzione debba essere adottata, ma fissa i principi cardine in tema di procedimento disciplinare, quali la pubblicità delle norme disciplinari e il diritto di difesa del dipendente.
La giurisprudenza ha più volte affermato che l’intimazione del licenziamento disciplinare – al pari, più in generale, dell’irrogazione delle sanzioni disciplinari – deve essere connotata dal carattere di “tempestività”, al pari dalla contestazione dell’addebito (tra le tante: Cass. n. 17058 del 2003).
Il difetto di tale requisito è infatti significativo della volontà del datore di lavoro di accettare le eventuali giustificazioni del lavoratore, al quale l’addebito sia stato contestato, o comunque di valutare la condotta del lavoratore stesso come non di gravità tale da legittimare il licenziamento: una eccessiva attesa contrasterebbe, infatti, con il presupposto della motivazione adottata (ovverosia, come espressamente disposto dall’art. 2119 c.c., “una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”).
Il carattere della “tempestività” può poi tradursi, più puntualmente, in una specifica garanzia procedimentale prevista dalla contrattazione collettiva, abilitata a specificare ulteriori elementi dell’iter procedurale tra i quali, ad esempio, l’introduzione di un termine perentorio per l’esercizio del potere disciplinare (Cass. n. 9767 del 2011), ossia di uno spatium deliberandi massimo fissato in una misura ben precisa volto a schermare il canone (meno preciso) della tempestività dell’adozione del provvedimento disciplinare.
Si pensi, ad esempio, all’art. 240 del CCNL Commercio, in forza del quale “l’eventuale adozione del provvedimento disciplinare dovrà essere comunicata al lavoratore con lettera raccomandata con avviso di ricevimento o altro mezzo idoneo a certificare la data di ricevimento, entro 15 giorni dalla scadenza del termine assegnato al lavoratore stesso per presentare le sue controdeduzioni”, o ancora al CCNL Metalmeccanici Industria secondo cui “la contestazione dovrà essere effettuata per iscritto ed i provvedimenti disciplinari non potranno essere comminati prima che siano trascorsi 5 giorni, nel corso dei quali il lavoratore potrà presentare le sue giustificazioni. Se il provvedimento non verrà comminato entro i 6 giorni successivi alla scadenza del termine per le giustificazioni, queste si riterranno accolte” (art. 8, sezione IV, CCNL Metalmeccanici Industria).
Nell’interpretare clausole analoghe a quelle sopra indicate, la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato, con plurime pronunce, che “nel caso in cui il contratto collettivo di lavoro imponga al datore l’onere di intimare la sanzione disciplinare, a pena di decadenza, entro un certo termine dalla data di ricezione delle giustificazioni fornite dal lavoratore, tale termine deve intendersi rispettato per il solo fatto che il datore abbia tempestivamente manifestato la volontà di irrogare la sanzione, a nulla rilevando che tale dichiarazione recettizia sia portata a conoscenza del lavoratore successivamente alla scadenza di quel termine” (Cass. 4.10.2010 n. 20566 e, negli stessi termini, Cass. 2.3.2011 n. 5093; Cass. 10.9.2012 n. 15102; Cass. 20.3.2015 n. 5714).
Si è osservato, infatti, che il principio della scissione tra il momento in cui la volontà di recedere è manifestata e quello in cui si producono gli effetti ricollegabili a tale volontà, affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 8830 del 14 aprile 2010, deve trovare applicazione ogniqualvolta nell’ambito del procedimento disciplinare il momento della esternazione della volontà non coincide con quello della conoscenza da parte del destinatario, perché diversamente risulterebbe intaccato il parametro di ragionevolezza ed uguaglianza formale e sostanziale tra i soggetti coinvolti.
In base al c.d. “principio della scissione”, il datore di lavoro è dunque onerato dell’attività necessaria ad avviare il procedimento di comunicazione (i.e. invio della lettera raccomandata o di altro mezzo idoneo), purché “demandato ad un servizio idoneo a garantire un adeguato affidamento sottratto alla sua ingerenza, in ragione di un equo e ragionevole bilanciamento degli interessi coinvolti” (Cass. n. 18823 del 2018).
Licenziamento non tempestivo: conseguenze sanzionatorie
Sul principio di tempestività che caratterizza il procedimento disciplinare e sul tema delle conseguenze sanzionatorie nel regime della L. n. 92 del 2012, sono intervenute le Sezioni Unite della Cassazione che, con la sentenza n. 30985 del 2017, hanno tratteggiato una distinzione concettuale tra la “violazione delle regole che scandiscono le modalità di esecuzione dell’intero iter procedimentale nelle sue varie fasi” e “la violazione del principio generale di carattere sostanziale della tempestività della contestazione quando assume il carattere di ritardo notevole e non giustificato”.
La Suprema Corte ha sottolineato come nel primo caso rileva il “semplice rispetto delle regole, pur esse essenziali, di natura procedimentale“, mentre nel secondo caso vengono in considerazione “esigenze piu’ importanti“, come quella di “garantire al lavoratore una difesa effettiva“, di “tutelare il legittimo affidamento (del medesimo) – in relazione al carattere facoltativo dell’esercizio del potere disciplinare, nella cui esplicazione il datore di lavoro deve comportarsi in conformità ai canoni della buona fede – sulla mancanza di connotazioni disciplinari del fatto incriminabile” e di “sottrarlo al rischio di un arbitrario differimento dell’inizio del procedimento disciplinare“.
In merito alle conseguenze sanzionatorie, la sentenza n. 30985 del 2017 ha stabilito che in tema di licenziamento disciplinare, ove la legge o le norme di contratto collettivo prevedano dei termini per la contestazione dell’addebito posto a base del provvedimento di recesso – ricadente “ratione temporis” nella disciplina dell’articolo 18 St. lav., così come modificato dalla l. n. 92 del 2012 -, il mancato rispetto di tali termini integra violazione di natura procedimentale e comporta l’applicazione della sanzione indennitaria di cui al comma 6 dello stesso articolo 18 St. lav., ossia la c.d. tutela indennitaria debole tra un minimo di 6 ed un massimo di 12 mensilità. Ha invece ritenuto applicabile la tutela indennitaria forte di cui all’articolo 18, comma 5, nel caso in cui sia accertato “un ritardo notevole e non giustificato della contestazione dell’addebito posto a base del provvedimento di recesso” (v. in senso conforme, Cass. n. 12231 del 2018).
Nei precedenti giurisprudenziali di legittimità, la violazione delle regole procedurali è stata ravvisata, ad esempio, nel caso in cui “la contestazione disciplinare, finalizzata al licenziamento, non contenga una sufficiente e specifica descrizione della condotta tenuta dal lavoratore” (Cass. n. 16896 del 2016), nonché in ipotesi di “violazione dell’obbligo del datore di lavoro di sentire preventivamente il lavoratore a discolpa” (Cass. n. 7392 del 2022), ritenendosi in tali fattispecie applicabile la tutela prevista dall’articolo 18, comma 6.
Si e’, di contro, ritenuto che “il radicale difetto di contestazione dell’infrazione determina l’inesistenza dell’intero procedimento, e non solo l’inosservanza delle norme che lo disciplinano, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria, di cui alla l. n. 300 del 1970, comma 4 dell’articolo 18, come modificato dalla l. n. 92 del 2012, richiamata dal comma 6 del predetto articolo per il caso di difetto assoluto di giustificazione del provvedimento espulsivo, tale dovendosi ritenere un licenziamento disciplinare adottato senza alcuna contestazione di addebito” (Cass. n. 25745 del 2016; Cass. n. 4879 del 2020).
Continua a leggere la versione integrale pubblicata su Modulo 24 Contenzioso Lavoro de Il Sole 24 Ore.
La Corte di Cassazione, Sez. Lav., con ordinanza n. 12241 dello scorso 9 maggio, si è espressa in merito alla legittimità del licenziamento disciplinare intimato ad un dipendente di un’azienda informatica per essersi rifiutato di approfondire lo studio di taluni sistemi operativi e di aggiornare i programmi in uso presso un cliente. Nel caso di specie, il giudice di merito aveva appurato che il lavoratore si era rifiutato di sottoporsi alla formazione richiestagli dal suo superiore gerarchico sebbene la partecipazione ai corsi di aggiornamento professionale non avrebbe comportato spese a suo carico né la necessità di usufruire di permessi o di sacrificare il proprio tempo libero. Ulteriormente accertato risultava il comportamento passivo e privo di spirito collaborativo tenuto dal dipendente presso un cliente della società, dove si era rifiutato di svolgere attività di aggiornamento dei sistemi operativi. Sulla scorta di tali presupposti, la Corte di Cassazione ha ritenuto legittimo il licenziamento disciplinare con preavviso intimato dall’azienda, ritenendo che il comportamento tenuto dal dipendente integrasse gli estremi della grave insubordinazione, ponendosi in aperto contrasto con l’obbligo di diligenza, nel caso di specie inteso anche con riguardo alle esigenze accrescimento professionale necessarie per il proficuo impiego del dipendente.