Con l’ordinanza n. 27353 del 26.09.23, la Corte di Cassazione si è pronunciata sul
caso di un dipendente che era stato licenziato per il furto di alcuni beni aziendali di
esiguo valore. Il dipendente, impugnato il licenziamento, agiva in giudizio chiedendo
di essere reintegrato nel posto di lavoro perso. I giudici di merito, pur escludendo
l’applicabilità della tutela reale al caso di specie, ritenevano che la sanzione espulsiva
fosse sproporzionata rispetto al modesto valore della merce sottratta dal dipendente,
condannando la Società al pagamento di un’indennità risarcitoria nei confronti del
lavoratore. La Corte di Cassazione, investita della vicenda, ha confermato che, essendo il comportamento oggetto di contestazione (ossia, il furto) rientrante tra quelli per
cui il CCNL applicato prevedeva la sanzione del licenziamento, la tutela reale non potesse trovare applicazione nel caso di specie. Tuttavia, essendo evidente lo squilibrio
tra sanzione inflitta e comportamento oggetto di contestazione, la Suprema Corte ha
confermato la decisione dei giudici di prime cure, ritenendo applicabile al caso di
specie la tutela indennitaria di cui all’art. 18, co. 5, l. 300/70.

Con la sentenza n. 20239 del 14 luglio 2023, la Corte di Cassazione ha affrontato il tema del

licenziamento per mancato superamento del periodo di prova intimato in presenza di un patto di

prova nullo, statuendo che nei confronti dei dipendenti soggetti alla disciplina delle c.d. “tutele

crescenti” (i.e., dipendenti assunti dopo il 7 marzo 2015) trova applicazione esclusivamente la

tutela indennitaria e non la reintegra in servizio. La Suprema Corte, nel sostenere la propria

decisione, ha rimarcato come la riforma dei licenziamenti introdotta dal c.d. Jobs Act abbia

circoscritto il rimedio della tutela reale al solo ambito del licenziamento disciplinare e, in

particolare, al solo caso in cui sia dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale

contestato al lavoratore, concludendo pertanto che, data la residualità della tutela reale

nell’impianto normativo del Jobs Act, ai licenziamenti intimati durante il periodo di prova in

presenza di un patto nullo si applichi esclusivamente il rimedio indennitario economico.

Uno dei requisiti fondamentali nell’ambito delle contestazioni disciplinari è la corrispondenza tra l’addebito contestato al lavoratore e quello posto a fondamento della sanzione inflitta. Questo principio è volto ad assicurare una procedura equa e giusta nell’ambito dei rapporti di lavoro, al fine di prevenire il ricorso da parte del datore di lavoro a licenziamenti basati su circostanze ulteriori o diverse da quelle esplicitate nella lettera di contestazione.

La recente pronuncia della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha ribadito il predetto principio con l’ordinanza numero 26042/2023 dello scorso 7 settembre 2023.

Il caso affrontato riguardava un lavoratore, che era stato licenziato a seguito di accuse di falso e furto di carburante, reati che erano stati parallelamente oggetto di un processo penale.

Il lavoratore, inizialmente licenziato, è stato successivamente assolto da tali accuse nel processo penale, per non aver commesso il fatto.

In forza della sentenza penale di assoluzione, il Tribunale di primo grado, in prima istanza, e la Corte di merito, in grado di appello, avevano ritenuto illegittimo il licenziamento.

La società aveva impugnato la decisione davanti alla Suprema Corte, sostenendo, da un lato, che mancavano i requisiti richiesti dalle norme penali per l’efficacia di una sentenza penale nel giudizio civile, e, dall’altro, che fosse stato omesso l’esame di taluni e ulteriori fatti adeguati a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario col lavoratore licenziato.

La decisione della Corte

La Corte di Cassazione, ha affermato che “nel vigente ordinamento processuale, mancando una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova, il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove cosiddette atipiche. In tal senso, ad avviso della Corte, “non vi è dubbio che la sentenza di assoluzione per non aver commesso il fatto, anche in esito a giudizio abbreviato, è qualificabile come prova atipica dell’insussistenza dell’addebito disciplinare rientrante nel perimetro della parallela imputazione penale, la cui rivalutazione in fatto è preclusa in sede di legittimità”.

Inoltre, la Cassazione ha respinto l’asserita omessa valutazione di «omissioni» e «violazioni» esterne alla contestazione disciplinare. Ciò, in forza del principio di immutabilità della contestazione disciplinare, che impedisce al datore di lavoro di ampliarne il perimetro durante il procedimento giudiziario.

Conseguentemente, confermando la decisione della Corte di Appello, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso ed ha ritenuto il licenziamento illegittimo.

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Come noto, in sede di assunzione, datore di lavoro e lavoratore possono pattuire un “periodo di prova”, con lo scopo di consentire ad entrambi di valutare la “convenienza” del rapporto di lavoro. 

Durante o al termine del periodo di prova, entrambe le parti sono libere di recedere dal contratto di lavoro senza dover fornire alcuna motivazione e senza obbligo di dare il preavviso o di pagare la relativa indennità sostitutiva. 

La legittimità del recesso “ad nutum” presuppone, tuttavia, che il patto di prova sia stato validamente costituito.  

A tal fine, la clausola che prevede il periodo di prova deve essere, per legge, formulata in forma scritta e, secondo costante e maggioritaria giurisprudenza, contenere l’indicazione puntuale delle mansioni affidate al lavoratore così da consentire a quest’ultimo di avere ben chiare le attività su cui la prova sarà effettivamente svolta.  

In alternativa, il datore di lavoro può fare riferimento al sistema classificatorio della contrattazione collettiva indicando all’interno della clausola relativa al periodo di prova, l’indicazione del profilo professionale attribuito al lavoratore secondo le declaratorie del CCNL applicato (C. Cass., Sez. Lav., 4 agosto 2014, n, 17591; C. Cass., Sez. Lav., 18 luglio 2013, n, 17587). 

Quali sono le conseguenze per il datore di lavoro che receda ad nutum durante il periodo di prova previsto tramite una clausola priva dei requisiti di sostanza sopra richiamati? 

Al riguardo, con sentenza n. 20239 del 14 luglio scorso, la Corte di Cassazione, sezione lavoro, ha statuito che: “la nullità̀ della clausola che contiene il patto di prova, in quanto parziale, non si estende all’intero contratto ma determina la automatica conversione dell’assunzione in definitiva sin dall’inizio”.  

Pertanto, in merito alle conseguenze connesse al licenziamento “ad nutum” intimato dal datore di lavoro in presenza di un patto di prova nullo, la Corte ha chiarito che «la trasformazione dell’assunzione in definitiva comporta il venir meno del regime di libera recedibilità̀ sancito dall’art. 1 l. n. 604 del 1966; in presenza di un patto di prova invalido, la cessazione unilaterale del rapporto di lavoro per mancato superamento della prova è inidonea a costituire giusta causa o giustificato motivo di licenziamento e non si sottrae alla relativa disciplina limitativa dettata dalla legge n. 604 del 1966; il recesso del datore di lavoro equivale, quindi, ad un ordinario licenziamento soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza o meno della giusta causa o del giustificato motivo”. 

Nel caso sottoposto al vaglio dei giudici di legittimità, la lavoratrice rivendicava la nullità del licenziamento chiedendo l’applicazione della tutela reintegratoria prevista dall’art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015. 

La Corte, disattendendo la richiesta della lavoratrice, ha invece ritenuto che «il recesso ad nutum in oggetto, intimato in assenza di valido patto di prova, non riconducibile ad alcuna delle specifiche ipotesi di cui al comma 2 dell’art. 3 d. lgs n. 23 del 2015 nelle quali è prevista la reintegrazione, resta assoggettato alla regola generale della tutela indennitaria». 

Il datore di lavoro non può licenziare immediatamente un lavoratore affetto da patologia che genera disabilità subito dopo il superamento del periodo di comporto, ma deve adottare ragionevoli accomodamenti per la conservazione del posto di lavoro, nel rispetto dei principi di buona fede e correttezza. Tra questi principi, rientra anche l’attività di informare il dipendente della possibilità di fruire di una aspettativa non retribuita prima del superamento del periodo di comporto. Così ha deciso la Corte di appello di Trento con la sentenza n. 8 del 6 luglio 2023.

I fatti di causa

La pronuncia trae origine da una sentenza del Tribunale di Rovereto (n. 54 del 2022) che aveva ritenuto legittimo il licenziamento comminato ad un lavoratore affetto da diabete di tipo 2, che ha comportato l’amputazione di un dito, a termine del periodo massimo di assenza previsto dal CCNL. Il Tribunale ha ritenuto il licenziamento legittimo sulla base del fatto che la disabilità del lavoratore non fosse stata certificata prima della cessazione del rapporto e che non ci fosse alcun obbligo in capo al datore di informare il dipendente prima del superamento del periodo di comporto.

Avverso la sentenza del Tribunale di Rovereto, il lavoratore è ricorso dinanzi alla Corte d’appello.

La decisione della Corte d’appello

La Corte d’appello è giunta ad una diversa conclusione, articolando il proprio ragionamento partendo dalla verifica della sussistenza di una discriminazione indiretta nei confronti del lavoratore. La Corte ha richiamato, preliminarmente, l’orientamento della Corte di giustizia UE, secondo cui la disabilità è una «limitazione di capacità risultante da durature menomazioni fisiche, mentali o psichiche» idonea a incidere sulla piena partecipazione della persona alla vita professionale, in situazione di parità con gli altri soggetti, la cui definizione è, in realtà, molto ampia e prescinde dal riconoscimento formale di un’invalidità «intesa come riduzione – accertata da organi a ciò preposti – della capacità lavorativa». Inoltre, secondo la Corte, è necessario operare una distinzione tra malattia ed handicap, che si sostanzia nella «permanenza della patologia e dalla lunga durata».

Nel caso specifico, la sentenza ha evidenziato come l’azienda fosse stata periodicamente informata dal lavoratore circa il suo stato di malattia e che proprio in tale contesto avrebbe potuto intraprendere «idonee iniziative di tutela». La Corte ha sostenuto che il fatto che il CCNL applicato prevedesse l’aspettativa non retribuita solo su richiesta dell’interessato, non esclude il dovere del datore di lavorodi assumere un ruolo attivo. Il datore di lavoro dovrebbe infatti informare il dipendente dell’approcciarsi della scadenza del periodo di comporto e della possibilità per lo stesso di richiedere l’aspettativa come forma di accomodamento. Questa azione sarebbe in linea con i principi di correttezza e buona fede del rapporto di lavoro, anche se formalmente il dipendente non aveva ancora raggiunto lo status di invalidità secondo la legge.

La Corte ha quindi dichiarato il licenziamento nullo in quanto discriminatorio, poiché l’azienda non ha dimostrato di essersi impegnata adeguatamente per fornire ragionevoli accomodamenti al dipendente. L’azienda non ha altresì dimostrato che tali misure avrebbero causato gravi problemi organizzativi o finanziari, né che avrebbero comportato oneri sproporzionati. Di conseguenza, il dipendente è stato reintegrato sul posto di lavoro, con il riconoscimento di un’indennità risarcitoria pari alla retribuzione globale di fatto tra la data del licenziamento e quella della effettiva reintegrazione.

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