Nell’ipotesi di reiterate assenze – che non abbiano superato il limite del periodo di comporto – è onere del datore provare ulteriori motivi idonei a giustificare il provvedimento espulsivo.
Il licenziamento irrogato in ragione delle reiterate assenze del dipendente dal luogo di lavoro
avvenute a ridosso di giornate di riposo e/o festive costituisce un’ingiusta e arbitraria reazione
datoriale al legittimo esercizio del diritto del dipendente di assentarsi per malattia e, pertanto, deve
considerarsi discriminatorio e ritorsivo qualora non sia superato il periodo di comporto stabilito
dal contratto collettivo.
Il Tribunale di Napoli con la sentenza del 14 settembre 2022 è giunto a tale conclusione sul
presupposto che il datore di lavoro non può recedere dal rapporto prima del superamento del
limite di tollerabilità dell’assenza (cd. “periodo di comporto”).
La vicenda sulla quale è stato chiamato a pronunciarsi il Tribunale è relativa al licenziamento per
giusta causa di un dipendente risultato assente reiteratamente per brevi periodi a distanza
ravvicinata nel tempo solitamente a ridosso delle giornate di riposo, delle festività o dei periodi di
ferie. Tali assenze avevamo reso, ad avviso della Società, oggettivamente inutilizzabile e discontinua
la prestazione lavorativa e causato gravi e onerosi disagi all’organizzazione aziendale.
Il Tribunale ha ritenuto illegittimo il licenziamento, richiamando, in primo luogo, la disposizione
normativa che disciplina, appunto, l’istituto della malattia, ovverosia l’art. 2110 cod. civ.. Tale precetto
normativo, sancisce, in sostanza, un punto di equilibro fra l’interesse del lavoratore alla
conservazione del posto di lavoro per un determinato periodo di tempo e quello del datore di lavoro
di non doversi far carico per un tempo indefinito “del contraccolpo che tali assenze cagionano
all’organizzazione aziendale”. Difatti, il superamento del periodo di comporto, solitamente definito
dalla contrattazione collettiva, avrebbe quale effetto quello di compromettere il diritto del datore di
lavoro a ricevere una prestazione lavorativa costante e regolare e, quindi, garantire il pieno
soddisfacimento delle finalità organizzative dell’azienda.
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Il Tribunale di Roma si discosta dall’indirizzo della Corte d’Appello capitolina in merito all’esclusione del divieto di licenziamento per i dirigenti durante la emergenza Covid.
Misure di contrasto del Covid 19 – D.L. n. 18/2020 e D.L. 104/2020 – Divieto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Dirigente – Licenziamento per soppressione della posizione di lavoro – Violazione del divieto – Non sussistente
La normativa emergenziale relativa al divieto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo ha carattere eccezionale e, pertanto, non è suscettibile di estensione analogica ad ipotesi non espressamente previste dal testo normativo. Ne consegue che il blocco dei licenziamenti non possa trovare applicazione con riferimento al licenziamento individuale del dirigente.
Tribunale di Roma 25 ottobre 2022, n. 8722
A distanza di pochi mesi dalla sentenza resa dalla Corte d’Appello di Roma, con la quale il Collegio si era pronunciato a favore dell’applicabilità del blocco dei licenziamenti anche al personale dirigenziale, il Tribunale capitolino, con la recentissima sentenza n. 8722 pubblicata il 25 ottobre 2022, è giunto alla conclusione diametralmente opposta.
Nell’agosto del 2020 – e dunque nel periodo coperto dal generale divieto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo di cui al D.L. 14.8.2020, n. 104 – la società datrice di lavoro aveva proceduto al licenziamento di un dirigente per ragioni economiche, dunque oggettive.
Nell’ambito della prima fase del c.d. Rito Fornero, il Giudice, ritenendo che anche i dirigenti fossero ricompresi nella platea dei lavoratori protetti dal blocco dei licenziamenti di cui alla normativa emergenziale, aveva dichiarato nullo il licenziamento, disponendo la sua immediata reintegra nel posto di lavoro, con condanna della società al pagamento delle retribuzioni dovute dalla data di licenziamento fino a quella di effettiva reintegrazione.
Avverso tale provvedimento, la società proponeva opposizione dinanzi al Tribunale di primo grado.
Come noto, l’art. 46 D.L. 17 marzo 2020, n. 18 precludeva l’avvio delle procedure di licenziamento collettivo e vietava ai datori di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti occupati, di «recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604».
Il “blocco” dei licenziamenti è stato poi esteso e fatto oggetto di ulteriori condizioni, nonché di alcune deroghe, da parte del D.L. 14.8.2020, n. 104, applicabile alla fattispecie oggetto della sentenza in commento.
La norma disponeva che, per fronteggiare l’emergenza da COVID-19, ai datori privati che non avessero integralmente fruito dei trattamenti di integrazione salariale riconducibili all’emergenza epidemiologica da COVID-19 ovvero dell’esonero dal versamento dei contributi previdenziali restava preclusa, indipendentemente dal numero dei dipendenti, la facoltà di recedere dal contratto di lavoro per giustificato motivo oggettivo di cui all’art. 3 della L. 15.7.1966, n. 604, e restavano altresì sospese le procedure presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro in corso di cui all’art. 7 della medesima legge.
Le preclusioni e le sospensioni sopra elencate non trovavano applicazione nei seguenti casi:
a) licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell’attività dell’impresa, conseguenti alla messa in liquidazione della società senza continuazione, anche parziale, dell’attività;
b) accordo collettivo aziendale, stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale di incentivo alla risoluzione del rapporto;
c) licenziamenti intimati in caso di fallimento, quando non era previsto l’esercizio provvisorio dell’impresa o ne era disposta la cessazione.
Sin dall’introduzione del blocco dei licenziamenti, in dottrina e in giurisprudenza si sono alternati due indirizzi opposti in merito all’applicabilità di tale normativa emergenziale ai licenziamenti individuali dei dirigenti.
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La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 25287 del 24 agosto 2022, ritorna sul tema dei controlli effettuati dal datore di lavoro e traccia il perimetro entro il quale quest’ultimo può richiedere l’intervento ed il supporto di un soggetto terzo all’organizzazione aziendale quale un’agenzia investigativa.
Nel caso di specie, un lavoratore veniva licenziato poiché gli veniva contestato di essersi ripetutamente allontanato dal luogo di lavoro, durante l’orario lavorativo, per missioni estranee alla sua attività lavorativa (che per contratto godeva di flessibilità in relazione all’orario e al luogo di lavoro dal quale eseguire la prestazione). Ciò era emerso in occasioni di investigazioni condotte nell’ambito di una più ampia indagine avente ad oggetto la violazione dei permessi ai sensi dell’art. 33 delle Legge n. 104/92 da parte di una collega, con la quale il ricorrente era stato ripreso più volte.
Mentre il controllo commissionato nei confronti della lavoratrice risultava lecito, quello posto in essere nei confronti del lavoratore si sottraeva alla sfera di competenza dell’agenzia investigativa.
Secondo la Suprema Corte, infatti, il controllo esterno deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore che, però non siano riconducibili al solo inadempimento dell’obbligazione contrattuale derivante dal rapporto di lavoro. In altre parole, le agenzie investigative per operare lecitamente non devono sconfinare nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria. Tale verifica, infatti, è riservata ex lege direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori e può essere effettuata anche mediante l’utilizzo di impianti audiovisivi e altri strumenti di controllo.
Al riguardo, è opportuno ricordare però che anche le verifiche sull’attività lavorativa vera e propria, affidate alla vigilanza interna, hanno dei limiti di liceità.
In tema, la norma primaria è, come noto, l’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori (L. 300/1970). Ai sensi di tale disposizione, le informazioni raccolte per il tramite di controlli sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro - compresi quindi quelli disciplinari – ma affinché siano leciti e legittimi devono essere rispettati determinati criteri e “procedure di garanzia”.
Deve essere fornita adeguata informazione al lavoratore circa le modalità di svolgimento dei controlli posti in essere e, in caso di utilizzo di impianti audiovisivi o altri strumenti di controllo, devono essere fornite informazioni circa le modalità d’uso degli strumenti stessi e di effettuazione dei controlli.
A ciò, deve aggiungersi, come espressamente indicato dall’ultimo comma dell’articolo 4, che affinché le informazioni raccolte siano utilizzabili per tutti i fini connessi al rapporto di lavoro, devono essere rispettate le disposizioni di cui alla normativa in materia di protezione dei dati personali – attualmente rappresentata dal Regolamento (UE) 2016/679 e dal D.Lgs. 101/2018.
Questo permette infatti alla società, datore di lavoro e titolare del trattamento ai sensi della normativa in materia di protezione dei dati personali, non solo di utilizzare le informazioni raccolte ma anche di non incorrere nelle pesanti sanzioni perviste dal GDPR in caso di trattamenti illeciti di dati personali.
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La controversa comunicazione per iscritto del licenziamento non può essere provata in via testimoniale, secondo la Cassazione n. 26532/2022. Di conseguenza, il licenziamento risulta nullo per difetto della forma prevista ex lege
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 26532 del 8 settembre 2022, afferma che il potere attribuito al giudice del lavoro di ammettere d’ufficio ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal Codice Civile, non può riguardare anche il requisito di forma scritta previsto ad substantiam per la lettera di licenziamento. Non è consentita, infatti, la prova testimoniale di un contratto o di un atto unilaterale di cui la legge preveda la forma scritta a pena di nullità. Per la sentenza, fa eccezione a detta regola generale solo l’ipotesi prevista dall’art. 2724 n. 3 c.c., riguardante il caso in cui il documento sia andato perduto senza colpa. Secondo i Giudici di legittimità, questo comporta, dunque, un divieto di testimonianza che – attenendo a norma di ordine pubblico – ne comporta l’inammissibilità rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio.
Al riguardo, prima di esaminare nel dettaglio la sentenza in commento e vedere come la stessa si colloca nel panorama giurisprudenziale di riferimento, appare utile soffermarsi brevemente sulle disposizioni normative applicabili al caso di cui si discute.
In deroga al principio generale della libertà di forma, l’ordinamento impone al datore di lavoro una serie di obblighi di tipo formale-procedurale e sostanziale. Come è noto, il licenziamento deve essere comunicato per iscritto e la comunicazione deve contenere la specificazione dei relativi motivi. Ciò è prescritto dall’art. 2 della Legge n. 604/1966, come modificata nel 1990 e dalla c.d. Legge Fornero. La normativa invece non richiede che si utilizzino forme sacramentali, purché la volontà risulti comunque chiara ed univoca.
Pertanto, per la comunicazione del licenziamento è richiesta la forma scritta ad substantiam e trattandosi di atto unilaterale recettizio per produrre effetti deve pervenire al lavoratore (art. 1334 cod. civ.), presumendosi la conoscenza realizzata al momento della consegna all’indirizzo del destinatario, salvo la prova di una incolpevole impossibilità di effettiva conoscenza (art. 1335 cod. civ.).
La comunicazione del licenziamento può avvenire altresì con la consegna a mano all’interno del luogo di lavoro, ritenendosi la stessa effettuata anche a fronte del rifiuto del lavoratore di riceverla. A tal riguardo, secondo la Corte di Cassazione “In tema di consegna dell’atto di licenziamento nell’ambito del luogo di lavoro, il rifiuto del destinatario di riceverlo non esclude che la comunicazione debba ritenersi regolarmente avvenuta, trattandosi di un atto unilaterale recettizio che non sfugge al principio generale per cui il rifiuto della prestazione da parte del destinatario non può risolversi a danno dell’obbligato ed alla regola della presunzione di conoscenza dell’atto desumibile dall’art. 1335 c.c.” (Cass. n. 21017/2012).
Ai sensi dell’art. 2725 cod. civ., rubricato “Atti per i quali è richiesta la prova per iscritto o la forma scritta”, quando, secondo la legge o la volontà delle parti, un contratto deve essere provato per iscritto, la prova per testimoni è ammessa soltanto nel caso indicato dal n. 3 dell’art. 2724 cod. civ..
La stessa regola si applica nei casi in cui la forma scritta è richiesta sotto pena di nullità.
Secondo l’art. 2724, n. 3, cod. civ., la prova per testimoni è ammessa in ogni caso “quando il contraente ha senza sua colpa perduto il documento che gli forniva la prova”.
In tale contesto, si colloca poi l’art. 421 comma 2, prima parte, secondo il quale il Giudice del lavoro “Può altresì disporre d’ufficio in qualsiasi momento l’ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile”.
La Corte d’Appello di Firenze ha respinto il reclamo proposto dalla società datrice di lavoro avverso la sentenza del Tribunale di Firenze che aveva dichiarato l’inefficacia del licenziamento intimato ad una dipendente in forma orale in data 8 settembre 2017, con ordine di reintegrazione del medesimo nel posto di lavoro e condanna al risarcimento del danno mediante pagamento di un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto, detratto l’aliunde perceptum, ed al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali, oltre accessori;
La Corte territoriale ha confermato la sentenza del Tribunale, che a sua volta aveva sostanzialmente confermato l’ordinanza resa in esito alla fase sommaria, per non avere la società provato, come era suo onere, di avere adempiuto con la forma scritta richiesta ad substantiam, e non essendo ammissibile la prova testimoniale – pur assunta in primo grado – sul punto.
A tal riguardo, il giudice di secondo grado ha osservato in particolare che, in fatto, non era controverso che la lavoratrice, inquadrata come dirigente, fosse stata licenziata in occasione di una riunione tenutasi nei locali aziendali in data 8 settembre 2017, alla presenza dell’amministratore delegato e di due dipendenti, essendo invece controverse sia la forma scritta del recesso datoriale sia la modalità della sua comunicazione.
Applicando i principi espressi nella sentenza della Corte di Cassazione n. 11479/2015, precedente ritenuto particolarmente significativo data la coincidenza dei tratti salienti delle questioni di fatto (licenziamento che il lavoratore impugna come orale, mentre parte datoriale sostiene essere stato intimato per iscritto per avvenuta consegna a mani proprie di una lettera, circostanza da provare per testi), la Corte di Appello ha rilevato che, qualora a monte sia contestato che al momento dell’estromissione il lavoratore abbia ricevuto la consegna di una lettera di licenziamento, tale modalità di comunicazione non può essere oggetto di prova orale perché, altrimenti, la testimonianza conterrebbe inevitabilmente al suo interno la prova orale dell’esistenza scritta di un atto per il quale la forma è richiesta ad substantiam, e che il divieto di prova orale stabilito dall’art. 2725 c.c. su atti di cui la legge prevede la forma scritta a pena di nullità non è superabile con l’esercizio dei poteri istruttori del giudice del lavoro.
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Il criterio selettivo basato sul numero dei dipendenti non è idoneo a legittimare una diversificazione delle conseguenze del licenziamento nullo
In caso di accertamento della nullità del licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto, deve trovare applicazione il regime sanzionatorio speciale previsto dal comma 7 dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, con applicazione della tutela reintegratoria, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro.
La Corte di Cassazione con la sentenza n. 27334 del 16 settembre 2022 , torna ad affrontare l’articolata questione della scelta della tutela, risarcitoria o reintegratoria, da riconoscere al dipendente illegittimamente licenziato al termine del periodo di comporto, ovverosia del lasso di tempo in cui ha diritto alla conservazione del posto di lavoro in costanza di malattia.
Nella vicenda esaminata dai giudici di legittimità, una lavoratrice aveva agito in giudizio nei confronti del proprio datore di lavoro (una azienda con meno di 15 dipendenti) per essere stata licenziata per superamento del periodo di comporto, chiedendo la reintegra nelle mansioni precedentemente svolte nonché il risarcimento del danno subito.
In primo e in secondo grado, i Giudici avevano entrambi accertato la nullità del licenziamento, escludendo dal calcolo dei giorni ai fini del comporto quelli di assenza dovuti ad infortunio sul lavoro, disponendo tuttavia tutele non omogenee.
Il giudice di prime cure, infatti, aveva disposto l’applicazione della tutela reintegratoria, mentre per la Corte d’Appello la tutela per la lavoratrice era solo indennitaria, non potendo trovare applicazione il comma 7 dell’art. 18 della L. 300/1970 applicabile esclusivamente al datore di lavoro con più di quindici dipendenti.
Cassando la decisione della Corte d’Appello, la Corte Suprema ha sancito che il licenziamento per superamento del periodo di comporto ex art. 2110, comma 2, cod. civ., è fattispecie autonoma di licenziamento (estranea al concetto di giustificato motivo di cui all’art. 3 L. 604/66) e la cui violazione comporta la radicale nullità dell’atto espulsivo.
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