Nel decreto Aiuti ter appena approvato, si prevede una stretta sulle disposizioni applicabili ai datori di lavoro con oltre 250 dipendenti che intendano licenziare almeno 50 addetti, in caso di chiusura di sedi o stabilimenti con cessazione definitiva dell’attività.

«La decisione del governo – spiega l’avvocato Vittorio De Luca, managing partner dello studio legale De Luca & Partners – è con ogni probabilità dettata dalle nubi fosche che incombono a livello internazionale e in particolare sul sistema produttivo italiano, in conseguenza della crisi energetica e dell’aumento dei costi delle materie prime»

Nello specifico, viene prolungato a 90 giorni il periodo nel quale il datore di lavoro è tenuto a discutere con le rappresentanze sindacali – alla presenza, tra gli altri del ministero del lavoro – il piano volto a limitare le ricadute occupazionali ed economiche derivanti dalla chiusura.

«Inoltre, qualora venga cessata definitivamente l’attività produttiva o una parte significativa della stessa, le aziende dovranno restituire eventuali sovvenzioni, sussidi o ausili finanziari, percepiti nei 10 anni antecedenti l’avvio della procedura – dice De Luca -. In un momento storico in cui si annuncia una possibile, incombente recessione, diviene sempre più necessario intervenire con una riforma organica in materia di ammortizzatori sociali e politiche attive sul lavoro, per limitare il rischio di una esplosione di licenziamenti».

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 25287 del 24 agosto 2022, si pronuncia sul tema dei controlli a distanza effettuati dal datore di lavoro e, nel ribadire i principi di diritto più volte affermati dalla Suprema Corte, coglie l’occasione per tracciare nuovamente il perimetro entro il quale il datore di lavoro può richiedere l’intervento di un’agenzia investigativa. Per i Giudici di legittimità il datore di lavoro può richiedere l’intervento di un’agenzia investigativa solo nell’ipotesi in cui siano stati perpetrati degli illeciti o vi sia un sospetto che degli illeciti siano in corso di esecuzione

Il fatto affrontato e l’esito dei giudizi di merito

La fattispecie sottoposta al vaglio della Corte di Cassazione riguarda il caso di un dipendente, la cui attività lavorativa era connotata da una certa flessibilità riguardo all’orario e alla sede di svolgimento dell’attività.

Nello specifico, al lavoratore era stato contestato di essersi allontanato dal luogo di lavoro, in orario lavorativo, per compiti estranei al suo inquadramento professionale, essendo stati registrati, mediante controlli effettuati da agenzia investigativa, incontri estranei all’area o sede di lavoro (supermercati e palestre), non connessi all’attività lavorativa, in luoghi distanti anche decine di chilometri dalla sede di lavoro. Per questa ragione in seguito il lavoratore veniva licenziato.

Il dipendente impugnava giudizialmente il licenziamento irrogatogli per l’appunto per essersi allontanato dalla sede di adibizione, in orario lavorativo, per compiti estranei al suo inquadramento professionale.

Il giudice di prime cure e la Corte di Appello di Roma ritenevano legittimi i controlli effettuati mediante agenzia investigativa – avuto riguardo alla posizione del lavoratore, dipendente di una banca, nell’ambito di un rapporto richiedente un più rigoroso rispetto dell’obbligo di fedeltà e dei correlati canoni di diligenza e correttezza, nonché in relazione alla circostanza che le investigazioni che avevano interessato il lavoratore erano sorte nell’ambito della più ampia indagine avente ad oggetto la violazione dei permessi ai sensi dell’art. 33 delle Legge n. 104/92 da parte di un collega, con la quale il ricorrente era stato ripreso più volte.

La Corte territoriale riteneva infondati, inoltre, i rilievi attinenti al mancato rispetto dell’obbligo di consegna della documentazione richiesta dal lavoratore e all’intempestività della contestazione dell’addebito.

Il ricorso in Cassazione

Il lavoratore impugnava la decisione, ricorrendo per Cassazione, sulla base di quattro motivi di doglianza. Per quel che ci interessa, in questa sede ci soffermiamo sui primi tre motivi.

Precisamente, con il primo motivo il lavoratore ha dedotto, ex art. 360 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 3 e 4 della Legge n. 300/1970 (“Statuo dei lavoratori”) in relazione al controllo della prestazione lavorativa mediante agenzia investigativa esterna, osservando che detto controllo deve limitarsi agli atti illeciti non riconducibili al mero inadempimento dell’obbligazione da parte del lavoratore, non potendo sconfinare nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria, riservata dall’art. 3 dello Statuto dei lavoratori al controllo diretto del datore di lavoro e dei suoi collaboratori.

Con il secondo motivo, il ricorrente ha dedotto omesso esame di un fatto decisivo in relazione al controllo illegittimo della prestazione lavorativa mediante agenzia investigativa esterna, nonché in merito alla condizione lavorativa, avendo la Corte d’appello omesso di considerare che gli informatori di parte datoriale avevano ricevuto l’incarico di verificare la prestazione lavorativa ed avevano controllato il lavoratore ben oltre il normale orario di lavoro, verificando analiticamente le modalità di esecuzione della prestazione lavorativa.

Con il terzo motivo il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 24 Cost. e 7 Legge n. 300/70, evidenziando la violazione del diritto di difesa del lavoratore e il mancato rispetto delle garanzie imposte dallo Statuto dei lavoratori, avendo la Corte d’appello omesso di ammettere la produzione della documentazione richiesta dal ricorrente, consistente nel fascicolo personale, nelle attestazioni annuali di valutazione di profitto, nelle schede di presenza da settembre 2015 a luglio 2016, nel mandato sottoscritto con l’agenzia investigativa.

I principi giuridici richiamati dalla Corte di Cassazione

La Cassazione ricorda, preliminarmente, la portata degli artt. 2 e 3 della Legge n. 300/1970, i quali delimitano, a tutela della libertà e dignità del lavoratore, in coerenza con disposizioni e principi costituzionali, la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a difesa dei propri interessi, per scopi di tutela del patrimonio aziendale (art. 2) e di vigilanza dell’attività lavorativa (art. 3).

A tal riguardo, i Giudici di legittimità rilevano che è stato più volte affermato dalla Suprema Corte che le norme sopra citate non precludono il potere dell’imprenditore di ricorrere alla collaborazione di soggetti esterni, come nel caso di specie un’agenzia investigativa, ancorché il controllo non possa riguardare, in nessun caso, né l’adempimento, né l’inadempimento dell’obbligazione contrattuale del lavoratore di prestare la propria opera, essendo l’inadempimento stesso riconducibile, come l’adempimento, all’attività lavorativa, che è sottratta a tale vigilanza (tra le tante Cassazione n. 15094 del 11 giugno 2018).

Il controllo esterno, quindi, deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell’obbligazione (in questi termini, si veda Cassazione n. 9167 del 7 giugno 2003).

La Suprema Corte spiega che tale principio è stato costantemente ribadito, affermandosi che le agenzie investigative per operare lecitamente non devono sconfinare nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria, riservata, dall’art. 3 dello Statuto dei lavoratori, direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori.

In quest’ottica, pertanto, resta giustificato l’intervento delle agenzie investigative unicamente per l’avvenuta perpetrazione di illeciti e l’esigenza di verificarne il contenuto, anche laddove vi sia un sospetto o la mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione (Cass. n. 3590 del 14 febbraio 2011).

In questi termini si è espressa chiaramente Cassazione n. 15867 del 26 giugno 2017, secondo la quale “se è precluso al datore di lavoro controllare e far controllare l’esecuzione della prestazione lavorativa, il principio non trova applicazione nelle ipotesi di anche solo eventuale realizzazione da parte dei lavoratori di comportamenti non consentiti esulanti dalla normale attività lavorativa. Il controllo, in sostanza, è giustificato non solo per l’avvenuta perpetrazione di illeciti e l’esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione (v. Cass. sez. lav. 14/2/2011 n. 3590: “Le disposizioni dell’art. 2 dello statuto dei lavoratori, nel limitare la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a tutela del patrimonio aziendale, non precludono a quest’ultimo di ricorrere ad agenzie investigative – purché queste non sconfinino nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria, riservata dall’art. 3 dello statuto direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori – restando giustificato l’intervento in questione non solo per l’avvenuta perpetrazione di illeciti e l’esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione”; conforme (Cass. 20/01/2015 n. 848 e Cass. 11/10/2016 n. 20433)“.

Ai controlli al di fuori dei confini indicati ostano sia il principio di buona fede sia il divieto di cui all’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, nella formulazione applicabile ratione temporis, vigendo il divieto di controllo occulto sull’attività lavorativa, anche nel caso di prestazioni lavorative svolte al di fuori dei locali aziendali, ferma restando l’eccezione rappresentata dai casi in cui il ricorso ad investigatori privati sia finalizzato a verificare comportamenti che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti, come, ad esempio, l’esercizio durante l’orario lavorativo di attività retribuita in favore di terzi.

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Il giudice può correttamente valorizzare l’esistenza di soluzioni differenti per casi uguali

Ai fini dell’esclusione della proporzionalità del licenziamento non è sufficiente sostenere che condotte simili commesse da altri dipendenti siano state sanzionate con provvedimenti di natura conservativa. Difatti, il giudice può correttamente valorizzare l’esistenza di soluzioni differenti per casi uguali. 

Tale principio è stato affermato dalla Corte di Cassazione con ordinanza n. 22115/2022 del 13 luglio 2022, con cui è stata confermata la legittimità del licenziamento intimato al lavoratore per aver cagionato, mentre era alla guida dell’autovettura di servizio, un incidente stradale a causa del mal posizionamento della gru retrogabina danneggiando il ponte situato sulla strada provinciale percorsa. 

Nel caso di specie, la società datrice di lavoro aveva valutato la grave inadempienza del dipendente, causativa dell’incidente, oltre che la mancata compilazione del disco orario obbligatorio e del cronotachigrafo, attestativi della velocità del mezzo, e aveva, quindi, comminato il recesso dal rapporto di lavoro senza preavviso. 

La Corte di Appello di Bologna confermava la legittimità del licenziamento, attesa la gravità della condotta fortemente lesiva del vincolo fiduciario, valutando proporzionata la sanzione espulsiva. 

Avvero la decisione il lavoratore proponeva ricorso in Cassazione adducendo che la Corte territoriale non abbia attribuito alcuna rilevanza, ai fini dell’accertamento della legittimità del licenziamento, al diverso trattamento riservato dalla società ad altri dipendenti che avevamo commesso condotte similari a quella del lavoratore. Sul punto, il lavoratore richiamava un precedente orientamento secondo cui “l’idendità delle situazioni può privare il provvedimento espulsivo della sua base giustificativa” (Cass. n. 14252/2015). 

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La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 22115 del 13 luglio 2022, ha affermato che la possibile valorizzazione da parte del giudice di situazioni similari, al fine di una valutazione di irragionevole disparità, non può che trovare presupposto in allegazioni presenti nella causa, tali da consentire una indagine di fatto ed una possibile comparazione.

I fatti di causa

Un lavoratore veniva licenziato a causa di un incidente occorso con l’autovettura di servizio. Nella specie l’autovettura guidata dal lavoratore su cui veniva posizionata la gru retrocabina andava a sbattere, a causa del suo mal posizionamento, contro la trave del ponte situato sulla strada provinciale percorsa.

La società, nel procedere con il suo licenziamento per giusta causa, aveva valutato la grave inadempienza del lavoratore, causativa dell’incidente, oltre che la mancata compilazione del disco orario obbligatorio e del cronotachigrafo, attestativo della velocità del mezzo.

In primo e secondo grado il licenziamento in questione veniva dichiarato legittimo.

Avverso la decisione di merito, il lavoratore ricorreva in cassazione, con un unico motivo di doglianza. Secondo il lavoratore, la Corte d’Appello non aveva considerato la doglianza sollevata con riguardo al diverso trattamento riservato ad altri dipendenti per inadempienze similari alla sua.

A fondamento della sua tesi il ricorrente richiamava i principi espressi dalla Cassazione secondo i quali “seppur ai fini della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento sia irrilevante che un’analoga inadempienza commessa dall’altro dipendente sia stata diversamente valutata dal datore di lavoro, qualora risulti accertato che l’inadempimento del lavoratore sia tale da compromettere irrimediabilmente il rapporto fiduciario, tuttavia l’identità delle situazioni può privare il provvedimento espulsivo della sua base giustificativa” (cfr. Cass. 14251/2015; Cass.n.5546/2010; Cass.n.10550/2013).

Decisione della Corte di Cassazione

Sul punto la Corte di Cassazione adita ha evidenziato che le stesse pronunce richiamate dal ricorrente a fondamento della sua tesi testualmente chiariscono che “È condivisibile l’affermazione che non si possa porre a carico del datore di lavoro l’onere di fornire, per ciascun licenziamento, una motivazione del provvedimento adottato che sia comparata con le altre assunte in fattispecie analoghe (cft. Cass. n. 5546/2010) e tuttavia ove nel corso del giudizio non emergano quelle differenze che giustificano il diverso trattamento dei lavoratori correttamente può essere valorizzata dal giudice l’esistenza di soluzioni differenti per casi uguali al fine di valutare la proporzionalità della sanzione adottata”.

Pertanto, a parere della Corte, l’eventuale disparità deve emergere nel corso del giudizio attraverso elementi significativi e tali da non richiedere una contestuale ricognizione da parte del datore di lavoro diretta a giustificare la diversità dei trattamenti adottati.

Alla luce di questi principi, la Corte ha considerato il motivo così come formulato dal lavoratore manchevole di quelle necessarie indicazioni che avrebbero dovute essere allegate già nel giudizio di merito. Pertanto, la stessa ha rigettato il ricorso presentato dal lavoratore, condannandolo al pagamento delle spese processuali.

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La Corte costituzionale, con sentenza n. 183 depositata il 22 luglio 2022, è intervenuta sul regime di tutele previste in caso di licenziamento illegittimo nelle aziende con meno di 15 dipendenti, invitando il Parlamento a modificare l’art. 9 del D.Lgs. 23/2015.

La questione sollevata

Il Tribunale ordinario di Roma, in funzione del giudice del lavoro, con ordinanza del 26 febbraio 2021, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale in ordine all’art. 9, comma 1, del D.Lgs. 23/2015. La disposizione è censurata limitatamente alle parole “ove il datore di lavoro non raggiunga i requisiti dimensionali di cui all’articolo 18, ottavo e nono comma, della L. n. 300 del 1970, … l’ammontare delle indennità e dell’importo previsti dall’articolo 3, comma 1, … è dimezzato e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità”.

In particolare, il Tribunale, chiamato decidere sul ricorso proposto da una lavoratrice licenziata per giustificato motivo oggettivo da un datore che non raggiungeva la soglia dei 15 dipendenti, ha ritenuto non dimostrata la sussistenza del giustificato motivo. E con riferimento all’indennità spettante alla lavoratrice ha rilevato che essa, dovendo essere individuata “nello stretto varco risultante fra il minimo di tre e il massimo di sei mensilità”, sarebbe inidonea “a soddisfare il test di adeguatezza e a garantire il riconoscimento di un’indennità personalizzata”.

Il Tribunale ha prospettato il contrasto della disposizione in esame con gli artt. 3, primo comma, 4, 35, primo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea. A parere dello stesso, la distinzione delle tutele in base ai requisiti occupazionali del datore di lavoro è fondata “su un elemento che risulta esterno al rapporto di lavoro”. La tutela del diritto al lavoro, che si tradurrebbe nell’imposizione di limiti al potere di recesso del datore di lavoro, potrebbe essere anche affidata a un meccanismo monetario, a condizione che sia garantita la complessiva adeguatezza del risarcimento, prescritta anche dall’art. 24 della Carta sociale europea.

Il Tribunale è dell’avviso che “la previsione di un indennizzo così esiguo”, non superiore alle sei mensilità e senza neppure “l’alternativa della riassunzione”, non attua un adeguato contemperamento degli interessi in conflitto. L’art. 24 della Carta sociale europea, nell’imporre un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione nel caso di licenziamento intimato senza un valido motivo, vieterebbe in linea di principio la predeterminazione di un tetto massimo, che svincola l’indennità dal danno subìto e non presenta un carattere sufficientemente dissuasivo.

Ha anche osservato il Tribunale che “la “funzione compensativa” e “l’efficacia deterrente della tutela indennitaria” sarebbero compromesse (…) dalla previsione di un’indennità “ricompresa in un divario fra tre e sei mensilità”, che rappresenterebbe “una forma pressoché uniforme di tutela” e finirebbe per attribuire rilievo esclusivo al “numero degli occupati”. Si tratterebbe di “criterio trascurabile nell’ambito di quella che è l’attuale economia”, che non consentirebbe alcun adeguamento dell’importo riconosciuto alle peculiarità del caso concreto e, in particolare, alla “gravità della violazione”, al più significativo criterio delle dimensioni dell’impresa, legato anche ai “dati economico finanziari ricavabili dai bilanci”.

La decisione della Corte Costituzionale

La Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile la rimessione del Tribunale di Roma circa l’indennità risarcitoria ex art. 9 del D.Lgs. 23/2015 in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo illegittimo nelle aziende sotto i 15 dipendenti. Tuttavia, ha riconosciuto che l’assetto delineato dal D.Lgs. n. 23/ 2015 è profondamente mutato rispetto a quello analizzato dalle sue più risalenti pronunce.

La reintegrazione, a parere della Consulta, è stata circoscritta entro ipotesi tassative per tutti i datori di lavoro e le dimensioni dell’impresa non assurgono a criterio distintivo tra l’applicazione della più incisiva tutela reale e la concessione del solo ristoro pecuniario.

A parere della Consulta, in un sistema imperniato sulla portata tendenzialmente generale della tutela monetaria, la specificità delle piccole realtà organizzative non può giustificare un sacrificio sproporzionato del diritto del lavoratore di conseguire un congruo ristoro del pregiudizio sofferto. Tant’è che l’esiguo divario tra un minimo di tre e un massimo di sei mensilità “vanifica l’esigenza di adeguarne l’importo alla specificità di ogni singola vicenda, nella prospettiva di un congruo ristoro e di un’efficace deterrenza, che consideri tutti i criteri rilevanti enucleati dalle pronunce di questa Corte e concorra a configurare il licenziamento come extrema ratio”.

Inoltre, la Consulta evidenzia che in un quadro dominato dall’incessante evoluzione della tecnologia e dalla trasformazione dei processi produttivi, al contenuto numero di occupati possono fare riscontro cospicui investimenti in capitali e un consistente volume di affari. Il criterio incentrato sul solo numero degli occupati non risponde all’esigenza di non gravare di costi sproporzionati realtà produttive e organizzative che siano effettivamente inidonee a sostenerli. Continua la Corte, precisando che il limite uniforme e invalicabile di sei mensilità opera in riferimento ad attività tra loro eterogenee, accomunate dal dato del numero dei dipendenti occupati, sprovvisto di per sé di una significativa valenza.

In conclusione, la Corte riconosce “l’effettiva sussistenza del vulnus denunciato dal rimettente (alias il Tribunale di Roma) e sottolinea “la necessità che l’ordinamento si doti di rimedi adeguati per i licenziamenti illegittimi intimati dai datori di lavoro che hanno in comune il dato numerico dei dipendenti”.

Tuttavia, la Corte precisa che a questo “vulnus” non può dare rimedio essa stessa, rientrando “nella prioritaria valutazione del legislatore la scelta dei mezzi più congrui per conseguire un fine costituzionalmente necessario, nel contesto di “una normativa di importanza essenziale” (…), per la sua connessione con i diritti che riguardano la persona del lavoratore, scelta che proietta i suoi effetti sul sistema economico complessivamente inteso”.

Nel concludere, la Corte dichiara di non potersi esimere “dal segnalare che un ulteriore protrarsi dell’inerzia legislativa non sarebbe tollerabile e la indurrebbe, ove nuovamente investita, a provvedere direttamente, nonostante le difficoltà qui descritte (…)”.

Si tratta, in sostanza, di un chiaro invito al legislatore a rivedere l’art. 9 del D.Lgs. 23/2015, in mancanza del quale la Consulta si vedrà costretta ad intervenire.

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