La Corte di Cassazione si pronuncia sul ricorso di un dipendente che aveva impugnato il licenziamento disciplinare per un incidente stradale mentre guidava l’auto aziendale, deducendo una disparità di trattamento con colleghi che, in situazioni simili, non avevano subìto tale sanzione. Dichiarando inammissibile il ricorso, la Corte Suprema ha sottolineato che per una valutazione di irragionevole disparità, la possibile considerazione di situazioni analoghe deve trovare presupposto in allegazioni presenti nella causa, consentendo una comparazione

Il fatto affrontato e l’esito dei giudizi di merito

La fattispecie sottoposta al vaglio della Corte di Cassazione riguarda il caso di un lavoratore che impugnava giudizialmente il licenziamento disciplinare irrogatogli per aver cagionato, mentre era alla guida dell’autovettura aziendale, un incidente stradale danneggiando il ponte situato sulla strada provinciale percorsa.

Precisamente, in tale occasione l’autovettura di servizio guidata dal dipendente, su cui era posizionata la gru retrocabina, andava a sbattere, a causa del mal posizionamento di quest’ultima, contro la trave del ponte situato sulla strada provinciale percorsa.

La società datrice di lavoro valutava la grave inadempienza del dipendente, causativa dell’incidente, oltre che la mancata compilazione del disco orario obbligatorio e del cronotachigrafo, attestante la velocità del mezzo, e quindi recedeva dal rapporto di lavoro senza preavviso.

La Corte di Appello di Bologna, con la sentenza n. 469/2019, rigettava il reclamo proposto dal lavoratore avverso la decisione con cui il Tribunale di Ferrara aveva dichiarato legittimo il licenziamento a lui intimato dalla società datrice di lavoro, a causa dell’incidente occorso.

Nello specifico, per quel che in questa sede rileva, la Corte territoriale riteneva legittimo il licenziamento, attesa la gravità della condotta fortemente lesiva del vincolo fiduciario, anche valutando proporzionata la sanzione espulsiva.

Il ricorso in cassazione

Il lavoratore impugnava la decisione, ricorrendo per Cassazione, con unico motivo di doglianza, deducendo una disparità di trattamento con altri suoi colleghi che in passato avevano tenute condotte simili senza essere destinatari di una sanzione espulsiva.

A tal riguardo, il ricorrente evidenziava come la Corte territoriale non avesse considerato in alcun modo l’eccezione sollevata con riguardo al diverso trattamento riservato ad altri dipendenti per inadempienze similari a quelle del ricorrente.

In particolare, il lavoratore richiamava quei principi della Cassazione in virtù dei quali “seppur ai fini della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento sia irrilevante che un’analoga inadempienza commessa da altro dipendente sia stata diversamente valutata dal datore di lavoro, qualora risulti accertato che l’inadempimento del lavoratore sia tale da compromettere irrimediabilmente il rapporto fiduciario, tuttavia l’identità delle situazioni può privare il provvedimento espulsivo della sua base giustificativa” (tra le quali si ricordano Cass. n. 14251/2015; Cass. n. 5546/2010; Cass. n. 10550/2013).

Tuttavia, al fine di comprendere meglio il ragionamento argomentativo e la decisione della Corte di Cassazione di cui si dirà infra, è opportuno richiamare nella sua interezza e completezza il principio di diritto richiamato dal lavoratore ricorrente.

Infatti, secondo Cass. 14251/2015, rileva, in questo senso, il consolidato orientamento della Suprema Corte secondo cui ai fini della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento, qualora risulti accertato che l’inadempimento del lavoratore sia tale da compromettere irrimediabilmente il rapporto fiduciario, è irrilevante che analoga inadempienza, commessa da altro dipendente, sia stata diversamente valutata dal datore di lavoro.

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La Cassazione, con sentenza n. 19321, pubblicata il 15 giugno 2022, ha ritenuto legittimo il licenziamento per giustificato motivo soggettivo intimato ad un dipendente che ha prestato attività lavorativa durante il periodo di congedo per “gravi motivi familiari”.

Nel caso oggetto della pronuncia della Cassazione n. 19321/2022, il lavoratore in questione, in data 15maggio 2017, ha chiesto di usufruire dell’aspettativa per il periodo dal 1° giugno 2017 al 30 settembre2017, allegando, a fronte della richiesta della società di specificare i motivi della richiesta, il certificato medico di gravidanza della moglie, che indicava la presenza di minacce di aborto e prescriveva 30giorni di cure e riposo domiciliare.

La società, con nota del 1° giugno 2017, ha accolto la richiesta, qualificandola come aspettativa per “gravi motivi familiari” ai sensi dell’art. 157 (già art. 151)  del contratto collettivo nazionale di riferimento e dell’art. 4, comma 2, della legge n. 53 del 2000.

Durante il periodo di aspettativa, la società ha condotto alcune investigazioni, nel corso delle quali è emerso che il dipendente ha svolto attività di pulizia in favore della ditta di cui egli stesso o la moglie erano titolari.

Il 1° agosto 2017 la società ha dunque avviato un procedimento disciplinare, che si è concluso con il licenziamento per giusta causa intimato al dipendente il 25 agosto 2017.

La Corte d’Appello ha ritenuto sussistente il giustificato motivo soggettivo di licenziamento in quanto il lavoratore ha violato l’espresso divieto, posto dall’art. 4, comma 2, legge n. 53 del 2000 e dall’art. 157del contratto collettivo, di svolgere attività lavorativa durante il periodo di congedo per gravi motivi familiari.

Il dipendente ha impugnato il provvedimento con  ricorso per  Cassazione, sostenendo che l’aspettativa richiesta (i) era un’aspettativa per “motivi personali” e non per “gravi motivi familiari”, e che,  pertanto, non  trovavano applicazione le  disposizioni normative sopra richiamate ed  i conseguenti divieti; (ii) non aveva comportato benefici economici per il lavoratore, dal momento che l’attività lavorativa era stata prestata presso l’azienda propria e della moglie; (iii) non aveva causato alcun danno alla società, che si trovava in regime di contratti di solidarietà difensiva e, pertanto, non aveva avuto la necessità di sostituire il dipendente.

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La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 13063 del 26 aprile 2022, ha esteso l’ambito di applicazione della tutela reintegratoria all’ipotesi in cui il fatto contestato risulti sussistente e non sia contemplato tra le infrazioni punite dal contratto collettivo di settore con una sanzione conservativa.

La Suprema Corte estende così l’ambito del giudizio di proporzionalità, da parte del giudice, a distanza di due sole settimane dalla pronuncia della sentenza n. 1165 dell’11 aprile 2022. Sentenza in cui era stata affermata l’applicabilità della reintegrazione anche nel caso in cui la condotta addebitata al lavoratore, pur non essendo espressamente contemplata nell’elenco delle infrazioni punite dal contratto collettivo con una sanzione conservativa, possa essere fatta rientrare attraverso l’interpretazione, da parte del giudice del merito, delle clausole generali o elastiche presenti nella contrattazione collettiva di riferimento.

In tal modo, il giudice si riappropria di un ampio spazio di valutazione circa la proporzionalità tra la condotta contestata e il licenziamento intimato, alla stregua di ciò che avveniva prima della riforma Fornero, quando la reintegrazione era applicabile in tutti i casi di mancanza di proporzionalità tra il fatto contestato e il recesso.

In sostanza, viene riconosciuto al giudice di merito il potere di valutare – attraverso un giudizio comparativo- la gravità dell’addebito contestato al lavoratore rispetto alla gravità che, sempre secondo la sua valutazione, debba essere riconosciuta ad una qualsiasi delle altre infrazioni punite con sanzione conservativa dal contratto collettivo.

La conseguenza è che, in questo modo, viene reintrodotto un nuovo profilo di incertezza che riguarda sia l’esito dell’interpretazione delle disposizioni della contrattazione collettiva, spesso generiche e imprecise, sia l’esito del giudizio di proporzionalità tra la condotta contestata al lavoratore e l’intero elenco delle infrazioni previste dalla contrattazione collettiva di riferimento.

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La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 16975 del 25 maggio 2022, è intervenuta in tema di unicità del centro di imputazione dei rapporti di lavoro, delineandone gli indici sintomatici.

I fatti di causa

Con sentenza resa in sede di reclamo ai sensi della Legge n. 92/2012, la Corte territoriale aveva ritenuto insussistente la ragione addotta a fondamento del licenziamento per giustificato motivo oggettivo comminato ad una dipendente (ossia, l’asserita dismissione della gestione dell’attività alberghiera), rinvenendo, altresì, ai fini dell’individuazione del regime di tutela applicabile, la sussistenza di un unico centro di imputazione di interessi tra il formale datore di lavoro e altre società consociate.

La Corte d’appello aveva accertato, da un lato, che il contratto di appalto per la fornitura di alcuni servizi stipulato tra due società fosse illecito avendo le aziende la medesima sede legale, il medesimo oggetto sociale nonché il medesimo proprietario, e, dall’altro, che gli elementi di collegamento societario avessero travalicato, per caratteristiche e finalità, le connotazioni di una mera sinergia fra consociate per sconfinare in una compenetrazione di mezzi e di attività, sintomatica di una sostanziale unicità soggettiva.

Conseguentemente, dopo aver effettuato una sommatoria di tutti i lavoratori occupati nelle società consociate, la Corte territoriale, considerata la manifesta insussistenza della ragione posta a base del licenziamento, aveva condannato in solido le società a reintegrare in servizio la dipendente e a corrisponderle un’indennità risarcitoria pari a 12 mensilità di retribuzione globale di fatto ai sensi dell’art. 18, commi 4 e 7, della Legge n. 300 del 1970.

Avverso la sentenza della Corte territoriale, proponeva ricorso in cassazione una delle società consociate, eccependo, tra l’altro, che tra esse non si configurava un’ipotesi di collegamento e controllo societario ai sensi dell’art. 2359 cod. civ. né un’ipotesi di codatorialità, avendo la dipendente prestato attività solo ed esclusivamente a favore di una sola società.

La decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte, nel rigettare il ricorso promosso dalla società, ha preliminarmente statuito come l’accertamento relativo al carattere fittizio dell’appalto di servizi (rivelatosi un appalto di mera manodopera) e la sussistenza di un unico centro di imputazione di interessi fosse stato condotto dalla Corte d’Appello dopo un accurato esame dei fatti di causa, senza quindi rinvenire nel percorso logico giuridico condotto dalla stessa alcun vizio eccepito dalla società ricorrente.

Richiamando il proprio consolidato orientamento giurisprudenziale, la Corte di Cassazione ha, quindi, delineato i criteri e gli indici sintomatici in tema di unicità del centro di imputazione, ossia:

  1. l’unicità della struttura organizzativa e produttiva;
  2. l’integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo ed il correlativo interesse comune;
  3. il coordinamento tecnico ed amministrativo-finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune;
  4. l’utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese, nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori.

I giudici di legittimità, nel definire la vicenda coerentemente agli esiti di merito, hanno anche chiarito che il collegamento economico-funzionale tra imprese gestite da società di un medesimo gruppo non comporta necessariamente il venire meno “dell‘autonomia delle singole società dotate di personalità giuridica distinta, alle quali continuano a fare capo i rapporti di lavoro del personale in servizio presso le distinte e rispettive imprese“. Tuttavia, gli obblighi derivanti da un rapporto di lavoro possono certamente essere estesi alle singole società, individuando un unitario centro di imputazione qualora, come nel caso di specie, sia provato “in modo adeguato, attraverso l’esame delle singole imprese, da parte del giudice del merito” che vi sia una simulazione o una preordinazione in frode alla legge del frazionamento di un’unica attività.

Inoltre, la Corte di Cassazione in merito alla censura relativa al mancato accertamento della eccessiva onerosità della reintegrazione nel posto di lavoro, nonostante l’accertata manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, ha evidenziato come la Consulta abbia dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 3 Cost., l’art. 18, comma 7, secondo periodo, della Legge n. 300/1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, lett. b ), della Legge Fornero laddove prevedeva che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, «può altresì applicare» – invece che «applica altresì» – la disciplina di cui al medesimo art. 18, quarto comma (cfr sentenza n. 597/2021). La Cassazione ha anche sottolineato che le sentenze della Corte costituzionale producono l’annullamento delle norme di legge dichiarate incostituzionali, con effetti erga omnes, non solo ex nunc, ma anche ex tunc, con il solo limite dei cc.dd. rapporti esauriti. E non ricorrendo tale ultima evenienza nel caso di specie, a parere della Corte di Cassazione, si deve ritenere correttamente applicata la sanzione reintegratoria (in base al combinato disposto dei commi 7 e 4 dell’art. 18, della Legge n. 300/1970) a fronte dell’accertata manifesta insussistenza della ragione addotta per il licenziamento (ossia la dismissione della gestione dell’attività alberghiera).

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Con la recentissima sentenza n. 181 pubblicata il 27 aprile 2022, resa nell’ambito del giudizio di opposizione del c.d. Rito Fornero, il Tribunale di Vicenza si è espresso in merito alla computabilità (o meno), nel periodo di comporto, delle assenze per malattia riconducibili all’invalidità del dipendente.  

La vicenda trae origine dal licenziamento intimato ad una lavoratrice invalida per essersi assentata per malattia per un numero di giorni superiore a 365 nell’ultimo triennio lavorativo, così superando il periodo di comporto disciplinato dal CCNL Agidae socio-assistenziale applicabile al rapporto di lavoro.  

La lavoratrice, impugnando il licenziamento, ne eccepiva la natura discriminatoria per ragioni di handicap, domandando al Giudice, in via principale, di dichiararne la nullità.   

A sostegno della propria tesi, la dipendente richiamava la normativa comunitaria in materia di discriminazione diretta e indiretta (Direttiva UE 2000/78/CE) nonché le sentenze rese sul tema dalla Corte di Giustizia Europea, sostenendo che il datore di lavoro, essendo tenuto ad adottare gli “accomodamenti ragionevoli” al fine di “garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri dipendenti”, avrebbe dovuto escludere dal computo del periodo di comporto i giorni di assenza riconducibili alla patologia “endometriosi”, per la quale la dipendente era stata dichiarata invalida, con conseguente mancato superamento del periodo di comporto.  

Il Tribunale, confermando l’ordinanza resa nella fase sommaria, rigettava, sulla base di plurime argomentazioni, l’opposizione promossa dalla dipendente.  

Se – ha precisato il Giudice dell’opposizione – è innegabile che la Corte di Giustizia Europea abbia individuato una discriminazione indiretta in danno del disabile nella modalità di computo delle assenze per malattia, in quanto il dipendente disabile corre un rischio maggiore di accumulare giorni di malattia, è altrettanto vero che le conclusioni cui è giunta la Corte Europea non possono essere estese ad ogni caso di licenziamento del disabile.  

Ciò in quanto spetta sempre al Giudice nazionale, da un lato, accertare se il datore di lavoro abbia o meno posto in essere soluzioni ragionevoli al fine di garantire il rispetto della parità di trattamento e, dall’altro, verificare la legittimità della finalità perseguita dalla normativa interna.  

Quanto al primo aspetto, nel corso del giudizio, il Giudice ha accertato che il datore di lavoro avesse posto in essere numerosi “accomodamenti ragionevoli” a favore della lavoratrice, tra cui la sottoposizione a visite mediche che hanno accertato l’idoneità della dipendente alla mansione specifica.  

Con riferimento al secondo aspetto, il Tribunale si è espresso in merito alla necessità di soppesare gli interessi giuridicamente rilevanti delle parti, ossia l’interesse del disabile al mantenimento di un lavoro confacente con il suo stato fisico e psichico e quello del datore ad ottenere una prestazione lavorativa utile per l’impresa, tenuto altresì conto che l’art. 23 Cost. vieta prestazioni assistenziali, anche a carico del datore di lavoro, se non previste per legge… 

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