La Corte di Cassazione, con sentenza n. 1887 del 21 gennaio 2022, ha affermato che il lavoratore può liberamente disporre del diritto di impugnare la risoluzione del rapporto di lavoro facendone oggetto di rinunce o transazioni.
I fatti di causa traggono origine dalla decisione del Tribunale territorialmente competente, confermata in grado d’appello, che dichiarava inammissibile la domanda del lavoratore volta all’accertamento della nullità del termine apposto ai contratti di lavoro sul presupposto che tra le parti era intervenuta una transazione inerente ad essi.
Avverso la sentenza dei giudici di merito, il lavoratore ricorreva in cassazione eccependo la nullità dell’accordo transattivo sottoscritto, da un lato, per la mancanza della res litigiosa e, dall’altro, perché la transazione aveva avuto ad oggetto diritti sottratti alla disponibilità delle parti.
La Corte di Cassazione ha confermato la decisione dei giudici di merito rilevando che ai fini della sussistenza della res litigiosa, elemento necessario per la validità della transazione, non occorre che le rispettive tesi delle parti abbiano assunto la determinatezza propria della pretesa, essendo sufficiente l’esistenza di un dissenso potenziale, anche se ancora da definire nei più precisi termini di una lite.
Inoltre, la Corte di Cassazione ha affermato che il diritto di impugnare la risoluzione del rapporto di lavoro e, quindi, l’interesse del lavoratore alla prosecuzione dello stesso rientra nell’area della libera disponibilità dello stesso.
Ne consegue, a parere della Corte di Cassazione, che le transazioni intervenute su tale tema sono sottratte alla disciplina dell’art. 2113 cod. civ., che considera invalidi e, perciò, impugnabili i soli atti abdicativi di diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge o dei contratti collettivi.
Su tali presupposti, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso proposto dal lavoratore, ritenendo valida la conciliazione intervenuta inter partes sull’assunto che l’ordinamento riconosce al lavoratore il diritto potestativo di disporre negozialmente e definitivamente del posto di lavoro stesso in base all’art. 2118 cod. civ.
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La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 7400 del 7 marzo 2022, ha statuito che il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, intimato per le stesse ragioni già addotte a fondamento del licenziamento collettivo precedentemente avviato, è nullo in quanto realizza uno schema fraudolento.
Un dipendente, licenziato per giustificato motivo oggettivo, impugnava il provvedimento espulsivo dinanzi il Tribunale di Roma perché fondato sugli stessi motivi che avevano originato in precedenza un licenziamento collettivo presso la medesima società.
Il Tribunale adito dichiarava nullo il licenziamento, non avendo la società rispettato gli adempimenti previsti dalla L. n. 223 del 1991, in quanto fondato sulle medesime ragioni del collettivo. In particolare, la società non aveva coinvolto le organizzazioni sindacali né aveva attuato la dovuta comparazione tra la posizione del dipendente licenziato e quella degli altri dipendenti oggetto del licenziamento collettivo.
La società impugnava la sentenza dinanzi la Corte di Appello di Roma che confermava la pronuncia di primo grado, sottolineando, innanzitutto, che le ragioni poste a fondamento delle due tipologie di licenziamento erano sostanzialmente sovrapponibili. Inoltre, la Corte d’Appello osservava che (i) il licenziamento collettivo si era concluso senza esuberi per effetto della totale adesione dei destinatari alla proposta di esodo volontario incentivato e (ii) nell’anno trascorso tra la cessazione della procedura collettiva e il licenziamento impugnato nessun cambiamento era intervenuto presso la società.
Infine, per i giudici d’appello, proprio in assenza di ragioni sopravvenute che avrebbero potuto giustificare il licenziamento individuale, la mancata inclusione del dipendente nella procedura collettiva gli aveva precluso la possibilità di avvalersi del raffronto della sua posizione con quelle dei dipendenti inseriti nel collettivo.
La società datrice di lavoro, dunque, impugnava la sentenza della Corte d’Appello in cassazione.
Investita della questione, la Corte di Cassazione conferma le pronunce dei giudici di merito e, richiamando alcuni precedenti giurisprudenziali, osserva come non sia consentito al datore di lavoro tornare sulle scelte compiute in relazione al numero, alla collocazione aziendale ed ai profili professionali dei lavoratori in esubero, nonché ai criteri di scelta dei singoli lavoratori da estromettere, attraverso ulteriori e successivi licenziamenti individuali la cui legittimità è subordinata alla individuazione di situazioni di fatto diverse da quelle poste a base del licenziamento collettivo (cfr Cass. 16 gennaio 2020, n. 808).
A tal proposito, i Giudici di legittimità ricordano che «realizza uno schema fraudolento ai sensi dell’articolo 1344 del codice civile il licenziamento per giustificato motivo oggettivo disposto per gli stessi motivi già addotti a fondamento di un precedente licenziamento collettivo». Nello specifico, prosegue la Corte, la peculiarità del contratto in frode alla legge consiste nel fatto che «le parti raggiungono, attraverso accordi contrattuali, il medesimo risultato vietato dalla legge. Nonostante il mezzo impiegato sia lecito, è illecito invece il risultato che, attraverso l’abuso del mezzo e la distorsione della sua funzione ordinaria, si vuole in concreto realizzare», come nel caso di specie.
La Corte di Cassazione respinge anche la censura della società per cui non era consentito ai Giudici aditi entrare nel merito delle scelte tecniche organizzative e produttive dell’imprenditore. Al riguardo, per la Corte di Cassazione, la Corte d’appello si è limitata a rilevare la sovrapponibilità delle ragioni poste a fondamento del licenziamento collettivo e di quelle addotte per il licenziamento individuale impugnato, traendo da tale accertamento l’illegittimità del provvedimento espulsivo.
Questa conclusione, secondo la Corte, è sufficiente a dichiarare il licenziamento illegittimo, proprio perché la gestione procedimentalizzata del licenziamento collettivo ha lo scopo di realizzare l’effettivo coinvolgimento del sindacato nelle scelte organizzative dell’impresa vincolando l’imprenditore al loro rispetto anche dopo la chiusura della procedura. Per tale ragione, il datore di lavoro – in un momento successivo alla procedura collettiva – non può riconsiderare quanto comunicato in sede sindacale in relazione al numero, alla collocazione aziendale, ai profili professionali dei lavoratori in esubero nonché ai criteri di scelta dei dipendenti.
In definitiva, a parere della Corte di Cassazione, il licenziamento individuale deve essere fondato su situazioni di fatto diverse da quelle poste a base del licenziamento collettivo.
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Il licenziamento disciplinare e la nozione di insussistenza del fatto contestato alla luce della evoluzione giurisprudenziale, a seguito della novella dell’art. 18 Stat. Lav, ad opera della “Legge Fornero”, e dell’entrata in vigore del “Jobs Act”. Secondo gli ultimi approdi giurisprudenziali, la nozione di insussistenza del fatto contestato comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare o quanto al profilo oggettivo ovvero quanto al profilo soggettivo della imputabilità della condotta al lavoratore
Come è noto, l’art. 1, c. 42, della legge 92/2012 ha novellato l’art. 18 Stat. Lav. in un’ottica di graduazione delle sanzioni conseguenti al giudizio di illegittimità del licenziamento, al fine di rendere la reintegrazione nel posto di lavoro quale extrema ratio.
La tutela reale, oltre al licenziamento nullo, è prevista solo nei casi di ingiustificatezza qualificata indicati nei commi quarto e settimo dell’art. 18 Stat. Lav.
Prima dell’entrata in vigore della riforma effettuata dalla Legge Fornero, ai sensi dell’art. 18 dello Stat. Lav., in assenza di giusta causa o giustificato motivo soggettivo, la reintegrazione nel posto di lavoro, con una tutela risarcitoria variabile, era l’unica tutela di cui godeva il lavoratore e, per stabilire l’illegittimità o meno del licenziamento, il giudice era chiamato ad effettuare un giudizio di proporzionalità tra l’illecito disciplinare posto in essere dal dipendente e la sanzione comminata.
In buona sostanza, prima dell’avvento della riforma Fornero, un licenziamento poteva considerarsi legittimo a condizione che la risoluzione del rapporto di lavoro fosse una conseguenza proporzionata all’inadempimento del lavoratore.
Con la novella dell’art. 18 Stat. Lav. viene introdotto il concetto di insussistenza del fatto, sia per quel che riguarda il licenziamento disciplinare, ove viene fatto riferimento al concetto di” insussistenza del fatto contestato“, sia con riferimento al licenziamento per giustificato motivo oggettivo rispetto al quale si parla di “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento“.
Il comma quarto contempla l’insussistenza del fatto contestato e il fatto rientrante tra le condotte punibili con una sanzione conservativa indicata dai contratti collettivi o dal codice disciplinare.
Il comma settimo prende in considerazione la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
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La Corte di Cassazione, con sentenza n. 3724/2022, depositata il 2 febbraio, ha dichiarato che integra il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che prospetta la perdita del lavoro per costringere i dipendenti ad accettare condizioni economiche non adeguate alle prestazioni dagli stessi effettuate.
I fatti di causa
Due dipendenti agivano nei confronti del proprio datore di lavoro, operante nel settore alberghiero, affinché venisse accertata la configurabilità del delitto di estorsione, per essere stati costretti ad accettare trattamenti retributivi sfavorevoli, pena il licenziamento.
I giudici di merito (Tribulane di Sulmona prima e Corte dall’Appello dell’Aquila dopo) respingevano il ricorso promosso dai due dipendenti escludendo la configurabilità del reato di estorsione per mancata sussistenza dell’elemento della minaccia.
Dalla lettura della sentenza di secondo grado emerge che ai dipendenti veniva richiesto di lavorare oltre il loro normale orario di lavoro, in maniera pressoché ininterrotta (anche per venti ore al giorno), espletando anche altre mansioni rispetto a quelle contrattualmente pattuite nonché subendo continue vessazioni da parte del datore di lavoro stesso. Tuttavia, a parere dei giudici, i due dipendenti, da un lato, avevano la libertà di scegliere di non proseguire il rapporto di lavoro o di rispettare le (ingiuste) condizioni di lavoro e, dall’altro, non versavano in una condizione di debolezza, data la particolarità del contesto economico e, specificamente, del settore alberghiero, nonché dell’agiato ambiente familiare di provenienza.
I dipendenti, dunque, impugnavano la sentenza emessa dai giudici di merito con ricorso in Cassazione.
La decisione della Cassazione
La Corte di Cassazione, nell’accogliere il ricorso dei due dipendenti, ha affermato che la sentenza impugnata non considera che la nozione di minaccia implica che sia rimessa alla vittima del reato la scelta della condotta da adottare, nella consapevolezza che ove questa dovesse essere diversa da quella rappresentata e pretesa dal soggetto attivo (i.e., il datore di lavoro) si avrebbe la conseguenza dell’ingiustizia prospettata.
Pertanto, prosegue la Cassazione, la rimessione al soggetto passivo (i.e., i dipendenti) della scelta della condotta da adottare non può essere utilizzata quale elemento per escludere la sussistenza della minaccia e, dunque, dell’estorsione.
Quanto sopra, supera anche le argomentazioni della Corte di Appello, per cui il datore di lavoro non aveva prospettato il licenziamento ma aveva unicamente affermato che a chi non fossero piaciute le condizioni di lavoro era “libero di andare via”. La citata affermazione, infatti, per la Cassazione pone in ogni caso il lavoratore di fronte all’alternativa di accettare le condizioni di lavoro imposte dal datore di lavoro o di perdere il lavoro, risultando irrilevante che tale eventualità potesse realizzare una decisione “volontaria” dello stesso. Inoltre, tale comportamento assume rilievo penale perché le condizioni di lavoro indicate come alternativa alla perdita del lavoro sono inique e illegittime.
Alla luca di quanto sopra, la Cassazione ha affermato il principio giuridico secondo il quale integra il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che, approfittando della situazione del mercato del lavoro a lui favorevole per la prevalenza dell’offerta sulla domanda, costringe i lavoratori, con la minaccia larvata di licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate.
In definitiva, a parere della Cassazione, il requisito della particolare condizione soggettiva della persona offesa non è richiesto al fine della configurazione del reato che si realizza nel momento in cui il datore di lavoro prospetta la perdita del lavoro, approfittando della naturale condizione di prevalenza che veste rispetto al lavoratore subordinato ed alla condizione di mercato a lui favorevole.
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La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 2246 del 26 gennaio 2022, ha stabilito che il dirigente che invia ai vertici aziendali una mail astiosa tiene un comportamento idoneo a turbare il rapporto di fiducia che lo lega al datore di lavoro, pur in assenza di un formale inadempimento degli obblighi lavorativi.
I fatti di causa
Un dirigente apicale veniva licenziato per giusta causa per aver inviato ai vertici aziendali una e-mail dal seguente tenore “voi avete tradito la mia fiducia e buona fede e non so quanto potrò andare avanti a sopportare questo vostro comportamento che giudico inqualificabile”.
Il dirigente licenziato conveniva in giudizio l’azienda ex datrice di lavoro (i) eccependo che tali esternazioni erano state provocate da un unico episodio che aveva innescato in lui una forte reazione psicologica e (ii) chiedendo la sua condanna al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso e dell’indennità supplementare, secondo quanto previsto dal CCNL dei Dirigenti Industria, oltre al risarcimento dei danni per demansionamento e mobbing.
Il Tribunale accoglieva parzialmente il ricorso, ritenendo che il licenziamento, benché privo di giusta causa, fosse “giustificato” in base al CCNL di categoria, ossia non pretestuoso né arbitrario: di qui il riconoscimento al dirigente della sola indennità sostitutiva del preavviso, con rigetto delle altre domande.
Anche la Corte di Appello si conformava alla decisione del primo giudice, evidenziando che “l‘esternazione alla datrice di lavoro di quanto si legge nella contestata missiva telematica (…), pur non integrando la giusta causa di licenziamento, consentiva di ritenere configurata, alla luce del ruolo apicale e della conseguente intensità del vincolo fiduciario, la nozione di giustificatezza di fonte pattizia collettiva, con conseguente non debenza della indennità supplementare”.
Il dirigente provvedeva così a proporre ricorso in cassazione.
La decisione della Corte di Cassazione
La Corte investita della causa ha, innanzitutto, osservato che, per giurisprudenza costante, “ai fini della giustificatezza” del licenziamento del dirigente non è necessaria una analitica verifica di specifiche condizioni ma è sufficiente una valutazione globale che escluda l’arbitrarietà del recesso, poiché intimato con riferimento a circostanze idonee a turbare il vincolo fiduciario che lo lega al datore di lavoro. Viene così ad assumere rilevanza qualsiasi motivo che sorregga, con motivazione coerente e fondata su ragioni apprezzabili sul piano del diritto, il recesso. E nel caso di specie, il comportamento del dirigente viene ritenuto idoneo, in applicazione dei canoni generali di buona fede e correttezza contrattuale, a turbare il rapporto di fiducia con il datore di lavoro, pur in assenza di un formale inadempimento degli obblighi lavorativi.
Secondo la Corte di Cassazione, nel caso di specie, il recesso è infatti giustificato dall’esigenza dell’imprenditore di poter fare pieno affidamento sul dirigente per l’esecuzione delle direttive a lui impartite.
In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso del dirigente, condannandolo al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.
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