Con ordinanza 4404/2022 del 10 febbraio, la Cassazione torna a esprimersi circa i profili di legittimità del licenziamento (per giusta causa) intimato al lavoratore sul presupposto del grave inadempimento legato al rifiuto di assoggettarsi al trasferimento ad altra sede. Con l’ordinanza in commento, la Suprema Corte ha stabilito che, anche in ipotesi di trasferimento che violi l’articolo 2103 del codice civile, il lavoratore non è legittimato a non prestare la propria prestazione lavorativa quando il rifiuto violi il principio di buona fede.
L’ordinanza in commento trae origine da una complessa vicenda giudiziale instauratasi a seguito del licenziamento per giusta causa intimato da una nota compagnia telefonica a un suo dipendente che, a seguito di trasferimento motivato dalla soppressione dell’unità organizzativa di appartenenza, si era rifiutato di recarsi presso la nuova sede di lavoro.
Nel primo grado di giudizio, il Tribunale di Potenza aveva accolto le domande proposte dal lavoratore volte a impugnare il provvedimento datoriale di trasferimento nonché il successivo licenziamento, intimatogli per il rifiuto di raggiungere la nuova sede di lavoro.
Con sentenza 566 del 2011 la Corte d’appello di Potenza, in riforma della pronuncia di primo grado, aveva invece ritenuto illegittimo il trasferimento e il conseguente licenziamento, con ordine al datore di lavoro di reintegrare il dipendente, sul presupposto che il datore di lavoro non si sarebbe comportato secondo buona fede e correttezza nella gestione delle conseguenze che erano derivate dalla soppressione della unità organizzativa di appartenenza, con conseguente legittimità del rifiuto del lavoratore di recarsi presso la nuova sede.
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Il Tribunale di Asti, con ordinanza del 5 gennaio 2022, ha statuito che il periodo di quarantena (ex art. 26, co.1., D.L. 18/2020 ratione temporis applicabile) o di isolamento fiduciario non rileva ai fini del calcolo del periodo di comporto, non solo nei confronti dei soggetti che hanno avuto un contatto stretto con casi di contagio confermati, ma anche nei riguardi dei soggetti risultati positivi al Covid-19. Ciò in quanto impossibilitati per legge a rendere la prestazione lavorativa a prescindere dalla presenza o meno di sintomi legati alla patologia.
Nel caso di specie, la lavoratrice, a seguito di contatto con una propria collega risultata positiva al Covid-19, veniva posta dapprima in quarantena e, successivamente, a seguito di esito positivo del tampone effettuato, in isolamento fiduciario. Il datore di lavoro procedeva al suo licenziamento per superamento del periodo di comporto ai sensi del CCNL di settore.
La lavoratrice impugnava giudizialmente il licenziamento intimatole, deducendo che:
Contrariamente a quanto sostenuto dalla lavoratrice, il datore di lavoro sosteneva che la tutela prevista dall’art. 26, comma 1, D.L. n. 18/2020 si riferisse soltanto ai periodi di quarantena con sorveglianza attiva o di permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva disposta dall’autorità e non anche alle ipotesi in cui il lavoratore avesse contratto l’infezione da Covid-19.
Secondo il Giudice assegnatario della causa, nel periodo di comporto non avrebbero dovuto essere computate le giornate di assenza dovute a quarantena o isolamento fiduciario previsti dal legislatore per contrastare la diffusione del virus.
Il Giudice – nel richiamare l’art. 26, comma 1, del D.L. n. 18/2020 così come modificato dai successivi interventi legislativi che ne hanno esteso la portata temporale – ha sottolineato come tale disposizione sia stata introdotta con il fine di tutelare quei lavoratori costretti a rimanere assenti dal lavoro poiché sottoposti alle misure di quarantena e di isolamento fiduciario equiparando detta assenza alla malattia ed escludendone la computabilità ai fini del periodo di comporto.
Alla luce di quanto sopra, secondo il Tribunale, nel caso di specie, non avrebbero dovuto essere computati, ai fini del superamento del periodo di comporto, sia i giorni di assenza disposti per quarantena che quelli disposti per isolamento dovuto all’accertamento della positività della lavoratrice al virus.
Si legge, infatti, nella sentenza che “la ratio della norma è quella di non far ricadere sul lavoratore le conseguenze dell’assenza dal lavoro che sia riconducibile causalmente alle misure di prevenzione e di contenimento previste dal legislatore e assunte con provvedimento dalle autorità al fine di limitare la diffusione del virus Covid-19, in tutte le ipotesi di possibile o acclarato contagio dal virus e a prescindere dallo stato di malattia, che – come ormai noto – può coesistere o meno con il contagio (caso dei positivi asintomatici)” Si continua poi a leggere nella sentenza che ”anche in caso di contagio con malattia, ciò che contraddistingue la malattia da Covid-19 dalle altre malattie è l’impossibilità, imposta autoritativamente, per il lavoratore di rendere la prestazione lavorativa e per il datore di lavoro di riceverla per i tempi normativamente e amministrativamente previsti, tempi che – ancora una volta – prescindono dall’evoluzione della malattia ma dipendono dalla mera positività o meno al virus”.
Su tali considerazioni il Tribunale ha accolto il ricorso della lavoratrice, annullando il licenziamento e disponendo (i) la sua reintegrazione nel posto di lavoro nonché (ii) il pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, e in ogni caso non superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre interessi e rivalutazione come per legge e oltre al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali.
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Il Tribunale di Milano, con la sentenza n. 2629 del 10 novembre 2021, ritiene applicabile ai dirigenti il divieto di licenziamento introdotto dalla normativa emergenziale.
I fatti di causa
Con ricorso ex art. 414 cod. proc. civ. un dirigente ha chiesto al Tribunale di Milano, tra le altre, di accertare e dichiarare la nullità del licenziamento intimatogli per violazione della normativa emergenziale, con conseguente sua reintegra nel posto di lavoro e risarcimento del danno in suo favore pari ad una indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello della reintegra e, comunque, in misura non inferiore a 5 mensilità, oltre interessi e rivalutazione dalla maturazione a saldo e versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.
La società ex datrice di lavoro del dirigente, costituendosi ritualmente in giudizio, ha chiesto il rigetto delle domane dallo stesso presentate.
La decisione del Tribunale
Il Tribunale, nell’accogliere il ricorso del dirigente, ha evidenziato che dalla lettera di licenziamento prodotta emergeva che il dirigente fosse stato licenziato per un contenimento dei costi per una più utile gestione dell’impresa, legato all’emergenza sanitaria da COVID-19. Nella lettera di licenziamento agli atti si legge che era stata individuata la sua figura “posto che, nel giro di dodici mesi, (…) al compimento del 67esimo anno di età, raggiungerà (ndr avrebbe raggiunto) l’età anagrafica fissata per legge per l’ottenimento della pensione di vecchiaia, percependo i relativi emolumenti e l’indennità sostitutiva del preavviso”.
Secondo il Tribunale, dalla lettura della lettera di licenziamento appare evidente che non si tratta di un recesso ad nutum ma di un licenziamento per motivi economici che presenta diversi profili di invalidità.
Per quel che ci interessa, il Tribunale osserva che il divieto di licenziamento durante il periodo emergenziale si applica anche ai dirigenti. L’interpretazione per cui detto divieto non troverebbe applicazione nei loro confronti non può trovare ragionevole riscontro in una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 14 del D.L. 104/2021.
Il richiamo all’art. 3 della Legge 604/1966 per individuare la tipologia di licenziamento investita del blocco, ossia il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, “è diretto soltanto ad individuare sulla base della motivazione della intimazione di recesso la tipologia di licenziamento investito dal divieto, ossia il licenziamento per motivo oggettivo”. E a nulla rileva la circostanza che la disciplina dei licenziamenti trovi applicazione solo per quadri, impiegati e operai, essendo stato l’intento del legislatore vietare tutti i licenziamenti “economici”. Tant’è che il richiamo effettuato dall’art. 4 della Legge 104/2020 è solo all’art. 3 e non all’intera legga 604/1966.
A ciò aggiungasi che i dirigenti sono pacificamente soggetti alla disciplina dei licenziamenti collettivi. Orbene, secondo il Tribunale, non può che essere illogica l’esclusione dei dirigenti dal campo di applicazione del blocco dei licenziamenti nel quale, invece, risulta incluso il loro licenziamento collettivo.
Peraltro, tale conclusione appare supportata dall’applicazione anche in favore di dirigenti del regime sanzionatorio della tutela reale in caso di nullità del licenziamento perché intimato in violazione di un divieto espresso da una norma imperativa.
Oltretutto, secondo il Tribunale, non si può trascurare il principio secondo cui il licenziamento di un dirigente deve essere supportato da un giustificato motivo in forza del principio di cui all’art. 5 della Legge 604/1966. “Difatti la giustificatezza oggettiva, di fonte contrattale che integra la giustificazione oggettiva dei licenziamenti dei dirigenti, è in rapporto di continenza rispetto al meno ampio giustificato motivo oggettivo”.
Inoltre, l’esclusione dei dirigenti dal blocco dei licenziamenti sarebbe incoerente con una lettura costituzionalmente orientata della disciplina in relazione al principio di uguaglianza anche sotto il profilo della ragionevolezza. Sul punto il Tribunale richiama la Cassazione secondo la quale per i dirigenti si possono ammettere discipline difformi “purché si tratti di situazioni idonee a giustificare un regime eccezionale, con riguardo ad altri apprezzabili interessi e comunque non vengano superati i limiti della ragionevolezza”.
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Questa pronuncia si insinua in quel dibattito giurisprudenziale all’interno del quale il Tribunale di Roma, con ordinanza del 26 febbraio 2021, ha dichiarato dapprima illegittimo il licenziamento individuale per motivi economici intimato ad un dirigente durante il periodo di vigenza del blocco dei licenziamenti e poi, con decisione del successivo 19 aprile, legittima tale tipologia di licenziamento.
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Il Tribunale di Firenze, con la sentenza n. 376 dello scorso 23 novembre, ha dichiarato inefficaci i recessi unilaterali effettuati da una piattaforma digitale di consegne di cibo a domicilio (la “Società”) dai rapporti in essere con i singoli lavoratori (“riders” o “ciclofattorini”) a seguito della loro mancata adesione al Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (il “CCNL”) siglato da Assodelivery, l’associazione di categoria che rappresenta l’industria italiana del food delivery alla quale aderisce la Società, e UGL rider, il sindacato di categoria.
I fatti di causa
La vicenda nasce nell’ottobre 2020 quando, a seguito della stipula del CCNL con UGL per il tramite di Assodelivery, la Società inviava una comunicazione a tutti i ciclofattorini (circa 8.000) chiedendo loro di sottoscrivere un nuovo contratto di collaborazione come condizione essenziale per proseguire il rapporto con la stessa.
Con ricorso depositato il successivo 25 febbraio 2021, le OO.SS. FILCAM CGIL FIRENZE, NIDIL CGILFIRENZE e FILT CGIL Firenze convenivano in giudizio la Società opponendo il decreto ex art. 28 dello Statuto dei Lavoratori emesso il precedente 9 febbraio con cui era stato respinto il ricorso promosso fra le stesse parti in relazione alla dedotta antisindacalità delle seguenti condotte tenute dalla Società:
La decisione del Tribunale di Firenze
Il Tribunale di Firenze ha chiarito, in primo luogo, che i ciclofattorini devono essere considerati lavoratori subordinati e, pertanto, la gestione del rapporto con gli stessi deve sottostare alla relativa disciplina, ivi incluse le norme previste in materia di recesso.
Ciò premesso, con riferimento alla comunicazione inviata dalla Società, il Tribunale ha rilevato che la stessa (i) non è stata preceduta da nessuna attività di informazione e consultazione con i sindacati che le sarebbe stata imposta dal CCNL Terziario Distribuzione e Servizi applicato ai suoi lavoratori dipendenti e (ii) era potenzialmente destinata a cessare contemporaneamente il rapporto con oltre 8.000 riders costituendo, in tal senso, un “rilevante cambiamento nell’organizzazione dell’impresa”.
Secondo il Tribunale, essendo pacifico (in quanto non contestato) che un numero di riders pari o superiore a 5 ha cessato anticipatamente il rapporto a seguito della modifica unilaterale richiesta dalla Società, si sarebbero dovuto utilizzare le procedure previste dalla Legge 223/1991, compresa, quindi, “la preventiva comunicazione per iscritto (in mancanza di rsa o rsu) alle associazioni di categoria aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale”.
Basti considerare, secondo il Tribunale, che le associazioni ricorrenti rientrano nel novero dei destinatari della comunicazione di cui sopra essendo associazioni di categoria, con la precisazione che ciascuna di esse ha tra i suoi iscritti lavoratori eterorganizzati e parasubordinati, aderenti ad una confederazione, la CGIL, sicuramente rappresentativa sul piano nazionale.
Il Tribunale, inoltre, ha osservato che elementi quali le modalità di sottoscrizione dell’accordo, il mancato confronto tra il sindacato e i riders, l’assenza di vertenze avanzate dalla UGL, il contenuto del contratto sottoscritto che ha portato a escludere la UGL dal Comitato Economico e Sociale Europeo e la mancata prosecuzione delle trattative con altre sigle sindacali per la forma di ulteriori e diversi contratti, sarebbero elementi “univoci e concordanti a favore della natura non rappresentativa del sindacato (ndr UGL rider) e della natura discriminatoria dei privilegi concessigli, non giustificati dalla forza contrattuale del sindacato stesso”.
Su tali presupposti, il Tribunale, accogliendo il ricorso delle OO.SS, ha ordinato alla Società la cessazione immediata delle condotte antisindacali, condannandola ad avviare le procedure di consultazione e confronto previste dal CCNL Terziario Distribuzione e Servizi nonché le procedure di informazione e consultazione ex L. 223/1991. La Società è stata, altresì, condannata a pubblicare il testo integrale del decreto a proprie spese e per una sola volta sulle edizioni locali di alcuni specifici quotidiani e al pagamento in favore del sindacato ricorrente delle spese del giudizio (comprese quelle della fase sommaria).
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È bene, comunque, sottolineare che la condanna a cessare immediatamente l’applicazione del CCNL Ugl rider rimane, ad oggi, circoscritta al territorio di competenza del Tribunale di Firenze che si è espresso sulla vicenda.
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La Corte di cassazione, con ordinanza n. 30478 del 28 ottobre 2021, ha stabilito che il datore di lavoro non è obbligato ad allertare il dipendente inabile al lavoro circa l’imminente raggiungimento del periodo massimo di conservazione del rapporto, né a suggerirgli strumenti alternativi all’assenza per malattia (ferie, aspettativa).
I fatti di causa
Il caso di specie trae origine dall’impugnazione del licenziamento per superamento del periodo di comporto da parte di un lavoratore secondo il quale la società datrice di lavoro avrebbe dovuto avvisarlo in merito all’imminente scadenza del comporto.
Il Tribunale adito dal lavoratore dichiarava illegittimo il licenziamento mentre la Corte d’Appello riformava la pronuncia di primo grado. Il lavoratore soccombente adiva così la Corte di Cassazione.
La decisione della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione, nel confermare definitivamente la legittimità del licenziamento, ha osservato che in assenza di qualsiasi obbligo previsto dalla contrattazione collettiva, l’impresa non ha l’onere di avvertire preventivamente il lavoratore della imminente scadenza del periodo di comporto per malattia al fine di permettere al lavoratore di esercitare eventualmente la facoltà di chiedere tempestivamente un periodo di aspettativa.
Secondo la Corte di Cassazione, il licenziamento in esame è motivato dall’oggettiva prolungata assenza per malattia, superiore alla durata massima di cui al CCNL di settore e, quindi, dall’impossibilità di rendere la prestazione lavorativa. Detto licenziamento non ha natura disciplinare e, pertanto, non è necessaria la preventiva contestazione delle assenze. Il datore di lavoro non è, dunque, tenuto a fornire al dipendente l’elenco delle assenze all’atto del licenziamento ma solo se richiesto dopo il licenziamento.
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