Vittorio De Luca, intervistato da Giorgio Pogliotti del Sole 24 Ore, ha affrontato il tema del licenziamento in caso di rimborso spese gonfiato.
Particolare attenzione meritano le azioni e i processi che occorre adottare perché le aziende possano efficacemente sanzionare o licenziare eventuali dipendenti che dovessero approfittare dei rimborsi spese per integrare indebitamente il proprio stipendio.
Qui il video integrale dell’intervista: il Sole 24 Ore
La Corte di Cassazione, con ordinanza del 4 luglio 2024, n. 18296, ha affermato che il dipendente che adotta atteggiamenti ostruzionistici rispetto all’operato aziendale lede il vincolo fiduciario con il datore di lavoro in modo irrimediabile ed è quindi passibile di licenziamento.
Il caso riguardava, in particolare, un dipendente di un’azienda di servizi ambientali, con mansioni di autista addetto al conferimento dei rifiuti ai centri di trattamento con mezzi di grossa portata, che aveva rifiutato di eseguire i suoi doveri rientrando in azienda con il mezzo ancora carico. Questo comportamento aveva esposto la società datrice di lavoro a potenziali sanzioni amministrative e violazioni della normativa ambientale, nonché alle contestazioni del Comune, unico committente.
Il dipendente si era rifiutato infatti di scaricare i rifiuti, adducendo inizialmente ragioni legate ai ritardi nelle operazioni di conferimento dei rifiuti stessi, e, successivamente, a motivi di salute.
Nonostante i ripetuti inviti del suo superiore a procedere con lo scarico o attendere un cambio di autista, il lavoratore rientrava in azienda senza aver completato il lavoro.
Il lavoratore aveva sostenuto che, in base al CCNL per i dipendenti delle società di servizi ambientali ed al Codice disciplinare aziendale, l’insubordinazione era punibile solo con sanzioni conservative, quali la sospensione, riservando il licenziamento ai casi più gravi, come quelli accompagnati da “vie di fatto”.
La Corte di Appello, riformando la sentenza di primo grado, aveva invece ritenuto la condotta del lavoratore non riconducibile alla mera insubordinazione, ma ad un grave inadempimento del lavoratore, aggravato da implicazioni amministrative e legali per la società. Tale comportamento, dunque, era tale da integrare una “giusta causa” di licenziamento.
Il dipendente ha quindi impugnato la sentenza dinanzi la Suprema Corte di Cassazione.
La Corte di Cassazione ha affermato che in tema di licenziamento disciplinare, la nozione di insubordinazione non può essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori, ma ricomprende qualsiasi comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione e il corretto svolgimento delle suddette disposizioni nel quadro dell’organizzazione aziendale (Cass. n. 13411/2020).
Nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto il comportamento del lavoratore più grave di una semplice insubordinazione. Secondo la Corte, infatti, il rifiuto intenzionale del lavoratore, unito alla sua decisione di non attendere neanche il cambio di autista e di rientrare in azienda con il carico di rifiuti, ostacolando in tal modo il conferimento dei rifiuti ed esponendo il datore di lavoro a potenziali sanzioni amministrative ambientali, integrava una grave violazione della fiducia e degli obblighi contrattuali, tali da giustificarne il licenziamento per giusta causa.
In conclusione, la Suprema Corte ha respinto il ricorso del lavoratore, ritenendo legittimo il licenziamento imposto dall’azienda.
Con l’ordinanza 26440 del 10 ottobre 2024, la Corte di cassazione, Sezione Lavoro, confermando la legittimità del licenziamento irrogato nei confronti di un dipendente che si era rivolto in modo sgarbato e scurrile nei confronti di un cliente, torna a ribadire i confini della verifica in sede di legittimità della “giusta causa” di recesso.
La vicenda giudiziaria ha avuto origine dal licenziamento disciplinare inflitto nei confronti di un dipendente, con mansioni di addetto al banco macelleria di un supermercato, al quale il datore di lavoro aveva contestato di essersi rivolto nei confronti di un cliente anziano con toni aggressivi e volgari.
Mentre il Tribunale di primo grado aveva accolto l’impugnativa del licenziamento proposta dal dipendente, la Corte di appello di Cagliari, invece, riformando la decisione di primo grado, aveva confermato la legittimità del provvedimento espulsivo.
Nel caso di specie, la Corte territoriale aveva ritenuto che il comportamento del dipendente costituisse una grave violazione dei suoi obblighi contrattuali, in particolare dell’obbligo di «usare modi cortesi col pubblico e di tenere una condotta conforme ai civici doveri», passibile di licenziamento disciplinare ai sensi dell’articolo 215 del contratto collettivo per i dipendenti da aziende del Terziario, della Distribuzione e dei Servizi applicato al rapporto di lavoro.
La Corte aveva sottolineato, in particolare, la gravità della condotta tenuta dal dipendente in quanto, in tale occasione, l’addetto al bancone, non solo non aveva chiesto scusa al cliente, peraltro anziano, ma aveva proseguito la discussione con toni sempre più accesi, dando luogo ad «uno spettacolo indecoroso e anche un po’ preoccupante». Nel valutare la congruità del provvedimento espulsivo, la Corte di appello, aveva inoltre preso in considerazione i precedenti disciplinari contestati al dipendente nei due anni precedenti che, seppur non specifici, evidenziavano una reiterata inosservanza da parte di quest’ultimo delle regole aziendali, tale da non rendere più sostenibile la prosecuzione del rapporto di lavoro.
Con l’ordinanza in commento, la Cassazione, rigettando il ricorso proposto dal dipendente avverso la sentenza della Corte cagliaritana, ha colto l’occasione per consolidare il proprio orientamento e ribadire alcuni principi vigenti in materia di recesso per giusta causa ex articolo 2119 del Codice civile.
In particolare, la Corte di legittimità ha osservato che la “giusta causa”, intesa come fatto che non consente la prosecuzione neanche provvisoria del rapporto di lavoro, rientra tra le cosiddette clausole generali, ossia quelle disposizioni normative a contenuto limitato e generico, che richiedono di essere specificate da parte del giudice in sede interpretativa «mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama».
Continua a leggere la versione integrale pubblicata su Norme e Tributi Plus Lavoro del Il Sole 24 Ore.
In occasione del nostro Team Meeting di questa settimana, tra i vari argomenti, abbiamo approfondito la recente sentenza della Cassazione del 23 settembre 2024, la quale ha rimesso alle S.U. la controversia sulla questione della ripetibilità dei trattamenti di disoccupazione percepiti a seguito di licenziamento dichiarato illegittimo, senza che si sia verificata l’effettiva riammissione al servizio dei lavoratori.
Con l’ordinanza n. 23858 del 5 settembre 2024, la Corte di Cassazione – nel confermare il proprio precedente orientamento – ha statuito che, nell’ipotesi di licenziamento disciplinare per svolgimento di altra attività durante l’assenza per malattia, grava sul datore di lavoro la prova che la malattia sia simulata, ovvero che l’attività svolta nei giorni di assenza sia potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro al servizio.
Una società incaricava un’agenzia investigativa al fine di pedinare una dipendente assente per malattia.
Dalla relazione investigativa emergeva che la dipendente, durante l’assenza per malattia (ma non durante le ore di reperibilità), avesse svolto attività ludiche e si era recata presso un centro commerciale per fare la spesa.
La società procedeva, pertanto, alla contestazione disciplinare di tali condotte e al successivo licenziamento per giusta causa, fondando il recesso sulla simulazione, da parte della dipendente, dello stato di malattia.
La Corte d’Appello dichiarava l’illegittimità del licenziamento per insussistenza del fatto contestato, con conseguente condanna della società alla reintegrazione in servizio della dipendente.
La Corte territoriale rilevava, infatti, che il datore di lavoro (sul quale incombe il relativo onere) non avesse dimostrato in giudizio la giusta causa di recesso: non essendo stata svolta una visita di verifica durante gli orari di reperibilità, non poteva considerarsi raggiunta – sulla base del solo pedinamento – la prova dell’incompatibilità tra la malattia dichiarata e l’attività ludica.
Con ricorso per cassazione, la società impugnava la sentenza d’appello sulla base di plurimi motivi.
In particolare, la società eccepiva la mancata valutazione da parte della Corte d’Appello dell’esistenza di presunzioni oggettive da cui dedurre la simulazione di malattia, nonché la mancata attribuzione alla lavoratrice dell’onere della prova circa la compatibilità della malattia con le attività ludiche che le sono state contestate.
Il percorso logico giuridico della Suprema Corte – che ha condotto al rigetto del ricorso promosso dalla società – ha preso le mosse dalla nozione di malattia rilevante a fini di sospensione della prestazione lavorativa che, come precisato dalla Corte, “ricomprende le situazioni nelle quali l’infermità determini, per intrinseca gravità o per incidenza sulle mansioni normalmente svolte dal dipendente, una concreta ed attuale, sebbene transitoria, incapacità al lavoro del medesimo” (cfr. Cass. n. 14065/1999, n. 12152/2024).
I giudici di legittimità hanno pertanto rilevato che, anche ove la malattia comprometta la possibilità di svolgere quella determinata attività oggetto del rapporto di lavoro, può comunque accadere che le residue capacità psico-fisiche possano consentire al lavoratore altre e diverse attività.
La Corte ha conseguentemente richiamato il proprio orientamento in materia di licenziamento disciplinare per svolgimento di altra attività durante l’assenza per malattia, ribadendo che grava sul datore di lavoro la prova che la malattia sia simulata ovvero che l’attività svolta nei giorni di assenza sia potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio.
Tale accertamento – prosegue la Corte – deve tenere conto di tutte le circostanze del caso concreto ed è devoluto ai giudici di merito.
La Cassazione ha, dunque, rilevato come la Corte territoriale si sia correttamente uniformata ai principi giurisprudenziali sopra richiamati, avendo – proprio sulla base delle circostanze concrete (ovverosia il carattere del tutto marginale delle attività svolte dalla dipendente durante la malattia) e del materiale probatorio fornito dalla Società (la relazione investigativa conseguente al pedinamento) – ritenuto non provata la simulazione della malattia da parte della dipendente.
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