La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 28606/2021, ritorna sul delicato tema dei permessi ex lege n. 104/1992, statuendo che il dipendente richiedente deve garantire al familiare disabile un intervento assistenziale continuativo e globale, pur potendo durante il godimento dedicare intervalli di tempo alle proprie esigenze personali di vita. Se, però, viene a mancare del tutto il nesso causale tra l’assenza dal lavoro e l’assistenza al disabile, si è in presenza di un utilizzo improprio del permesso (o abuso di diritto) ovvero di una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede nei confronti del datore di lavoro e dell’ente assicurativo che genera la responsabilità del dipendente.
Un dipendente veniva licenziato per giusta causa in quanto, nel giorno di permesso concesso per assistere la madre inabile grave, veniva trovato a svolgere attività lavorativa nel negozio della moglie. Il lavoratore, per dimostrare l’assistenza nei confronti della madre, aveva affermato di essersi trattenuto nell’abitazione della stessa per circa 50 minuti al fine di prepararle il pasto. La Corte d’Appello, riformando la decisione resa dal Tribunale, dichiarava legittimo il licenziamento ritenendo provato l’espletamento di attività estranea rispetto alla dovuta assistenza familiare nel giorno di permesso. Comportamento questo che, secondo i giudici di merito aveva leso irrimediabilmente il vincolo fiduciario. Il lavoratore così ricorreva in Cassazione.
La Corte di Cassazione, nel ritenere legittimo il licenziamento, ha osservato che nell’ambito dei permessi ex lege 104/1992, deve esserci sempre un nesso causale tra l’assenza dal lavoro e l’assistenza al disabile. Ciò significa, secondo la Corte, che il lavoratore deve garantire un intervento assistenziale continuativo e globale al familiare disabile, potendo, comunque, nell’arco del periodo di vigenza del permesso, dedicare un lasso di tempo alle proprie esigenze personali di vita. La mancata esistenza del nesso causale porta a considerare improprio il permesso e, come tale, grave la violazione, commessa dal lavoratore, ai doveri di correttezza e buona fede che genera la responsabilità dello stesso.
In sostanza i permessi ex Legge 104/1992 devono essere fruiti in coerenza con la loro funzione e in presenza di un nesso causale con l’attività di assistenza per cui sono stati concessi. Detti permessi non possono essere utilizzati per esigenze diverse (quali esse siano) rispetto a quelle proprie per la funzione cui sono preordinate. Ciò in quanto il beneficio comporta un sacrificio organizzativo per il datore di lavoro giustificabile solo in presenza di esigenze riconosciute dal lavoratore e dalla coscienza sociale meritevoli di tutela.
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La Corte di Cassazione, con sentenza n. 33809 del 12 novembre 2021, ha affermato che il dipendente che cancella o trasferisce all’esterno dati aziendali, pone in essere una condotta disciplinarmente rilevante, oltre che un illecito civile e penale. Ai fini della prova della condotta illecita tenuta dal lavoratore, il datore di lavoro può legittimamente acquisire e produrre in giudizio la corrispondenza privata rinvenuta a seguito della riconsegna del personal computer aziendale, prevalendo il diritto di difesa in giudizio su quello di inviolabilità della corrispondenza.
Nel caso di specie, un dirigente, dopo aver rassegnato le proprie dimissioni, riconsegnava alla Società il personal computer assegnatoli in dotazione, del tutto formattato e privo di ogni documento, dato e informazione aziendale. Il datore di lavoro si rivolgeva, dunque, ad un perito informatico nel tentativo di recuperare i dati e le informazioni cancellate dall’ex dipendente.
A valle dell’intervento e grazie al reperimento della password di accesso alla piattaforma Skype, il perito rinveniva alcune conversazioni avute dall’ex dipendente con soggetti esterni all’organizzazione aziendale (tra cui imprese concorrenti) e che disvelavano il perpetrarsi di una serie di condotte infedeli ed illecite da parte dello stesso. La Società proponeva, quindi, domanda giudiziale volta all’ottenimento di un cospicuo risarcimento dei danni asseritamente subiti a causa della condotta del dirigente.
La Corte d’Appello di Torino, ribaltando la decisione del giudice di prime cure, riteneva infondata la domanda formulata dalla Società, escludendo l’esistenza di alcuna prova circa le presunte condotte illecite del lavoratore e conseguentemente il diritto al risarcimento del danno richiesto. Nello specifico, la Corte d’Appello considerava inutilizzabili in giudizio le conversazioni acquisite dalla Società sull’account Skype del dirigente, in quanto ottenute in violazione della segretezza della corrispondenza e in assenza del suo consenso.
La Corte di Cassazione, nel cassare la decisione della Corte d’Appello, ha in primo luogo ritenuto il comportamento tenuto dal lavoratore lesivo del patrimonio aziendale e rilevante non solo sul piano civilistico, con conseguente diritto del datore di lavoro al risarcimento dei danni subiti, ma anche sotto un profilo penalistico, integrando il reato previsto dall’articolo 635 bis cod. pen. (ovvero danneggiamento di informazioni, dati e programmi informatici). Secondo la Corte di Cassazione, la condotta posta in essere dal lavoratore rileva anche da un punto di vista disciplinare in quanto contraria agli obblighi di fedeltà e diligenza.
Quanto alla legittimità della produzione in giudizio di documenti contenenti dati personali, la Suprema Corte, nel richiamare precedenti pronunce, ha affermato che questa “è sempre consentita ove sia necessaria per esercitare il proprio diritto di difesa, anche in assenza del consenso del titolare e quali che siano le modalità con cui è stata acquisita la loro conoscenza, dovendo, tuttavia, tale facoltà di difendersi in giudizio, utilizzando gli altrui dati personali, essere esercitata nel rispetto dei doveri di correttezza, pertinenza e non eccedenza (…), sicché la legittimità della produzione va valutata in base al bilanciamento tra il contenuto del dato utilizzato, cui va correlato il grado di riservatezza, con le esigenze di difesa”.
In materia di trattamento dei dati personali, ha proseguito la Corte “il diritto di difesa in giudizio prevale su quello di inviolabilità della corrispondenza, consentendo l’art. 24, lett. f) I. 196/2003 di prescindere dal consenso della parte interessata per il trattamento di dati personali, quando esso sia necessario per la tutela dell’esercizio di un diritto in sede giudiziaria”. Ciò, continua al Corte, “a condizione che i dati siano trattati esclusivamente per tale finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento”.
In tal senso, il diritto di difesa, secondo la Suprema Corte, non sarebbe limitato alla sede processuale, potendosi ben estendere a tutte quelle attività dirette ad acquisire prove in essa utilizzabili, ancor prima che la controversia sia stata formalmente instaurata, come avvenuto nel caso di specie.
Infine, la Corte di Cassazione, nel motivare la propria decisione, ha confermato la legittimità dei controlli effettuati dal datore di lavoro anche in riferimento alla disciplina contenuta nell’art. 4, L. 300/1970 (ratione temporis applicabile), rinvenendo la natura “difensiva” degli stessi. A parete della Corte i controlli sono intervenuti dopo la cessazione del rapporto di lavoro e comunque dopo la commissione del fatto lesivo consistente nella cancellazione dei dati aziendali da parte del dirigente.
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Con ordinanza no. 26709 del 1° ottobre 2021, la Corte di Cassazione torna ad esprimersi sui profili di legittimità del licenziamento intimato al lavoratore che venga colto a svolgere, durante l’assenza dal lavoro per malattia, attività incompatibili con il suo stato patologico.
In particolare, la Suprema Corte ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore (affetto da lombosciatalgia acuta) per aver tenuto, durante il periodo di malattia, uno stile di vita (il lavoratore era stato colto nell’atto di sollevare e movimentare sacchetti di terriccio) non compatibile con la patologia che lo affliggeva, ed in ogni caso idoneo a pregiudicarne la guarigione e/o il rientro in servizio.
Nel caso di specie, il Collegio del merito era giunto a tale conclusione, sulla base delle risultanze del nominato ausiliare medico legale il quale aveva dedotto che la sintomatologia riscontrata al lavoratore avrebbe consentito l’espletamento delle mansioni allo stesso affidate nel rispetto delle limitazioni imposte dal medico competente, oltre che sulla base del giudizio del CTU che aveva rilevato come le attività svolte dal paziente durante la sua assenza per malattia, ove provate, avrebbero prolungato il periodo di guarigione clinica.
Sulla base di tali risultanze, veniva dunque confermato il giudizio di proporzionalità della sanzione espulsiva comminata, dal momento che, nel caso di specie, lo svolgimento di altra attività da parte del lavoratore assente per malattia si poneva in aperto contrasto con i generali doveri di correttezza e buona fede oltre che con gli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà.
Il lavoratore ricorreva dunque in Cassazione adducendo come primo motivo di impugnazione la violazione e falsa applicazione dell’art. 18, co. 4, L. 300/1970, deducendo che le condotte poste in essere durante il periodo di malattia costituissero meri incombenti di vita quotidiana (rimarcando la modestia dello sforzo compiuto, consistito a suo dire nel trasporto di “due semplici sacchetti”). Deduceva inoltre che l’effettività dello stato patologico da cui era affetto dovesse ritenersi comprovata alla luce delle certificazioni mediche versate in atti.
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Il Tribunale di Venezia, con sentenza n. 494/2021, ha dichiarato che l’azienda, che subisce un attacco informatico e sia costretta a pagare un riscatto per recuperare i dati sottratti, può licenziare il dipendente che ha navigato ripetutamente su siti non sicuri per fini privati mettendo a rischio la sicurezza interna.
Un lavoratore, assunto da una società esercente attività di agenzia marittima, veniva licenziato per giusta causa, a seguito di procedimento disciplinare legittimamente esperito, per avere utilizzato impropriamente il personal computer aziendale.
In particolare, gli addebiti mossi dalla società nei confronti del dipendente, erano duplici:
Il dipendente impugnava il recesso aziendale in quanto ritenuto ritorsivo e discriminatorio, avente la sola finalità di estrometterlo in quanto RSA e ritenuto, dunque, un “dipendente scomodo”. Il dipendente, inoltre, sosteneva che le condotte contestate non erano a lui attribuibili posto che il computer assegnatogli era sfornito di password e, pertanto, qualsiasi soggetto avrebbe potuto accedervi.
La società datrice di lavoro si costitutiva in giudizio, respingendo le pretese del dipendente e sottolineando il carattere del tutto causale della scoperta dei dati, poiché emersi all’esito di necessarie verifiche effettuate a seguito di un hackeraggio ai propri sistemi informatici e della diffusione del virus ramsomware.
Il Tribunale di Venezia – confermando la decisione del giudice della fase sommaria del procedimento – ha dichiarato sussistente la giusta causa di recesso e, conseguentemente, legittimo il licenziamento.
Il Giudice adito ha, innanzitutto, evidenziato che gli addebiti mossi nei confronti del dipendente erano stati acquisiti dalla società in conformità con quanto disposto dall’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori. Ai sensi del citato articolo, infatti, il datore di lavoro può legittimamente acquisire informazioni dagli strumenti aziendali assegnati ai dipendenti ed utilizzarli per tutti i fini connessi al rapporto di lavoro (ivi inclusi i fini disciplinari). Ciò, a condizione che agli stessi sia stata data adeguata informazione circa le modalità di utilizzo di tali strumenti e di effettuazione dei controlli, nel rispetto di quanto disposto dal Codice della Privacy. E la società aveva adottato un Regolamento sull’utilizzo degli strumenti forniti in dotazione, il quale fin dalla sua adozione, era stato affisso in bacheca nonché pubblicato in una apposita cartella all’interno del server accessibile a tutti i dipendenti.
Il Giudice ha poi osservato che, anche prescindendo dalla effettiva adozione del regolamento (oggetto di censura da parte del lavoratore), ciò che rileva nel caso di specie è il numeroso e perpetuo utilizzo per evidenti (e non contestati) fini personali del computer, tale per cui la valenza disciplinare dei fatti addebitati non può non sussistere.
Infine, il Giudice ha respinto la censura del dipendente in merito alla mancata copertura di password personale sul computer. A dire del Giudice adito, infatti, il suo utilizzo improprio era senza dubbio riconducibile al dipendente in questione posto che lo stesso aveva: visitato la propria casella personale, prenotato viaggi a suo nome, usatto chiavette Usb personali, visitato social network a lui riconducili ecc.
Alla luce di tutto quanto sopra, a parere del Tribunale adito, gli addebiti ascritti al dipendente e legittimamente acquisiti dall’azienda, si sono concretizzati nei fatti e sono stati di una gravità tale da legittimarne il licenziamento in tronco.
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L’avvocato Vittorio De Luca, Managing Partner dell’omonimo studio, entra nel merito dei provvedimenti legislativi che hanno introdotto il divieto, dapprima generalizzato e successivamente settoriale, dei licenziamenti per motivi economici. Il Governo ha raggiunto un’intesa con le parti sociali in merito al blocco dei licenziamenti che ne pensa? “L’intesa prevede un impegno a far ricorso a tutti gli ammortizzatori sociali esistenti prima di ricorrere ai licenziamenti, in particolare l’utilizzo della cassa integrazione” dichiara il legale. “L’impegno in questione, per come strutturato, rappresenta una pura forma di raccomandazione, non certo un obbligo. A fronte di un divieto generalizzato dal marzo 2020 e sino al marzo 2021, ci troviamo ora di fronte ad un quadro variegato: con il Decreto Sostegni e con la legge di conversione del Decreto Sostegni bis, il blocco dei licenziamenti è stato in parte superato e in parte prorogato a determinate condizioni”. Dando uno sguardo al panorama europeo, l’Unione Europea ha, di fatto, bocciato la misura in vigore dal marzo 2020, ricordando che l’Italia è l’unico Stato membro ad aver introdotto un divieto generalizzato sui licenziamenti dall’inizio della crisi Covid-19.
Che ne pensa? “Con le Raccomandazioni pubblicate il 2 giugno la Commissione Europea ha rilevato come il blocco dei licenziamenti non sia stato particolarmente efficace e si sia rivelato superfluo in considerazione dell’ampio ricorso a sistemi finalizzati al mantenimento del posto di lavoro. La Commissione ha bocciato il provvedimento evidenziando che si tratta di una misura che avvantaggia i lavoratori a tempo indeterminato a scapito di quelli a tempo determinato, gli interinali e gli stagionali. Occorre quindi sottolineare – continua il legale – che il congelamento di interi settori produttivi rischia di essere controproducente perché ostacola il necessario adeguamento della forza lavoro alle mutevoli esigenze aziendali”.