La Corte di Cassazione, con sentenza n. 22819/2021, ha ritenuto legittimo il licenziamento di una lavoratrice che si era rifiutata di recarsi in azienda, su invito del datore di lavoro, poiché non era stata effettuata la visita medica di idoneità preventiva di cui all’articolo 41, comma 2, lettera e-ter), del D.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 (“Testo Unico sulla sicurezza sul lavoro”).

I fatti di causa

Una lavoratrice di un operatore ferroviario, al termine di un periodo di aspettativa di dodici mesi per malattia – a sua volta successivo a un protratto periodo di malattia – era stata sollecitata a presentarsi presso gli uffici aziendali, per essere poi sottoposta, nei giorni successivi, a visita medica.

La lavoratrice aveva rifiutato di adempiere all’invito datoriale di recarsi in azienda e, pertanto, il datore di lavoro, dopo averle contestato l’assenza ingiustificata dal servizio, all’esito del procedimento disciplinare le aveva intimato il licenziamento per giustificato motivo soggettivo.

La Corte d’Appello di Roma aveva rigettato il reclamo proposto dalla lavoratrice avverso la sentenza del Tribunale di Roma, che a sua volta aveva respinto l’opposizione proposta dalla stessa avverso l’ordinanza di rigetto, ex art. 1, comma 51, Legge 92/2012, della domanda volta ad ottenere la declaratoria di nullità o di illegittimità del licenziamento con preavviso.

Avverso la decisione della Corte di Appello, la lavoratrice aveva proposto pertanto ricorso per Cassazione.

Articolo 41, comma 2, lettera e-ter), del Testo Unico sulla sicurezza sul lavoro

L’articolo 41, comma 2, lettera e-ter) del Testo Unico prevede che la sorveglianza sanitaria comprende la “visita medica precedente alla ripresa del lavoro, a seguito di assenza per motivi di salute di durata superiore ai sessanta giorni continuativi, al fine di verificare l’idoneità alla mansione”.

La Corte d’Appello aveva rilevato che la visita medica preventiva in questione integrava un controllo che la legge non considerava come conditio iuris della ripresa dell’attività lavorativa.

Pertanto, posto che la visita medica preventiva di cui all’art. 41 del Testo Unico non costituiva una condizione per la ripresa al lavoro, secondo la Corte d’Appello il rifiuto a riprendere l’attività lavorativa configurava un’assenza ingiustificata, in rapporto alla quale il licenziamento intimato risultava legittimo.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione adita ha rilevato che la visita medica preventiva di cui all’art. 41 del Testo Unico è volta a verificare l’idoneità alle mansioni e dunque, in primis, il ripristino dell’attività lavorativa in generale e non alla mansione specifica.

La Suprema Corte, richiamando propri precedenti conformi con riferimento ad ipotesi di recesso per giusta causa in presenza di analoghe mancanze, ha affermato che “la norma va letta – secondo un’interpretazione conforme tanto alla sua formulazione letterale come alle sue finalità – nel senso che la “ripresa del lavoro” rispetto alla quale la visita medica deve essere “precedente”, è costituita dalla concreta assegnazione del lavoratore, quando egli faccia ritorno in azienda dopo un’assenza per motivi di salute prolungatasi per oltre sessanta giorni, alle medesime mansioni già svolte in precedenza, essendo queste soltanto le mansioni, per le quali sia necessario compiere una verifica di “idoneità” e cioè accertare se il lavoratore possa sostenerle senza pregiudizio o rischio per la sua integrità psico-fisica”. Pertanto, “il lavoratore, ove nuovamente destinato alle medesime mansioni assegnategli prima dell’inizio del periodo di assenza, può astenersi ex art. 1460 cod. civ. dall’eseguire la prestazione dovuta, posto che l’effettuazione della visita medica prevista dalla norma si colloca all’interno del fondamentale obbligo imprenditoriale di predisporre e attuare le misure necessarie a tutelare l’incolumità e la salute del prestatore di lavoro” (Cass. 7566/2020). Di conseguenza, “la loro omissione può anche costituire un grave inadempimento del datore di lavoro che, se del caso, legittima l’eccezione di inadempimento del lavoratore ex art. 1460 cod. civ.” (Cass. SS.UU. 22 maggio 2018, n. 12568).

Ciò posto, la Cassazione ha rimarcato che da tale ipotesi va tenuto separato il caso in cui il lavoratore rifiuti preventivamente di presentarsi in azienda.

La Corte di Cassazione ha osservato che, venendo meno il titolo che giustificava l’assenza (come nel caso di specie in cui la lavoratrice aveva superato il periodo di aspettativa richiesto), non può ritenersi consentito al dipendente di astenersi anche dalla presentazione sul posto di lavoro.

La Suprema Corte ha sottolineato che tale richiesta di presentazione è da considerarsi momento distinto dall’assegnazione alle mansioni, in quanto diretta a ridare concreta operatività al rapporto e ben potendo comunque il datore di lavoro, nell’esercizio dei suoi poteri, disporre, quanto meno in via provvisoria e in attesa dell’espletamento della visita medica e della connessa verifica di idoneità, una diversa collocazione del proprio dipendente all’interno della organizzazione di impresa” (cfr. Cass. 7566/2020).

Sulla base di quanto precede, la Corte di Cassazione ha ritenuto ingiustificato il rifiuto della lavoratrice di presentarsi in azienda ed ha confermato la legittimità del licenziamento disciplinare con preavviso.

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Con sentenza dell’8 luglio 2021, il Tribunale di Trento, ha dichiarato legittimo il licenziamento disciplinare (per giusta causa) irrogato nei confronti di un’insegnante che si è ripetutamente rifiutata di indossare la mascherina protettiva durante il servizio scolastico.

Nel caso di specie l’insegnante, alle dipendenze della Provincia autonoma di Trento, aveva manifestamente espresso il proprio rifiuto a ottemperare alla disposizione di servizio emanata dalla dirigente del servizio attività educative, che la invitava a utilizzare la mascherina protettiva al fine di garantire la tutela della salute e della sicurezza dei bambini, dei colleghi e dell’intera comunità scolastica. A sostegno del proprio rifiuto, nel corso della sua audizione durante il procedimento disciplinare, la lavoratrice adduceva, da un lato, di non voler indossare la mascherina in quanto «obiettrice di coscienza» e, dall’altro, di essere impossibilitata a farlo per ragioni di salute. Licenziata per giusta causa, proponeva quindi ricorso dinanzi al giudice del lavoro di Trento, avanzando domanda di reintegra.

Il Tribunale, non rinvenendo tra le allegazioni della lavoratrice alcuna certificazione medica idonea a giustificare il rifiuto di indossare la mascherina, rilevava inoltre che la condotta dell’interessata si poneva in aperto contrasto con le linee di indirizzo per la tutela della salute approvate dal presidente della Provincia autonoma di Trento con ordinanza del 25 agosto 2020 e, a livello nazionale, dal Protocollo d’intesa siglato dal ministero dell’Istruzione il 6 agosto 2020, prescrivente l’obbligo «per chiunque entri negli ambienti scolastici» di «adottare precauzioni igieniche e l’utilizzo di mascherina».

Sotto un profilo giuridico, secondo il Tribunale di Trento, i predetti atti e provvedimenti amministrativi troverebbero idoneo fondamento anche nella volontà del legislatore (articolo 16, comma 1, del Dl 18/2020), che considera le mascherine un dispositivo di protezione individuale. Al riguardo, richiamando precedenti orientamenti della Corte di cassazione (25932/2013 e 18265/2013), il giudice trentino ricorda come «il persistente rifiuto da parte del lavoratore di utilizzare i dispositivi di protezione individuale giustifica il licenziamento intimato all’inadempiente».

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La Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 20560 pubblicata il 19 luglio 2021, ha confermato che i fatti oggetto di patteggiamento in un giudizio penale devono ritenersi accertati (con effetto di giudicato) in relazione ad eventuali giudizi civili pendenti aventi ad oggetto medesimi accertamenti. La pronuncia della Suprema Corte trae origine dal licenziamento per giusta causa intimato dal Ministero della Giustizia ad un cancelliere per aver – insieme ad altri colleghi – attestato falsamente la propria presenza al lavoro.

La vicenda processuale ha visto le parti coinvolte dapprima in un processo penale terminato con il patteggiamento della pena e, successivamente, nel processo instaurato dal dipendente avanti il Giudice del lavoro in relazione all’impugnazione del recesso. Nell’ambito del giudizio lavoristico, la Corte d’Appello di Milano, riformando la sentenza resa dal Tribunale di Lodi che aveva in prima istanza accolto l’impugnazione del lavoratore, ha statuito la legittimità del licenziamento disciplinare irrogato al lavoratore, dando per accertato (in base al patteggiamento) che presso l’ufficio giudiziario operasse un sistema illecito in cui alcuni dipendenti coprivano vicendevolmente i propri ritardi e assenze attraverso l’abusivo utilizzo dei cartellini in dotazione.

La gravità della condotta risultava inoltre incrementata in ragione del ruolo di capo cancelliere ricoperto dal ricorrente. La sentenza resa dalla Corte territoriale veniva impugnata dal dipendente sulla base di plurimi motivi, tra cui l’asserita violazione degli artt. 115 c.p.c. e 2697 c.p.c. in tema di disponibilità e onere della prova, avendo la Corte d’Appello fondato il proprio convincimento relativo alla sussistenza dei fatti addebitati sulla base di quanto emerso in sede penale. Ad avviso del dipendente la sentenza di patteggiamento non avrebbe potuto essere posta a fondamento dell’accertamento del giudice del lavoro sia in quanto successiva al licenziamento, sia perché inidonea a fornire elementi di valutazione in relazione all’effettiva sussistenza del fatto e alla relativa gravità. I motivi di ricorso venivano rigettati dalla Suprema Corte, la quale confermava la legittimità del recesso intimato.

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Il Tribunale di Milano, con una ordinanza del 2 luglio 2021, ha stabilito che integrano la fattispecie di licenziamento collettivo, e quindi soggiacciono al divieto vigente durante la pandemia, i licenziamenti intimati dalla stessa società a 6 dirigenti, nello stesso periodo e sulla base delle medesime ragioni oggettive. Il Tribunale ha ritenuto del tutto irrilevante la circostanza che per 4 dei 6 licenziamenti era intervenuta la revoca del licenziamento, il ripristino del rapporto di lavoro e la successiva cessazione del medesimo per risoluzione consensuale.

I fatti di causa

Una società in liquidazione procedeva nel febbraio 2021 al licenziamento di un dirigente per giustificato motivo oggettivo motivato da una asserita riduzione dell’attività lavorativa e del fatturato comportante, di conseguenza, la soppressione del ruolo ricoperto dallo stesso. Il dirigente impugnava il licenziamento in giudizio rilevando che, nell’arco temporale di sei settimane circa e sulla scorta della stessa motivazione oggettiva, la società aveva licenziato altri 5 dirigenti, deducendo così la riconducibilità del proprio nella sfera di quelli collettivi di cui agli artt. 4, 5 e 24 della L. n. 223/1991, vietati dalla normativa emergenziale Covid-19.

La società, costituitasi in giudizio, rilevava che nel periodo contestato si erano verificati 2 licenziamenti e non 6 in quanto 4 dei 6 rapporti di lavoro dirigenziali si erano conclusi con una risoluzione consensuale e a fronte di un incentivo economico (all’intimazione del licenziamento era seguita la revoca del recesso, un ripristino del rapporto e successiva cessazione per risoluzione consensuale).

La decisione del Tribunale

Il Tribunale adito ha accolto il ricorso del dirigente ritenendo che la successiva revoca di 4 dei 6 licenziamenti sia del tutto irrilevante e inidonea a impedire l’integrazione della fattispecie di licenziamento collettivo, poiché il tenore letterale dell’art. 24 della L. n. 223/1991 non lascia spazio ad alcuna diversa interpretazione.

In particolare, ai sensi della norma soprarichiamata, il datore di lavoro – che occupi più di 15 dipendenti e intenda effettuare in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro almeno 5 licenziamenti nell’arco di 120 giorni – è tenuto ad osservare le procedure previste dalla medesima legge, restando irrilevante, ai fini della configurazione della fattispecie del licenziamento collettivo, che il numero dei licenziamenti effettivamente attuati sia eventualmente inferiore. 

Nel caso di specie, a parere del Tribunale, il requisito numerico richiesto dalla norma era stato raggiunto a monte quando la società aveva adottato i 6 licenziamenti nell’arco temporale di 6 settimane circa manifestando apertamente la propria volontà di porre fine ai rapporti di lavoro.

Accertata, dunque, la sussistenza di un licenziamento collettivo, il Tribunale ha ravvisato la nullità del recesso intimato al dirigente per contrasto con la disciplina del blocco dei licenziamenti collettivi di cui all’art. 46 del D.L. n. 18/2020 e più volte prorogato «il cui carattere imperativo e di ordine pubblico non può mettersi in dubbio”. Il Tribunale ha così condannato la società a reintegrare il dirigente nel posto di lavoro e a corrispondergli una indennità risarcitoria.

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Sebbene il trattamento di cassa integrazione disposto per tutta la forza aziendale (o un intero reparto) prevale sul trattamento di malattia, il periodo di comporto continua a decorrere. Ne consegue che è legittimo il licenziamento del dipendente che abbia superato il comporto in tali circostanze.

È questo quanto affermato dal Tribunale di Foggia con ordinanza del 17 luglio 2021, il quale, chiamato a pronunciarsi sulla validità di un licenziamento per superamento del periodo di comporto, ha dichiarato che anche se il trattamento di integrazione salariale sostituisce, in caso di malattia, la relativa indennità giornaliera, il datore di lavoro non può autonomamente modificare il titolo dell’assenza del dipendente, con la conseguenza che il periodo di comporto in caso di malattia certificata continua a decorrere sino a quando non sia il dipendente a richiedere il mutamento dell’imputazione della sua assenza dal lavoro.

In particolare, nel caso di specie, un dipendente veniva licenziato per aver fruito di un periodo di malattia di complessivi giorni 430 a fronte dei 420 giorni previsti dal contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro. Il dipendente, dunque, agiva in giudizio chiedendo l’accertamento della illegittimità del provvedimento espulsivo, deducendo di essere stato collocato, unitamente a tutti gli altri dipendenti della Società datrice di lavoro, in Cassa Integrazione Guadagni Ordinaria con causale Covid-19, la quale aveva sostituito ad ogni effetto il periodo di malattia di cui stava fruendo. A sostegno della propria tesi, il dipendente richiama l’art. 3, comma 7, del D.lgs. 148/2015, nonché la Circolare INPS n. 197/2015, in base al quale “il trattamento di integrazione salariale sostituisce in caso di malattia l’indennità giornaliera di malattia, nonché l’eventuale integrazione contrattualmente prevista”. Il Tribunale nel respingere il ricorso promosso – richiamando le argomentazioni espresse dal Tribunale di Pesaro con sentenza n. 16/2021 – ha sottolineato che con il citato art. 3, comma 7, del D.lgs. 148/2015, il Legislatore ha inteso esclusivamente prevedere una diversa imputazione della prestazione economica ricevuta dal dipendente in caso di fruizione di un periodo di integrazione salariale, che resta, comunque, di competenza dell’INPS (come nel caso della malattia), non volendo intervenire sulla causale dell’assenza che attiene invece al rapporto privato tra lavoratore e datore di lavoro. Tale diversa imputazione, dunque, nulla ha a che vedere con il comporto e sul titolo della sospensione della prestazione lavorativa. È infatti da escludere, secondo il Tribunale, che il datore di lavoro possa arbitrariamente mutare il titolo dell’assenza del lavoratore quando lo stesso è in malattia, perché ciò significherebbe attribuire al datore di lavoro un potere extra ordinem, che si porrebbe addirittura in contrasto con un diritto di garanzia costituzionale, quale il diritto alla salute.

In quest’ottica, il Tribunale ricorda che il mutamento del titolo dell’assenza è consentito sole se sia il lavoratore a richiederlo, come ad esempio avviene quando il dipendente sostituisce alla malattia la fruizione delle ferie allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto. In questo caso, grava poi sul datore di lavoro, accettare o meno tale richiesta e, in caso di rifiuto, dedurre le ragioni organizzative (concrete ed effettive) che hanno portato alla negazione del periodo feriale.

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