La Corte di cassazione, con sentenza n. 18411 del 9 luglio 2019, è tornata ad analizzare la delicata tematica relativa alla lesione del rapporto fiduciario, conseguente all’abuso, da parte del lavoratore, dei permessi previsti dalla legge n. 104/1992.
La vicenda trae origine dal licenziamento per giusta causa irrogato ad un dipendente per aver fruito di due giorni di permesso previsti dalla disposizione sopra richiamata, per l’assistenza ad una congiunta disabile, essendo tuttavia emerso dalle indagini investigative disposte dal datore di lavoro che, in costanza dei permessi in questione, l’interessato non aveva abbandonato il proprio domicilio e, pertanto, non poteva essersi recato presso la separata abitazione della propria congiunta per offrire assistenza.
I giudici di merito, sia in primo grado, sia in sede di appello, respingevano l’impugnazione del dipendente, ritenendo soddisfatto l’onere probatorio a carico del datore di lavoro, seppur non mediante prova diretta, bensì per deduzione in base all’interpretazione combinata della relazione investigativa, confermata in sede testimoniale e alle giustificazioni orali rese dal lavoratore.
Ricorrendo in Cassazione contro la decisione, il lavoratore denunciava – tra gli altri motivi – erronea e falsa applicazione del principio dell’onere della prova della sussistenza della giusta causa di licenziamento, rilevando, in primo luogo, il mancato raggiungimento della piena prova relativa alla condotta contestatagli dal datore di lavoro in quanto dalla relazione investigativa risultava la mancata conoscenza esatta del numero civico corrispondente all’abitazione della persona assistita. Il medesimo, inoltre, lamentava la trascuratezza della Corte territoriale nel non aver opportunamente considerato che un’attività integrativa di investigazione fosse stata svolta in un momento successivo rispetto all’irrogazione del licenziamento. L’erronea valutazione delle risultanze probatorie, originata anche dalla mancata piena prova sul fatto contestato, avrebbe determinato, secondo il ricorrente, una fonte di incertezza sulla effettiva gravità della condotta e di conseguenza sulla proporzionalità della misura adottata. Orbene, i giudici di legittimità, dichiarando inammissibili tutti i motivi del ricorso ritenendo esente da vizi il percorso logico argomentativo dei giudici di merito, hanno confermato la validità del provvedimento espulsivo del lavoratore, in totale accoglimento rispetto a quanto statuito dalla sentenza di merito.
In particolare, precisa la Cassazione, la corte territoriale aveva affrontato, con motivazione logicamente congrua, la questione relativa all’abuso dei permessi di cui alla legge n. 104/1992, osservando che la relazione investigativa prodotta dal datore di lavoro, confermata per testimoni e stridente rispetto a quanto affermato dal lavoratore in sede di audizione disciplinare, era perfettamente idonea a dimostrare con pienezza l’omessa assistenza per cui lo stesso fruiva dei permessi. Appare opportuno, in relazione all’oggetto della disamina de qua, ripercorrere gli orientamenti giurisprudenziali emersi in ordine ai limiti entro i quali il datore di lavoro può lecitamente controllare i lavoratori, anche usufruendo di agenzie investigative private, al fine di assicurare la corretta fruizione dei permessi di cui all’articolo 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992.
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La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12174 datata 8 maggio 2019, si è pronunciata sull’art. 3, comma 2, del D.Lgs. 23/2015 affermando che “l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare”.
I fatti
Il Tribunale di Genova, adito da una lavoratrice licenziata per aver abbandonato il proprio posto di lavoro durante l’orario di lavoro, dichiarava illegittimo il licenziamento disciplinare intimato ed estinto il rapporto di lavoro dalla data del licenziamento stesso, condannando la società datrice di lavoro (contumace) al pagamento di una indennità risarcitoria pari a 4 mensilità, oltre le spese di lite.
La lavoratrice ricorreva in appello avverso la pronuncia di primo grado per vedersi riconoscere la tutela reintegratoria prevista dall’art. 3, comma 2, del D.Lgs. 23/2015 per insussistenza del fatto materiale contestato.
La Corte distrettuale, nel respingere l’eccezione formulata dalla lavoratrice, osservava che la condotta addebitatale non era stata dalla medesima negata nella sua realtà storica piuttosto non poteva ritenersi, per le circostanze in cui si era verificata, di gravità tale da giustificare il provvedimento espulsivo.
Pertanto, ad avviso della Corte d’Appello, correttamente il Tribunale aveva riconosciuto la tutela risarcitoria di cui all’art. 3, comma 1, del D.Lgs 23/2015, quantificata in 4 mensilità.
Avverso la sentenza di secondo grado la lavoratrice ricorreva in cassazione, affidandosi a due motivi.
La normativa applicabile
La fattispecie in esame rientra nell’ambito di disciplina del D.Lgs. 23/2015, emanato in attuazione della L. 183/2014 con cui si delegava, tra le altre, il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi “allo scopo di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, nonché di riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerente con le attuali esigenze del contesto occupazione e produttivo e di rendere più efficiente l’attività ispettiva”.
Tra i principi ed i criteri direttivi, cui il Governo doveva attenersi nell’esercizio della delega, la L. 183/2014 aveva posto anche “la previsione per le nuove assunzioni del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti”, rispetto al quale la possibilità di reintegrazione nel posto di lavoro doveva essere limitata ai licenziamenti nulli e discriminatori ed a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato.
In esecuzione di tali principi e criteri è stato emanato il D.Lgs. 23/2015 che ha previsto per i lavoratori, assunti dopo il 7 marzo 2015, (data di entrata in vigore del Decreto) e per specifiche categorie di lavoratori che, benché assunti prima di tale data, sono destinatari dello stesso, la tutela reintegratoria in ipotesi residuali. Ciò senza modificare le nozioni legali di “giusta causa” e “giustificato” di recesso datoriale vigenti.
In particolare, il comma 1 del D.Lgs. 23/2015 dispone che “nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità (…)”.
Il comma 2 del medesimo articolo prevede poi che “esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria (…)”.
La decisione della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione sostiene che l’articolazione delle tutele di cui al D.Lgs. 23/2015 richiama quella già intrapresa dalla Legge 92/2012 (cd. Legge Fornero), anche nella sua logica di ritenere la reintegrazione residuale rispetto alla tutela indennitaria.
Sempre ad avviso della Corte di Cassazione, le espressioni utilizzate dal D.Lgs. 23/2015 (“fatto materiale contestato”) non possono che riferirsi alla stessa nozione di “fatto contestato” così come elaborata dalla giurisprudenza di legittimità in relazione al comma 4 dell’art. 18 della L. 300/1970.
Al fatto accaduto ma disciplinarmente del tutto irrilevante non può riservarsi un trattamento sanzionatorio diverso da quello previsto per le ipotesi in cui il fatto non sia stato commesso. Ciò in quanto il licenziamento necessita di giustificazione ed è illegittimo se non risulta appunto sorretto da un “giustificato motivo” o da una “giusta causa”.
A suffragio di tale assunto, secondo la Corte di Cassazione, vi è la lettura costituzionalmente orientata della norma, dovendosi affermare che “qualsivoglia giudizio di responsabilità, in qualunque campo del diritto punitivo venga espresso, richiede per il fatto materiale ascritto, dal punto di vista soggettivo, la riferibilità dello stesso all’agente e, da un punto di vista oggettivo, la sua riconducibilità nell’ambito delle azioni giuridicamente apprezzabili come fonte di responsabilità”.
A rafforzare tale conclusione vi è la considerazione che l’art. 3 del D.Lgs. 23/2015, al pari dell’art. 18, comma 4, L. 300/1970, fa riferimento alla contestazione e, pertanto, il “fatto materiale contestato” è il fatto non solo materialmente integrato ma anche di rilievo disciplinare.
E la diversa soluzione lessicale adottata dal legislatore del 2015 si spiega, secondo la Cassazione, con “l’esigenza di dissipare dubbi interpretativi che all’epoca erano ben presenti nel dibattito giurisprudenziale e dottrinale a proposito del comma 4 dell’art. 18 novellato”.
La Corte ha così cassato la sentenza di secondo grado, rinviando la causa al giudice di merito perché accertasse se il fatto, pur materialmente accaduto, avesse rilevanza disciplinare.
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Licenziamento illegittimo: l’indennità risarcitoria dopo la decisione della Consulta
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 9268 del 3 aprile 2019, ha affermato che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato ad una lavoratrice in stato di gravidanza durante il periodo di preavviso è legittimo ma inefficace, al pari di quanto avviene per il recesso intimato in costanza di malattia o infortunio.
I fatti
La Corte d’Appello territorialmente competente, in riforma della sentenza di primo grado, aveva respinto la domanda di una lavoratrice di nullità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimatole, ai sensi dell’art. 54 del D.lgs. 151/2001. Nello specifico la Corte d’Appello aveva ritenuto che il licenziamento si fosse perfezionato alla data di ricevimento della relativa comunicazione, sebbene i suoi effetti fossero stati posticipati al termine del periodo di preavviso.
I giudici di merito avevano, infatti, individuato il momento di inizio dello stato oggettivo della gravidanza in base alla documentazione medica offerta in comunicazione ed alla CTU svolta in primo grado, accertando appunto che lo stesso risalisse ad una data successiva all’intimazione del licenziamento.
Avverso tale decisione la lavoratrice aveva proposto ricorso in Cassazione, eccependo, tra le altre, che la sopravvenienza nelle more del preavviso dello stato di gravidanza aveva reso operante la tutela di cui al D.lgs. 151/2001. Ciò in quanto il rapporto di lavoro durante il preavviso prosegue a tutti gli effetti con i connessi obblighi e diritti, salvo il consenso del lavoratore all’immediata o anticipata sua risoluzione.
La Corte di Cassazione adita ha confermato la decisione emessa dai giudici di secondo grado, respingendo il ricorso formulato dalla lavoratrice.
La decisione della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione ha evidenziato, riprendendo un suo consolidato orientamento, che il licenziamento, essendo un atto unilaterale recettizio, si perfeziona nel momento in cui la manifestazione di volontà del datore di lavoro giunge a conoscenza del lavoratore. E ciò indipendentemente dal fatto che l’efficacia – intesa come la produzione dell’effetto tipico, consistente nella risoluzione del rapporto di lavoro – venga differita ad un momento successivo.
In altri termini la verifica delle condizioni legittimanti l’esercizio del potere di recesso deve essere “compiuta con riferimento al momento in cui detto negozio unilaterale si è perfezionato e non già con riguardo, ove il licenziamento sia stato intimato con preavviso, al successivo momento della scadenza del preavviso stesso”.
Ed è proprio a questo principio che, secondo la Corte di Cassazione, si sono attenuti i giudici di merito allorquando hanno escluso la nullità del licenziamento ai sensi dell’art. 54 del D.lgs. 151/2001. Ciò sull’assunto che lo stesso sia stato intimato e si sia perfezionato nel momento in cui la lavoratrice non era in stato di gravidanza.
Sempre a parere della Corte di Cassazione, la Corte d’Appello ha fatto anche correttamente leva sulla formulazione dell’art. 54, comma 5, del D.lgs. 151/2001 che considera nullo il licenziamento intimato “dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine del periodo di interdizione dal lavoro nonché fino al compimento di un anno di età del bambino” e non al momento di produzione dei suoi effetti.
Orbene, lo stato di gravidanza insorto durante il periodo di preavviso non inficia la legittimità del licenziamento intimato alla lavoratrice antecedentemente. Tuttavia, la Suprema Corte ha ricordato che lo stato di gravidanza costituisce un evento idoneo, ai sensi dell’art. 2110 cod. civ., a determinare la sospensione del periodo di preavviso.
Ma nel caso in esame la lavoratrice ha dedotto soltanto la nullità del licenziamento e non anche l’inefficacia legata alla sospensione del preavviso, determinandone così il rigetto.
La Corte di Cassazione, con la sentenza 3147 del 1° febbraio 2019, ha osservato che il datore di lavoro può integrare in sede giudiziale le motivazioni rese in occasione del licenziamento se insufficienti o generiche.
I fatti
La Corte d’Appello territorialmente competente, confermando la sentenza di primo grado, aveva dichiarato legittimo il licenziamento intimato ad un dirigente, avente funzioni di “Direttore di stabilimento”.
Nello specifico la Corte d’Appello aveva affermato che:
Avverso la decisione della Corte d’Appello ricorreva i in cassazione il dirigente.
La decisione della Corte di Cassazione
A parere della Corte di Cassazione i giudici di merito hanno correttamente intrepretato l’art. 22 del CCNL dei Dirigenti Industria del 1985, valutando sia il tenore della sua clausola contrattuale sia la rilevanza attribuita dalle parti sociali alla carenza o incompletezza della motivazione del licenziamento, rilevanza che si desume dalla lettura completa della disposizione.
Nello specifico l’art. 22 prevede(va) che “nel caso di risoluzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, la parte recedente deve darne comunicazione per iscritto all’altra parte. Nel caso di risoluzione ad iniziativa dell’azienda, quest’ultima è tenuta a specificarne contestualmente la motivazione. Il dirigente ove ritenga che la motivazione addotta dall’azienda, ovvero nel caso in cui detta comunicazione non sia stata fornita contestualmente alla comunicazione di recesso, potrà ricorrere al Collegio arbitrale di cui all’art 19 (…)”.
Secondo la Corte di Cassazione, i giudici di merito hanno ben spiegato che:
In dettaglio, la Corte di Cassazione, ribadendo un suo precedente orientamento, ha evidenziato come il licenziamento del dirigente è da considerarsi illegittimo – con la conseguente condanna del datore di lavoro al pagamento dell’indennità supplementare come prevista dalla Contrattazione Collettiva – quando non è sorretto da alcun motivo o è sorretto da un motivo pretestuoso e dunque non corrispondente al vero.
Nel caso de quo, invece, il licenziamento era stato intimato a causa della soppressione della posizione di Direttore di stabilimento ricoperta dal dirigente, nell’ambito di una riorganizzazione delle strutture societarie. Licenziamento, peraltro, non scongiurabile giacché, come precisato nella lettera di licenziamento, non vi erano all’epoca dei fatti posizioni vacanti cui lo stesso dirigente avrebbe potuto essere assegnato.
La Corte di Cassazione ha, altresì, confermato come in fase istruttoria era stato dimostrato che dopo il licenziamento del dirigente nessun altro direttore era stato assunto al suo posto e che la direzione dello stabilimento era stata avocata dalle due figure gerarchicamente sovraordinate a quelle del dirigente.
In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione ha affermato il seguente principio di diritto “Qualora la motivazione del licenziamento di un dirigente non sia stata resa (ovvero, risulti insufficiente o generica), il datore di lavoro, nel rispetto del principio del contraddittorio ex art. 19, comma 3 del ccnl citato (ndr CCNL Dirigenti Industria), può esplicitarla (od integrarla) nell’ambito del giudizio arbitrale, e, nell’ipotesi in cui il dirigente abbia scelto, in conformità al principio di alternatività delle tutele nelle controversie del lavoro, di adire direttamente il giudice ordinario, analoghe facoltà vanno riconosciute alla parte datoriale nell’ambito del processo”. In caso contrario, secondo la Corte di Cassazione, la posizione del datore di lavoro verrebbe ad essere compromessa per effetto di una autonoma ed insindacabile determinazione della controparte.
La Corte di Cassazione, con sentenza 4670 del 18 febbraio 2019, ha affermato che i controlli, demandati dal datore di lavoro ad agenzie investigative, sono consentiti se finalizzati a verificare comportamenti del dipendente che possono configurare ipotesi penalmente rilevanti od integrare attività fraudolente, fonti di danno per il datore medesimo.
I fatti
Una società, operante nel settore dell’industria alimentare, aveva scoperto, per il tramite di un’agenzia di investigazione privata, che nei giorni 22, 23 e 24 dicembre 2014 nonché nei giorni 22 e 23 gennaio 2015 e 5 febbraio 2015, un proprio dipendente, anziché prestare assistenza al familiare per il quale aveva chiesto un permesso ex art. 33 della Legge 104/1992, aveva svolto attività varie di tipo personale (presso esercizi commerciali ed altri luoghi comunque diversi da quello deputato all’assistenza).
Pertanto, la società aveva azionato un procedimento disciplinare nei confronti del dipendente all’esito del quale aveva adottato nei suoi confronti la sanzione espulsiva del il licenziamento per giusta causa.
Il lavoratore aveva adito, dunque, il Tribunale del lavoro affinché dichiarasse illegittimo il licenziamento in questione con tutte le conseguenze di legge che ne sarebbero derivate.
Il Tribunale, pur scorporando dalla contestazione disciplinare le giornate del 22, 23 e 24 dicembre in quanto giorni feriali, avendo l’azienda deciso di sospendere l’attività lavorativa per le festività natalizie, aveva respinto la domanda del lavoratore, dichiarando legittimo il licenziamento.
Il lavoratore aveva così proposto reclamo dinanzi la Corte di Appello territorialmente ai sensi della L. n. 92 del 2012, adducendo altresì che l’agenzia investigativa non avesse la licenza per eseguire l’attività di investigazione.
La Corte di Appello aveva confermato la sentenza di primo grado e, in particolare, aveva dichiarato legittimo il licenziamento sull’assunto che i controlli investigativi finalizzati all’accertamento dell’utilizzo improprio dei permessi ex L. 104/1992 non avevano riguardato l’adempimento della prestazione. Ciò in quanto essi erano stati effettuati al di fuori dell’orario di lavoro ed in fase di sospensione dell’obbligazione principale di rendere tale prestazione.
La Corte distrettuale aveva ritenuto, quindi, utilizzabili gli esiti di tale investigazione e così anche delle dichiarazioni testimoniali rese dagli investigatori che avevano effettuato i controlli, non senza rilevare la tardività delle deduzioni in ordine alla mancanza della licenza prefettizia in favore dell’agenzia investigativa incaricata degli accertamenti.
In conclusione, la Corte aveva ritenuto integrato un abuso del diritto di cui all’art. 33 della L. 104/1992, in violazione dell’affidamento riposto nel dipendente ed integrante una condotta così grave da giustificare l’adottato provvedimento pur in assenza di precedenti disciplinari.
Il lavoratore ricorreva così in cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello.
La decisione della Corte
La Corte di Cassazione adita, nel confermare la decisione della Corte di Appello territorialmente competente, ha:
Secondo la Corte di Cassazione le agenzie per operare lecitamente non devono sconfinare nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria, riservata, dall’art. 3 dello Statuto, direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori. E’, pertanto, giustificato l’intervento in questione non solo per l’avvenuta perpetrazione di illeciti e l’esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione (v. Cass. 14 febbraio 2011, n. 3590; Cass. 20 gennaio 2015, n. 848).
A parere della Corte a quanto detto non ostano sia il principio di buona fede sia il divieto di controllo a distanza di cui all’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, ben potendo il datore di lavoro decidere autonomamente come e quando compiere il controllo, anche occulto, ed essendo il lavoratore tenuto ad operare diligentemente durante il rapporto di lavoro (cfr Cass. 10 luglio 2009, n. 16196). Ciò in quanto la condotta assunta dal lavoratore:
Conclusioni
Dalla sentenza in commento si evince, in sostanza, che il datore di lavoro può legittimamente rivolgersi ad una agenzia investigativa al fine di verificare se, durante i periodi di sospensione del rapporto di lavoro per assistenza familiare, il lavoratore anziché assistere il familiare disabile, svolga altra attività e, nel caso di accertamento positivo, può legittimamente procedere con il licenziamento.
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Attività investigativa: accertamento atti illeciti non riconducibili alla prestazione lavorativa