La Corte di Cassazione, con l’ordinanza 25561 del 12 ottobre 2018, è tornata a pronunciarsi in merito ai termini di impugnazione del licenziamento individuale intimato oralmente; di fatto, è stato ribadito il concetto secondo il quale, in presenza di tale tipologia di licenziamento, non opera il termine decadenziale dei 60 giorni, bensì solo quello prescrizionale dei 5 anni.
Il Fatto
La vicenda trae origine da un ricorso presentato in cassazione avverso la decisione della Corte d’Appello territorialmente competente, la quale aveva ritenuto non censurabile la pronuncia di primo grado con cui era stata dichiarata l’inefficacia di un licenziamento intimato oralmente.
Nello specifico, la Corte distrettuale aveva ritenuto, tra le altre, infondata la censura dell’appellante attinente l’avvenuta decadenza del lavoratore dal potere proporre impugnazione avverso il licenziamento, ritenendo applicabile la previsione di cui all’art. 6 della Legge 604/1966 alla luce della incontestata oralità del recesso in questione.
La Corte di Cassazione investita della decisione rigettava il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.
Dei due motivi dedotti in cassazione, in questa sede affronteremo il secondo, ovvero l’asserita violazione e/o falsa applicazione dell’art. 6 della Legge n. 604/1966 e successive modifiche, e dunque il supposto illegittimo rigetto dell’eccezione preliminare di intervenuta decadenza, per omessa impugnativa.
Secondo l’appellante i giudici di merito non avevano rilevato l’omessa impugnazione del licenziamento nei termini di legge e, in ogni caso, la mancanza di una impugnazione formalmente valida antecedente all’instaurazione di un giudizio finalizzato alla declaratoria di illegittimità del recesso.
La decisione della Cassazione
Il dato normativo da cui è partita la Corte di Cassazione è stato proprio il succitato art. 6, comma 1, come modificato dall’art. 32 della Legge n. 183/2010, che così recita: “il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch’essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore (…)”. Impugnazione questa che si considera inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di 180 giorni, dal deposito del ricorso presso la cancelleria del tribunale in funzione del giudice del lavoro (art. 6, comma 2, L. 604/1966).
Di fatto, con l’ordinanza in analisi, la Suprema Corte ha sposato il proprio consolidato orientamento (inter alia, Cass. Sez. Lav., Sent. 20 maggio 2016, n. 10547; nonché Sent. 9 novembre 2015, n. 22825), in base al quale l’azione volta a far valere l’inefficacia del licenziamento orale è sottratta all’onere dell’impugnazione stragiudiziale, in ragione dell’assenza dell’atto scritto da cui l’art. 6 in parola possa far decorrere il termine di decadenza per proporre impugnazione.
Nel caso di specie, dunque, risultando incontestata l’oralità del licenziamento, la Corte d’Appello, a parere della Cassazione, ha correttamente considerato inapplicabile il termine di 60 giorni di cui all’art. 6 della Legge 604/1966, con la conseguenza che il licenziamento risulta assoggettato al solo termine prescrizionale.
Conclusioni
In sostanza, il lavoratore licenziato oralmente, stando alla pronuncia in esame ed all’orientamento dalla stessa richiamato, non è tenuto ad impugnare il provvedimento espulsivo entro 60 giorni (termine decadenziale). Il lavoratore può, quindi, contestarlo nel termine prescrizionale di cinque anni ex art. 1442 c.c. dalla sua comunicazione.
La Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 21965 del 10 settembre 2018, è tornata a pronunciarsi sul noto dibattito dei limiti sussistenti tra diritto di critica e insubordinazione, confermando la decisione di merito. Con la pronuncia in esame è stato dichiarato illegittimo il licenziamento intimato ai danni di un dipendente, resosi autore di aver proferito frasi ritenute dal datore di lavoro diffamanti. Nello specifico, il dipendente, all’epoca dei fatti RSA per una determinata sigla sindacale, era stato scovato nell’atto di esternalizzare, tramite chat su Facebook, frasi dal contenuto ingiurioso, critico e offensivo nei confronti dell’amministratore della società sua datrice di lavoro, appellandolo quale schiavista. La Corte di Cassazione, investita della questione, ha statuito che nel caso in esame non ricorrevano gli estremi della diffamazione, in quanto il lavoratore aveva proferito le frasi in oggetto all’interno di una chat privata, il cui accesso era consentito solo agli iscritti alla sigla sindacale cui lo stesso apparteneva. Sul punto, la Corte di Cassazione ha chiarito che il luogo digitale ove tale attività era stata compiuta doveva essere considerato quale “luogo digitale di dibattito e scambio di opinioni chiuso all’esterno”; dunque, luogo riservato e sicuro che, in quanto tale, determina in capo a chi vi si inserisce l’attribuzione di un insieme di diritti, tra i quali quello alla riservatezza e alla libertà di corrispondenza. A sostegno della propria la Corte di Cassazione ha evidenziato che (i) l’art. 15 dello Statuto dei Lavoratori considera inviolabili “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione”, dovendosi intendere la segretezza come espressione della più ampia libertà di comunicare liberamente con soggetti predeterminati, e quindi come pretesa che soggetti diversi dai destinatari selezionati dal mittente non prendano illegittimamente conoscenza del contenuto di una comunicazione e (ii) la tutela della segretezza presuppone, oltre che la determinatezza dei destinatari e l’intento del mittente di escludere terzi dalla sfera di conoscibilità del messaggio, l’uso di uno strumento che denoti il carattere di segretezza o riservatezza della comunicazione. Inoltre, la Corte, rinviando ad un suo precedente, ha rimarcato che il diritto tutelato dall’art. 15 della Cost. “comprende tanto la corrispondenza quanto le altre forme di comunicazione, incluse quelle telefoniche, elettroniche, informatiche, tra presenti o effettuate con altri mezzi resi disponibili dallo sviluppo della tecnologia”. Di conseguenza l’esigenza di tutela della segretezza nelle comunicazioni si rivolge anche ai messaggi di posta elettronica scambiati tramite mailing list riservata agli aderenti ad un determinato gruppo di persone, newsgroup o chat private, con accesso condizionato al possesso di una password rilasciata a soggetti determinati. Concludendo, la Corte di Cassazione ha precisato che legittimare un licenziamento per i fatti sottoposti al su esame vorrebbe dire legittimare l’intromissione del datore di lavoro all’interno della libertà di critica nonché, considerando le circostanze, all’interno della libertà sindacale stessa, che verrebbe necessariamente ed inevitabilmente svilita. In considerazione di tutto quanto sopra la Corte di Cassazione ha ordinato la reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro precedentemente occupato ed il risarcimento dei danni.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21438 del 30 agosto 2018, è intervenuta nuovamente in tema di licenziamento per soppressione della posizione. Nello specifico, un lavoratore aveva, tra le altre, impugnato il licenziamento intimatogli chiedendone l’annullamento poiché ritorsivo ed il, conseguente, pagamento in suo favore dell’indennità sostitutiva della reintegra, corrispondente a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita, ed il risarcimento del danno da quantificarsi in 14 mensilità sempre della sua ultima retribuzione globale di fatto. La Corte d’appello, nel riformulare la sentenza di primo grado pur non riconoscendo la sua natura discriminatoria, riteneva il licenziamento illegittimo. Ciò in quanto la società non aveva dimostrato, a suo parere, le ragioni per le quali la scelta era ricaduta proprio sul ricorrente e non su altri dipendenti che svolgevano le medesime mansioni ed avevano una minore anzianità aziendale. La Corte d’appello, non ritenendo sussistente i presupposti del regime di tutela reale, condannava la società datrice di lavoro al pagamento di una indennità risarcitoria nella misura di 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita dal lavoratore. Nel ricorrere in cassazione avverso tale decisione la società eccepiva, tra le altre cose, che nella fase di merito aveva provato che (i) la chiusura del reparto cui era addetto il lavoratore si era resa necessaria per far fronte ad una crisi aziendale e (ii) nella prosecuzione dell’attività, aveva privilegiato l’utilizzo di semi lavorati, salvaguardando così un altro settore. Pertanto, a suo parere, non potevano essere licenziati i dipendenti addetti a detto settore, non avendo il lavoratore mai prestato la sua attività al suo interno e non possedendo le necessarie competenze. La Corte di Cassazione ha ritenuto questo motivo inammissibile sull’assunto che i giudici di merito avevano accertato che “vi era stata una mera riduzione dell’attività” e che la stessa “aveva ritenuto di privilegiare alcuni settori di attività senza abolirne”. La società lamentava, altresì, la violazione e falsa applicazione dell’art. 5 della Legge n. 223/1991, in quanto il licenziamento non era stato dovuto ad una riduzione del personale omogeneo e fungibile ma alla soppressione di un settore di attività, il solo cui era addetto il lavoratore. Censura anche questa respinta dalla Corte di Cassazione. Sul punto, richiamando suo precedenti, la Corte di Cassazione, ha dapprima evidenziato che il giustificato motivo di licenziamento è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa ai sensi dell’art. 41 della Cost. La Corte di Cassazione ha, poi, ribadito che licenziamento per giustificato motivo oggettivo si considera legittimo se ricorrono le condizioni di cui all’art. 3 della L. n. 604/1966, ossia: a) la soppressione del reparto /posto cui è addetto il dipendente, senza che sia necessaria la soppressione di tutte le mansioni in precedenza attribuite allo stesso; b) la riferibilità della soppressione a progetti o scelte datoriali – insindacabili dal giudice quanto ai profili di congruità e opportunità, purché effettivi e non simulati – diretti ad incidere sulla struttura e sull’organizzazione aziendale; c) l’impossibilità di reimpiego del lavoratore in mansioni diverse. La Corte di Cassazione rimarca, inoltre, che l’onere probatorio in ordine alla sussistenza di questi presupposti è a carico del datore di lavoro, che può assolverlo anche mediante ricorso a presunzioni, restando escluso che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili. Sempre, secondo la Corte, quando il giustificato motivo oggettivo si identifica nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, non sono utilizzabili né il normale criterio della posizione lavorativa da sopprimere in quanto non più necessaria, né il criterio della impossibilità di repechage (in quanto tutte le posizioni lavorative sono equivalenti e tutti i lavoratori sono potenzialmente licenziabili). Ciononostante, la scelta del dipendente da licenziare non è rimessa all’assoluta discrezionalità del datore di lavoro, risultando limitata, oltre che dal divieto di atti discriminatori, dalle regole di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c.. Sul punto la Corte di Cassazione ha evidenziato che in giurisprudenza ci si è posto il problema di individuare in concreto i criteri che consentano di ritenere la scelta conforme a detti principi, giungendo alla conclusione che, pur nella diversità dei rispettivi regimi, si debba rinviare ai criteri di cui all’art. 5 della L. 223/1991 per i licenziamenti collettivi laddove l’accordo sindacale non abbia indicato criteri di scelta diversi. Conseguentemente, secondo la Corte di Cassazione, nel caso in esame possono essere presi in considerazione, in via analogica, i criteri dei carichi di famiglia e dell’anzianità di servizio atteso che non assumono rilievo le esigenze tecnico – produttive e organizzative, data la totale fungibilità tra i dipendenti. In altri termini, secondo la Corte di Cassazione, pur in presenza di più posizioni fungibili ove non sia utilizzabile il criterio dell’impossibilità di “repechage”, il datore di lavoro deve individuare il soggetto da licenziare secondo i principi di correttezza e buona fede. E tali principi possono ritenersi rispettati se il datore di lavoro nella scelta delle persone da licenziare, avrà tenuto conto dei criteri utilizzati nei licenziamenti collettivi (carichi di famiglia e anzianità di servizio).
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 20761 del 17 agosto 2018, è tornata ad occuparsi della fattispecie del licenziamento per superamento del periodo di comporto, confermando il proprio orientamento sui potenziali vizi formali che potrebbero inficiarne la validità. La pronuncia prende le mosse dal giudizio d’impugnazione promosso da un lavoratore contro il licenziamento intimatogli per superamento del periodo di comporto, la cui legittimità era già stata confermata in entrambi i giudizi di merito. Tra le ragioni poste a fondamento del ricorso, il lavoratore aveva denunciato la falsa applicazione delle norme applicabili, avendo omesso il datore di lavoro di informarlo dell’approssimarsi del termine del periodo di comporto. Mancanza questa che, a suo dire, gli avrebbe impedito di esercitare il diritto – riconosciuto dalla contrattazione collettiva – di richiedere un periodo di aspettativa non retribuita superato tale termine. La Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento, precisando e ribadendo che non è ipotizzabile un obbligo per il datore di lavoro di segnalare al lavoratore l’imminente scadenza del comporto e che un simile onere non sarebbe individuabile estensivamente neppure in base ai principi di correttezza e buona fede. La Corte ha infatti rilevato come tale tipo di comunicazione “servirebbe in realtà a consentire al dipendente di porre in essere iniziative, quali richieste di ferie o aspettativa, sostanzialmente elusive dell’accertamento della sua inidoneità ad adempiere l’obbligazione” ciò essendo sufficiente ad escludere siffatto obbligo di informazione. La Corte di Cassazione ha, quindi, colto l’occasione per ribadire il proprio orientamento anche in relazione ad altri profili afferenti tale tipologia di licenziamento. Infatti, da un lato, la Corte di Cassazione ha sottolineato che anche le domeniche e i giorni festivi non coperti da certificato medico, ma compresi tra periodi di malattia distinti, vadano computati ai fini del calcolo del comporto, salvo che sia fornita prova dell’effettiva interruzione della malattia in tali giornate. Per altro verso, la Corte di Cassazione ha osservato che l’obbligo di comunicare i motivi contestualmente al licenziamento per superamento del periodo di comporto, non richiede l’indicazione delle singole assenze, ritenendosi sufficiente – come accaduto nel caso di specie – l’indicazione della durata complessiva delle assenze. Il recesso per superamento del periodo di comporto non è, infatti, assimilabile ad un licenziamento per giusta causa e, quindi, solo impropriamente si può parlare, con riguardo ad esso, di contestazione delle assenze. Il datore di lavoro può, a parere della Corte di Cassazione, indicare il numero totale delle assenze verifcatesi in determinato arco temporale, fermo restando l’onere, in un eventuale giudizio, a carico dello stesso di allegare e provare i fatti costitutivi del potere esercitato.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 15523/2018, ha avuto modo di chiarire, nuovamente, alcuni profili rilevanti del licenziamento intimato a conclusione di un procedimento disciplinare ex art. 7 della L. 300/1970. I giudici della Suprema Corte, infatti, sono tornati sulla annosa e controversa questione relativa alla possibilità di ricondurre il fatto contestato con la lettera di avvio del procedimento disciplinare ad una diversa ipotesi disciplinare. Sul punto la Corte ha ricordato come tale possibilità non sia preclusa in quanto si tratterebbe esclusivamente di un diverso apprezzamento di uno stesso fatto oggetto di contestazione, in relazione al quale il lavoratore ha, quindi, avuto modo di esercitare il proprio diritto di difesa. Contrariamente, è stato anche ribadito come al datore di lavoro sia preclusa la possibilità di addurre circostanze fattuali nuove e/o ulteriori rispetto a quelle oggetto della contestazione, in quanto tale condotta lederebbe, irrimediabilmente, il diritto di difesa del lavoratore che non avrebbe, in questo modo, occasione di presentare le proprie giustificazioni in relazione a tali circostanze. La Suprema Corte conferma così il suo orientamento secondo il quale è necessario che vi sia una piena coincidenza tra i fatti contestati e quelli posti a fondamento del licenziamento disciplinare.