La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 19731 del 25 luglio 2018, si è recentemente pronunciata sull’obbligo di repêchage. Nel caso specifico un lavoratore aveva impugnato giudizialmente il licenziamento intimatogli per la chiusura del reparto cui era addetto, sostenendo la sua illegittimità per violazione appunto dell’obbligo di repêchage. Ciò in quanto (i) la società ex datrice di lavoro aveva proceduto, dopo il suo recesso, ad assumere forza lavoro con continuità e con ripetuti contratti di somministrazione e (ii) i contratti di somministrazione recavano causali non rispondenti alle reali mansioni poi espletate dai somministrati, mansioni per le quali finanche aveva dichiarato la propria disponibilità. Di fatto, confermando quanto stabilito dai giudici di merito, la Suprema Corte nel respingere il ricorso del lavoratore ha osservato che il datore di lavoro, soggetto ad un protratto periodo di crisi di risultati e difficoltà economica, può ridurre il proprio organico. E secondo la Corte può farlo, ridistribuendo al personale residuo le mansioni in precedenza assegnate al lavoratore licenziato oppure ricorrendo, per tempi assolutamente limitati, a risorse esterne assunte con contratto a termine oppure a lavoratori somministrati. Inoltre, secondo la Corte il ricorso al lavoro straordinario da parte del datore di lavoro dopo il suo licenziamento, anch’esso eccepito dal lavoratore a sostegno della propria azione, si spiega in questa ottica. Ciò in quanto il maggiore esborso per le maggiorazioni salariali dovute ai lavoratori impiegati in extra time sono senz’altro inferiori ai costi per il mantenimento di una unità assunta a tempo indeterminato.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 22295/2017, ha statuito che il licenziamento intimato ad un lavoratore a mezzo raccomandata inviata al suo vecchio indirizzo di residenza è valido qualora lo stesso abbia omesso di comunicare nei termini di cui al CCNL il cambio di residenza. Nel caso di specie, il datore di lavoro, accortosi medio tempore del cambio di residenza della dipendente interessata, provvedeva poi ad inviarle un secondo licenziamento al nuovo indirizzo. Ed il Tribunale nonché la Corte D’Appello aditi avevano dichiarato nullo il secondo licenziamento poiché avvenuto oltre il termine di 6 giorni previsto dal CCNL di settore ed irrilevante il primo in quanto inviato all’indirizzo sbagliato. Non dello stesso avviso, però, è stata la Corte di Cassazione. Quest’ultima, proprio prendendo a riferimento la disposizione del CCNL secondo cui i lavoratori sono tenuti a comunicare gli eventuali mutamenti di residenza e di domicilio, ha osservato che detta disposizione “impone, anche in ossequio al principio di buona fede e correttezza che regola il rapporto di lavoro, che il lavoratore comunichi per iscritto eventuali successive variazioni di residenza o di domicilio in modo da rendere tempestivamente edotto il datore di lavoro dell’indirizzo ove lo stesso può essere reperibile”. Di conseguenza, a parere della Corte, il primo licenziamento deve ritenersi validamente comunicato alla lavoratrice, nei cui confronti verrebbe così ad operare una presunzione di conoscenza della corrispondenza.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 25147/2017, ha stabilito che è legittimo il licenziamento del dipendente che copia su una pen drive personale, senza autorizzazione del datore di lavoro, alcuni dati aziendali riservati, anche se queste informazioni non vengono divulgate a terzi.  Ciò in quanto la violazione dei doveri contrattuali si verifica anche quando una certa condotta, pur non producendo un danno concreto, ha una intrinseca potenzialità lesiva degli interessi del datore di lavoro. La Corte ha ritenuto, infatti, che il licenziamento fosse legittimo in quanto la condotta contestata al dipendente era da considerarsi censurabile in base alla previsione dell’art. 52 del CCNL del settore chimico applicato in azienda. Nello specifico, il predetto articolo contempla tra le ipotesi sanzionabili con il recesso, il furto, il danneggiamento volontario di beni dell’impresa ed il trafugamento di disegni, utensili e schede di proprietà aziendale. E secondo i Giudici di legittimità la semplice copiatura di dati rientra in tali ipotesi, avendo ravvisato nel comportamento del lavoratore una condotta consapevole, rispetto alla quale era del tutto irrilevante la mancanza di adozione di misure informatiche da parte del datore di lavoro atte a proteggere i dati stessi.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21667 del 19 settembre 2017, ha affermato che lo svolgimento da parte del dipendente malato di una attività lavorativa durante la malattia non sempre giustifica un licenziamento in tronco. I giudici di legittimità nel decidere in tal senso hanno richiamato quell’orientamento giurisprudenziale secondo cui l’espletamento di attività lavorativa in costanza di malattia costituisce illecito disciplinare allorquando (i) faccia presumere l’assenza della malattia stessa oppure (ii) pregiudichi o ritardi la guarigione ed il conseguente rientro in servizio. Con specifico riferimento al caso in esame la Cassazione ha chiarito che la condotta del dipendente malato – consistente nell’essersi recato con la propria autovettura presso l’esercizio commerciale del figlio per svolgervi attività operative, quali quelle relative allo spostamento di piccoli carichi nonché alla movimentazione di una saracinesca – non ha costituito di per sé violazione dei doveri di correttezza e buona fede cui lo stesso deve sottostare al fine di non ritardare la guarigione. Ciò in quanto l’attività extra lavorativa del dipendente malato era così modesta da poter essere posta in essere senza attentare alla integrità fisica e, dunque, senza poter procrastinare inutilmente i termini di guarigione, con conseguente illegittimità del recesso datoriale adottato nei suoi confronti.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 19103 del 1° agosto 2017, ha confermato l’illegittimità del licenziamento disciplinare intimato ad una lavoratrice resasi responsabile d’aver fornito informazioni riservate in merito all’azienda presso cui era in forza, esprimendo anche giudizi denigratori sulla stessa, ed ai suoi dipendenti, ad un ex collega poi assunto da una società concorrente. Il caso di specie fa riferimento all’epilogo di un procedimento disciplinare che si fondava su una contestazione del tutto generica. Al riguardo la Corte d’Appello territorialmente competente, in riforma della sentenza di primo grado, aveva statuito che “la contestazione disciplinare risultava formulata in termini generici, recando riferimenti a fatti privi di collocazione temporale e riferiti a soggetti non specificati”, motivo per il quale non poteva che dichiararsi priva di effetto. Ed il giudice di legittimità, investito poi della questione, nel confermare la decisione di secondo grado ha avuto modo di ribadire l’ormai unanime orientamento giurisprudenziale secondo cui le contestazioni disciplinari devono presentare i caratteri della “specificità, immediatezza ed immutabilità. Ciò in quanto essi sono  “volti a garantire il diritto di difesa del lavoratore incolpato, diritto che sarebbe compromesso qualora si consentisse al datore di lavoro di intimare il licenziamento in relazione a condotte rispetto alla quali il dipendente non è stato messo in condizione di discolparsi, perché non tempestivamente contestate, perché diverse dalle condotte oggetto della iniziale contestazione, perché non adeguatamente definite nelle loro modalità essenziali ed essere così esattamente individuabili”. Orbene una lettera di contestazione priva dei requisiti della specificità, della immediatezza e della immutabilità vizia l’intero procedimento disciplinare determinando, di conseguenza, la nullità del provvedimento sanzionatorio all’esito eventualmente irrogato.