La Corte di Cassazione, con sentenza n. 20130 del 17 agosto 2017, è tornata a pronunciarsi sul tema della proporzionalità della sanzione disciplinare inflitta al dipendente rispetto alla condotta manchevole dallo stesso assunta, ai sensi dell’art. 2106 cod. civ. Nel caso di specie il licenziamento aveva interessato l’orchestrale di una Fondazione che si era assentato ripetutamente agli esami di verifica artistica per una asserita insufficiente condizione psicofisica, presentando, solo in talune occasioni, certificati medici. La Fondazione aveva, quindi, proceduto alla estromissione dell’orchestrale all’esito di apposito procedimento disciplinare sull’assunto che lo stesso, assentandosi alle visite di verifiche, aveva impedito di poter appurare il permanere delle condizioni professionali necessarie per la sua partecipazione al corpo orchestrale. Al riguardo la Corte di Cassazione, richiamando suoi precedenti, ha ribadito che “in tema di licenziamento disciplinare (…) il principio di proporzionalità della sanzione all’infrazione richiede che il giudice proceda all’accertamento della gravità del fatto contestato sotto il profilo oggettivo e soggettivo, potendosi quest’ultimo connotare da un punto di vista psicologico sia dall’elemento della colpa che di quello del dolo”.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 19103 del 1° agosto 2017, ha confermato l’illegittimità del licenziamento disciplinare intimato ad una lavoratrice resasi responsabile d’aver fornito informazioni riservate in merito all’azienda presso cui era in forza, esprimendo anche giudizi denigratori sulla stessa, ed ai suoi dipendenti, ad un ex collega poi assunto da una società concorrente. Il caso di specie fa riferimento all’epilogo di un procedimento disciplinare che si fondava su una contestazione del tutto generica. Al riguardo la Corte d’Appello territorialmente competente, in riforma della sentenza di primo grado, aveva statuito che “la contestazione disciplinare risultava formulata in termini generici, recando riferimenti a fatti privi di collocazione temporale e riferiti a soggetti non specificati”, motivo per il quale non poteva che dichiararsi priva di effetto. Ed il giudice di legittimità, investito poi della questione, nel confermare la decisione di secondo grado ha avuto modo di ribadire l’ormai unanime orientamento giurisprudenziale secondo cui le contestazioni disciplinari devono presentare i caratteri della “specificità, immediatezza ed immutabilità”. Ciò in quanto essi sono “volti a garantire il diritto di difesa del lavoratore incolpato, diritto che sarebbe compromesso qualora si consentisse al datore di lavoro di intimare il licenziamento in relazione a condotte rispetto alla quali il dipendente non è stato messo in condizione di discolparsi, perché non tempestivamente contestate, perché diverse dalle condotte oggetto della iniziale contestazione, perché non adeguatamente definite nelle loro modalità essenziali ed essere così esattamente individuabili”. Orbene una lettera di contestazione priva dei requisiti della specificità, della immediatezza e della immutabilità vizia l’intero procedimento disciplinare determinando, di conseguenza, la nullità del provvedimento sanzionatorio all’esito eventualmente irrogato.
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 15204 del 20 giugno 2017, è intervenuta in materia di licenziamento disciplinare intimato ad un dirigente senza previo esperimento della procedura di cui all’art. 7 della L. 300/1970. La Suprema Corte, richiamando alcune recenti pronunce, anche a Sezioni Unite (Cass. n. 2553 del 10 febbraio 2015, Cass. Sez. Un. N. 7880 del 6-30 marzo 2007), ha chiarito che “le garanzie procedimentali dettate dall’articolo 7 della legge 300/1970 sono espressione di un principio di generale garanzia fondamentale a tutela di tutte le ipotesi di licenziamento disciplinare”, che trova applicazione a tutti i rapporti di lavoro subordinato, senza distinzione tra i dipendenti in relazione alla loro collocazione apicale. Una diversa interpretazione si porrebbe in contrasto con gli interventi del giudice delle leggi, perché riesuma “una vecchia e ormai logora nozione di dirigente, inteso quale alter ego dell’imprenditore”, e sarebbe in violazione del principio “audiatur et altera pars”, come indefettibile garanzia del prestatore di lavoro. D’altronde, sostiene la Corte, i dirigenti rientrano espressamente nella catalogazione dell’art. 2095 cod. civ. e, come tali, partecipano alla disciplina dettata per il prestatore di lavoro subordinato in generale. In difetto di attivazione delle garanzia procedimentali in esame, le conseguenze risarcitorie saranno, quindi, quelle dettate dalla contrattazione collettiva per il licenziamento privo di giustificazione (condanna al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso e dell’indennità supplementare).
Il Tribunale di Catania, sezione lavoro, richiamando un precedente del Tribunale di Firenze, ha dichiarato, con propria ordinanza del 27 giugno 2017, legittimo il licenziamento intimato ad una dipendente via whatsapp. A parere del Tribunale il mezzo utilizzato dal datore di lavoro ha comunque assolto all’onere della forma scritta trattandosi di un documento informativo che la lavoratrice licenziata, nel caso di specie, ha con certezza imputato al datore di lavoro, tanto da impugnarlo tempestivamente. Al riguardo il Tribunale ha ricordato che secondo la Suprema Corte “non sussiste per il datore di lavoro l’onere di adottare forme sacramentali” potendo “la volontà di licenziare essere comunicata al lavoratore anche in forma indiretta purché chiara”. Nella stessa ordinanza il Tribunale ha preso, altresì, posizione sull’eccezione di difetto di legittimazione del soggetto che ha intimato il licenziamento sollevata dal lavoratrice, essendo stato il provvedimento sottoscritto dal direttore tecnico e non dal datore di lavoro. Nel rigettarla il Tribunale ha ricordato che la disciplina di cui all’art. 1399 cod. civ., che prevede la possibilità di ratifica con effetto retroattivo – ma con salvezza dei diritti dei terzi – del contratto concluso dal soggetto privo dei poteri di rappresentanza, è applicabile ai sensi dell’art. 1324 cod. civ, anche a negozi unilaterali come il licenziamento.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 14871 del 15 giugno 2017, richiamando un proprio orientamento giurisprudenziale, ha affermato che, nell’ambito di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ai fini della configurabilità dell’ipotesi di soppressione della posizione non è necessario che vengano soppresse tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore licenziato, ben potendo le stesse essere diversamente ripartite ed attribuite “secondo insindacabile scelta imprenditoriale”. Ciò in quanto, a parere della Cassazione, proprio nella nozione di licenziamento per giustificato motivo oggettivo è riconducibile anche l’ipotesi del riassetto organizzativo dell’azienda al fine di una sua più economica gestione decisa dall’imprenditore “non semplicemente per un incremento di profitto ma per far fronte a sfavorevoli situazioni, non meramente contingenti, influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva, imponendo una effettiva necessità di riduzione dei costi”. Pertanto, il giudice non può sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, spettandogli solo il potere di controllare la reale sussistenza del motivo addotto a fondamento del provvedimento espulsivo, ossia l’effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato.