Con la sentenza n. 31866/2024, la Corte di Cassazione ha chiarito i confini della giusta causa di licenziamento connessa a condotte extralavorative.
La vicenda riguarda un lavoratore, conducente di autobus, licenziato per giusta causa dopo essere stato condannato alla pena detentiva di due anni e sei mesi di reclusione per violenza sessuale, maltrattamenti familiari e lesioni personali.
A seguito dell’impugnazione del licenziamento, con cui il dipendente ha sostenuto l’estraneità delle proprie condotte rispetto all’attività lavorativa, sia il Tribunale sia la Corte d’Appello confermavano la legittimità del recesso per giusta causa.
La Corte Territoriale ha ritenuto, infatti, che la commissione da parte del dipendente, in un lungo arco temporale, di plurimi fatti di significativa gravità (“l’atto di violenza sessuale nei confronti della moglie, i maltrattamenti con umiliazioni ed atteggiamenti prevaricatori verso la stessa, giudicati con il carattere della abitualità, nonché le lesioni personali“) integrasse la giusta causa di licenziamento.
Ciò anche in ragione della concreta possibilità che il lavoratore, conducente di autobus, potesse perdere l’autocontrollo e venir meno agli essenziali obblighi di rispetto e di diligenza nei confronti degli utenti del servizio o di terzi, atteso che le mansioni svolte comportavano la guida di veicoli nel traffico e il costante contatto con il pubblico.
Nel valutare la legittimità del licenziamento, la Corte d’Appello ha altresì tenuto conto della responsabilità e della posizione di garanzia assunta dal datore di lavoro nei confronti dei terzi circa la idoneità del personale che opera a contatto con il pubblico (ai sensi dell’art. 2043 c.c.), nonché nei confronti dei propri dipendenti (ex art. 2087 c.c.) ed ha valutato, infine, i precedenti disciplinari a carico del lavoratore medesimo connessi ad episodi di insubordinazione o perdita di controllo.
Il lavoratore impugnava la pronuncia resa dalla Corte Territoriale, proponendo ricorso avanti alla Suprema Corte sulla base di plurimi motivi.
Nel confermare la sentenza resa dalla Corte d’Appello, la Cassazione ha statuito che:
La Suprema Corte ha poi evidenziato che la Corte Territoriale, lungi dallo stabilire un automatismo tra la condanna penale e l’integrazione della giusta causa di licenziamento, ha ben colto le implicazioni negative dei fatti penalmente illeciti sulla regolare esecuzione della prestazione, nel rispetto degli obblighi facenti capo al lavoratore e posti a tutela degli utenti del servizio pubblico; del pari la Corte territoriale ha correttamente valutato – con apprezzamento di merito insindacabile in sede di legittimità – i precedenti disciplinari dell’odierno ricorrente, sintomatici di insubordinazione e perdita di controllo.
Pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 28 dicembre 2024, il c.d. “Collegato Lavoro” – recante disposizioni in materia di lavoro, d’iniziativa governativa e collegato alla legge di bilancio – entrerà definitivamente in vigore dal prossimo 12 gennaio.
Tra le principali modifiche introdotte:
La Corte di Cassazione, con la recente ordinanza n. 26765 del 15 ottobre 2024, ha respinto il ricorso di un informatore scientifico del farmaco, licenziato dopo essere stato sorpreso dal datore di lavoro a mentire sulle visite effettuate ad alcuni medici indicate nel proprio resoconto mensile.
La vicenda trae origine dal ricorso proposto da un informatore farmaceutico contro il licenziamento per giusta causa inflittogli dalla società datrice di lavoro. Il dipendente, infatti, era stato licenziato in tronco, ai sensi dell’art. 2119 c.c., per aver falsificato il rapporto mensile relativo alle visite effettuate presso i medici, riportando numeri di visite effettuate ben superiori a quelli effettivi.
La Società farmaceutica aveva incaricato un investigatore privato per verificare la veridicità delle informazioni fornite del proprio dipendente: le indagini condotte avevano dimostrato che il dipendente aveva mentito, riportando attività non realmente svolte.
Dalle indagini espletate, in particolare, era risultato che, per tre giorni consecutivi, l’informatore aveva visitato un numero di medici di gran lunga inferiore a quello rendicontato nel rapporto mensile inviato alla società datrice di lavoro e dichiarato di essersi recato in località che non aveva effettivamente visitato. Persino gli orari di visita indicati dal dipendente risultavano non veritieri in quanto, nei medesimi orari, dalle indagini era emerso che il lavoratore era impegnato in attività personali e ricreative.
Il Tribunale e la Corte d’Appello di Catanzaro avevano confermato il licenziamento, ritenendo comprovata la lesione irrimediabile del rapporto fiduciario tra il dipendente e la società.
In particolare, i giudici di merito avevano valutato “grave” la condotta del dipendente, anche in considerazione del fatto che proprio la rendicontazione mensile presentata dal lavoratore era l’unico mezzo a disposizione del datore di lavoro per monitorare la sua attività da informatore scientifico, dal momento che lo stesso godeva di ampia autonomia di movimento e organizzazione.
Inoltre, era stato evidenziato che tale documentazione era anche necessaria per l’adempimento degli obblighi comunicativi dell’azienda nei confronti dell’Autorità di settore, AIFA. Conseguenzialmente, a causa delle informazioni non veritiere riportate dal dipendente, anche la società farmaceutica si era trovata, incolpevolmente, a riportare dati non corretti all’AIFA sul numero dei sanitari visitati e il numero medio delle interviste effettuate dai propri informatori scientifici.
Il lavoratore, ritenendo sproporzionato il licenziamento, ha impugnato la sentenza della Corte d’Appello, sostenendo che la sua condotta non poteva giustificare un licenziamento, trattandosi al più di una mera “alterazione di cartellino o badge”, punita dal CCNL Chimici Farmaceutici con una sanzione conservativa.
La Cassazione invece ha avallato la decisione della Corte d’Appello, sostenendo che la condotta del lavoratore integrava non una alterazione di badge, ma una più grave falsificazione di un rapporto informativo sull’attività lavorativa in concreto prestata presso i singoli medici e nelle singole località, punibile con il licenziamento in tronco ai sensi del CCNL.
In conclusione, la Corte ha respinto il ricorso del lavoratore condannandolo alla rifusione delle spese di giudizio.
Con l’ordinanza n. 28171 del 31 ottobre 2024, la Corte di Cassazione ha confermato la validità del
licenziamento notificato al precedente indirizzo del dipendente, nel caso in cui quest’ultimo non
abbia tempestivamente comunicato al datore di lavoro il cambio di residenza o domicilio. Il
lavoratore, impugnando il licenziamento, contestava la validità della notifica effettuata all’indirizzo
originario, sostenendo che, a causa del suo trasferimento, tale notifica dovesse considerarsi
invalida. La Corte, rigettando il ricorso, ha stabilito che «il licenziamento inviato all’indirizzo
conosciuto è pienamente efficace, se effettuato nei termini», poichè incombe sul lavoratore
l’obbligo di comunicare per iscritto ogni variazione di residenza o domicilio, come previsto dal
contratto collettivo nazionale di lavoro e dal principio di buona fede che regola il rapporto di
lavoro. In particolare, la Suprema Corte ha richiamato l’art. 1335 c.c., il quale stabilisce che una
comunicazione si considera conosciuta nel momento in cui viene inviata all’indirizzo noto, ed ha
chiarito che la mancata comunicazione del cambio di residenza da parte del lavoratore non incide
sulla validità della notifica. Tale principio è stato esteso anche alla lettera di contestazione
disciplinare, da considerarsi, dunque, pienamente efficace una volta giunta all’indirizzo originario
del lavoratore.
Con la sentenza n. 10104 del 12 ottobre 2024, il Tribunale di Roma ha statuito che, in caso di licenziamento disciplinare irrogato senza una preventiva contestazione, si ravvisa non già una mera deviazione formale dallo schema procedimentale della norma, bensì una vera e propria nullità, che genera sempre il diritto del lavoratore alla reintegrazione in servizio.
Un dipendente, pasticcere presso un esercizio commerciale avente meno di 15 dipendenti, veniva licenziato per giusta causa in assenza di una preventiva contestazione disciplinare.
Il lavoratore impugnava giudizialmente il licenziamento disciplinare irrogatogli, deducendo – tra le altre cose – la violazione della procedura di cui all’art. 7 della L. 300/1970, avendo la parte datoriale omesso di contestargli preventivamente l’addebito.
Il Tribunale di Roma ha preliminarmente rilevato che il datore di lavoro rientrava tra le imprese con meno di 15 dipendenti e che il lavoratore risultava assunto dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 23/2015.
In assenza del requisito dimensionale di cui all’articolo 18, ottavo e nono comma, della L. n. 300/1970, si poneva dunque il problema di individuare la tutela applicabile per il licenziamento intimato senza previa contestazione, trattandosi di ipotesi non espressamente disciplinata dalla legge.
Il Giudice ha dunque ripercorso la normativa contenuta nel D.Lgs. 23/2015, al fine di individuare la tutela applicabile alla fattispecie esaminata.
Il Tribunale di Roma ha preliminarmente escluso l’applicazione dell’art. 3, comma 2, D.Lgs 23/2015, in quanto, come noto, la tutela reintegratoria per insussistenza del fatto è esclusa nel caso di imprese con meno di 15 dipendenti.
Non aderente alla fattispecie esaminata risultava altresì la tutela di cui all’art. 4 D.Lgs n. 23/2015, afferente violazioni di tipo meramente formale (mentre la radicale mancanza di contestazione non costituisce solo una violazione formale, ma concreta una violazione con riflessi sostanziali).
Anche la tutela di cui all’art. 3, comma 1, D.Lgs 23/2015, che disciplina le ipotesi in cui “risulta accertato che non ricorrono gli estremi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa”, risultava non aderente alla fattispecie esaminata.
Il Tribunale ha quindi richiamato la giurisprudenza di legittimità che ha chiarito come “la nullità di una sanzione disciplinare per violazione del procedimento finalizzato alla sua irrogazione […] rientra tra quelle c.d. di protezione, poiché ha natura inderogabile ed è posta a tutela del contraente più debole del rapporto, vale a dire il lavoratore” (Cass.12770/2019).
Facendo seguito alla giurisprudenza di legittimità richiamata, il Tribunale di Roma ha pertanto rilevato che la nullità di una sanzione disciplinare per violazione dell’iter legislativo previsto per la sua irrogazione rientra — appunto – nella categoria delle nullità di protezione, atteso che la procedura garantistica prevista in materia disciplinare (dall’art. 7 Stat. Lav.) è inderogabile ed è fondata su un evidente scopo di tutela del contraente debole del rapporto (vale a dire del lavoratore dipendente).
Su tali presupposti, il Tribunale di Roma – ritenendo integrata detta nullità, stante il mancato rispetto del procedimento dettato a garanzia del dipendente – ha accolto il ricorso promosso dal lavoratore, condannando il datore di lavoro alla sua reintegrazione in servizio.
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