La Corte di Cassazione, con sentenza n. 13799 del 31 maggio 2017, è intervenuta in materia di licenziamento per giusta causa intimato ad una dipendente che aveva postato su Facebook alcuni commenti contro la propria società nonché nei confronti del legale rappresentante della stessa. Nel caso di specie la società, condannata in appello a reintegrare il lavoratore e a risarcirgli il danno pari alle retribuzioni dal dì del licenziamento a quello della reintegra, è ricorsa in Cassazione lamentando la mancata applicazione del principio secondo cui l’art. 18, L. 300/1970, riconosce la tutela reintegratoria solo in caso di insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento. Le doglienze della società sono state ritenute infondate dalla Corte di Cassazione, la quale, richiamando i propri precedenti in materia, ha affermato che: “l’insussistenza del fatto contestato, di cui all’art. 18 stat. lav., come modificato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 42, comprende l’ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, sicché (anche) in tale ipotesi si applica la tutela reintegratoria”. Orbene, stando a questo orientamento, non è detto che postare su Facebook espressioni contro il proprio datore di lavoro presenti il carattere dell’antigiuridicità che legittima un licenziamento per giusta causa.
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 14175/2017, ha ribadito che, ai fini del computo del requisito occupazionale e della verifica sulle ragioni aziendali alla base di licenziamento, si ha un unico centro di interessi a cui ricondurre i rapporto di lavori, solo se viene dimostrata l’esistenza, nel contesto di diverse società appartenenti allo stesso gruppo, di un frazionamento fraudolento. In particolare, la Corte, uniformandosi a sue precedenti pronunce, ha confermato che perché ricorra questo frazionamento fraudolento devono sussistere i seguenti requisiti: “a) unicità della struttura organizzativa e produttiva; b) integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e il correlativo interesse comune; c) coordinamento tecnico e amministrativo – finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune; d) utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese, nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori”. Ciò significa che solo in presenza di questi elementi si fuoriesce dal contesto dell’azienda in cui è avvenuto il licenziamento e si considera il gruppo cui essa appartiene con tutte le conseguenze del caso.
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 11027 del 5 maggio 2017, torna a pronunciarsi in tema di licenziamento disciplinare. Nella sentenza in esame, la Corte, richiamando precedenti giurisprudenziali, ha ribadito che il giudice non può estendere il catalogo delle giuste cause o dei giustificati motivi soggettivi di licenziamento oltre quanto stabilito dall’autonomia delle parti. Ciò significa, secondo la Corte, che condotte pur astrattamente ed eventualmente suscettibili di integrare giusta causa o giustificato motivo soggettivo ai sensi di legge non possono rientrare nel relativo novero se l’autonomia collettiva le ha espressamente escluse, prevedendo per esse sanzioni meramente conservative. In sostanza è illegittimo il recesso adottato in relazione ad una condotta (nel caso di specie diverbio non seguito da vie di fatto) che il contratto collettivo di settore non punisce con la misura estrema.
La Corte di appello di Milano, con sentenza n. 890 del 6 aprile 2017, torna a pronunciarsi sulla durata massima del periodo di comporto qualora sia espressa in mesi ed il CCNL di settore non disciplini espressamente le modalità di conteggio. Nel caso di specie una lavoratrice impugnava il licenziamento intimatole sull’assunto che ai sensi del CCNL Confapi i 18 mesi di comporto dovevano essere calcolati sulla base dei giorni di calendario. I giudici di merito, richiamando precedenti giurisprudenziali, hanno, invece, chiarito che “il sistema di calcolo deve essere unico e avere caratteristiche di omogeneità e uniformità. Ai predetti fini il divisore deve essere sempre 30, anche se le assenze siano cadute in mesi dell’anno di durata inferiore o superiore a 30”. Pertanto nel caso di specie i 18 mesi del periodo di comporto previsti dal CCNL di settore equivalgono sempre e comunque a 540 giorni.