Con l’ordinanza 26440 del 10 ottobre 2024, la Corte di cassazione, Sezione Lavoro, confermando la legittimità del licenziamento irrogato nei confronti di un dipendente che si era rivolto in modo sgarbato e scurrile nei confronti di un cliente, torna a ribadire i confini della verifica in sede di legittimità della “giusta causa” di recesso.
La vicenda giudiziaria ha avuto origine dal licenziamento disciplinare inflitto nei confronti di un dipendente, con mansioni di addetto al banco macelleria di un supermercato, al quale il datore di lavoro aveva contestato di essersi rivolto nei confronti di un cliente anziano con toni aggressivi e volgari.
Mentre il Tribunale di primo grado aveva accolto l’impugnativa del licenziamento proposta dal dipendente, la Corte di appello di Cagliari, invece, riformando la decisione di primo grado, aveva confermato la legittimità del provvedimento espulsivo.
Nel caso di specie, la Corte territoriale aveva ritenuto che il comportamento del dipendente costituisse una grave violazione dei suoi obblighi contrattuali, in particolare dell’obbligo di «usare modi cortesi col pubblico e di tenere una condotta conforme ai civici doveri», passibile di licenziamento disciplinare ai sensi dell’articolo 215 del contratto collettivo per i dipendenti da aziende del Terziario, della Distribuzione e dei Servizi applicato al rapporto di lavoro.
La Corte aveva sottolineato, in particolare, la gravità della condotta tenuta dal dipendente in quanto, in tale occasione, l’addetto al bancone, non solo non aveva chiesto scusa al cliente, peraltro anziano, ma aveva proseguito la discussione con toni sempre più accesi, dando luogo ad «uno spettacolo indecoroso e anche un po’ preoccupante». Nel valutare la congruità del provvedimento espulsivo, la Corte di appello, aveva inoltre preso in considerazione i precedenti disciplinari contestati al dipendente nei due anni precedenti che, seppur non specifici, evidenziavano una reiterata inosservanza da parte di quest’ultimo delle regole aziendali, tale da non rendere più sostenibile la prosecuzione del rapporto di lavoro.
Con l’ordinanza in commento, la Cassazione, rigettando il ricorso proposto dal dipendente avverso la sentenza della Corte cagliaritana, ha colto l’occasione per consolidare il proprio orientamento e ribadire alcuni principi vigenti in materia di recesso per giusta causa ex articolo 2119 del Codice civile.
In particolare, la Corte di legittimità ha osservato che la “giusta causa”, intesa come fatto che non consente la prosecuzione neanche provvisoria del rapporto di lavoro, rientra tra le cosiddette clausole generali, ossia quelle disposizioni normative a contenuto limitato e generico, che richiedono di essere specificate da parte del giudice in sede interpretativa «mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama».
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In occasione del nostro Team Meeting di questa settimana, tra i vari argomenti, abbiamo approfondito la recente sentenza della Cassazione del 23 settembre 2024, la quale ha rimesso alle S.U. la controversia sulla questione della ripetibilità dei trattamenti di disoccupazione percepiti a seguito di licenziamento dichiarato illegittimo, senza che si sia verificata l’effettiva riammissione al servizio dei lavoratori.
Con l’ordinanza n. 23858 del 5 settembre 2024, la Corte di Cassazione – nel confermare il proprio precedente orientamento – ha statuito che, nell’ipotesi di licenziamento disciplinare per svolgimento di altra attività durante l’assenza per malattia, grava sul datore di lavoro la prova che la malattia sia simulata, ovvero che l’attività svolta nei giorni di assenza sia potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro al servizio.
Una società incaricava un’agenzia investigativa al fine di pedinare una dipendente assente per malattia.
Dalla relazione investigativa emergeva che la dipendente, durante l’assenza per malattia (ma non durante le ore di reperibilità), avesse svolto attività ludiche e si era recata presso un centro commerciale per fare la spesa.
La società procedeva, pertanto, alla contestazione disciplinare di tali condotte e al successivo licenziamento per giusta causa, fondando il recesso sulla simulazione, da parte della dipendente, dello stato di malattia.
La Corte d’Appello dichiarava l’illegittimità del licenziamento per insussistenza del fatto contestato, con conseguente condanna della società alla reintegrazione in servizio della dipendente.
La Corte territoriale rilevava, infatti, che il datore di lavoro (sul quale incombe il relativo onere) non avesse dimostrato in giudizio la giusta causa di recesso: non essendo stata svolta una visita di verifica durante gli orari di reperibilità, non poteva considerarsi raggiunta – sulla base del solo pedinamento – la prova dell’incompatibilità tra la malattia dichiarata e l’attività ludica.
Con ricorso per cassazione, la società impugnava la sentenza d’appello sulla base di plurimi motivi.
In particolare, la società eccepiva la mancata valutazione da parte della Corte d’Appello dell’esistenza di presunzioni oggettive da cui dedurre la simulazione di malattia, nonché la mancata attribuzione alla lavoratrice dell’onere della prova circa la compatibilità della malattia con le attività ludiche che le sono state contestate.
Il percorso logico giuridico della Suprema Corte – che ha condotto al rigetto del ricorso promosso dalla società – ha preso le mosse dalla nozione di malattia rilevante a fini di sospensione della prestazione lavorativa che, come precisato dalla Corte, “ricomprende le situazioni nelle quali l’infermità determini, per intrinseca gravità o per incidenza sulle mansioni normalmente svolte dal dipendente, una concreta ed attuale, sebbene transitoria, incapacità al lavoro del medesimo” (cfr. Cass. n. 14065/1999, n. 12152/2024).
I giudici di legittimità hanno pertanto rilevato che, anche ove la malattia comprometta la possibilità di svolgere quella determinata attività oggetto del rapporto di lavoro, può comunque accadere che le residue capacità psico-fisiche possano consentire al lavoratore altre e diverse attività.
La Corte ha conseguentemente richiamato il proprio orientamento in materia di licenziamento disciplinare per svolgimento di altra attività durante l’assenza per malattia, ribadendo che grava sul datore di lavoro la prova che la malattia sia simulata ovvero che l’attività svolta nei giorni di assenza sia potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio.
Tale accertamento – prosegue la Corte – deve tenere conto di tutte le circostanze del caso concreto ed è devoluto ai giudici di merito.
La Cassazione ha, dunque, rilevato come la Corte territoriale si sia correttamente uniformata ai principi giurisprudenziali sopra richiamati, avendo – proprio sulla base delle circostanze concrete (ovverosia il carattere del tutto marginale delle attività svolte dalla dipendente durante la malattia) e del materiale probatorio fornito dalla Società (la relazione investigativa conseguente al pedinamento) – ritenuto non provata la simulazione della malattia da parte della dipendente.
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Il Decreto-legge n. 131/2024, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale il 16 settembre 2024 e in vigore dal 17 settembre, ha introdotto importanti cambiamenti per i datori di lavoro nella gestione dei contratti a termine. Tale provvedimento, denominato “Decreto Salva Infrazioni”, risponde alla richiesta dell’Unione Europea – che ha avviato una procedura di infrazione contro l’Italia – di un allineamento della normativa nazionale alla Direttiva UE 1999/70/CE sul lavoro a tempo determinato.
In particolare, la Commissione UE ha ritenuto che la previsione di un’indennità minima e, soprattutto, di un’indennità massima nei confronti del lavoratore, fosse priva di un efficace effetto deterrente contro l’abuso dei contratti di lavoro a tempo determinato.
Il Decreto in esame ha, pertanto, modificato l’art. 28, commi 2 e 3, del D. Lgs. n. 81/2015 (Jobs Act), introducendo significative novità in tema di risarcimento del danno, nel caso di contratti a termine dichiarati illegittimi.
Uno degli aspetti più impattanti per le imprese riguarda l’ampliamento della facoltà concessa al giudice di stabilire risarcimenti superiori a 12 mensilità in caso di illegittimità dei contratti a termine. In precedenza, nei casi di trasformazione di un contratto a tempo determinato in uno a tempo indeterminato, il lavoratore aveva diritto ad un’indennità onnicomprensiva, compresa tra 2,5 e 12 mensilitàdell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto. Ora, a seguito della modifica introdotta, qualora il lavoratore riesca a dimostrare di aver subito un danno maggiore, come per esempio un prolungato periodo di contenzioso, il datore di lavoro potrebbe essere chiamato a versare somme significativamente più elevate.
Un’altra rilevante modifica è l’abrogazione del limite di 6 mensilità per l’indennità dovuta ai lavoratori, in caso di contratti a termine dichiarati illegittimi, limite che fino ad oggi era applicabile in presenza di contratti collettivi che prevedevano procedure di stabilizzazione dei lavoratori a termine. In base alla normativa precedente, le aziende potevano beneficiare di questo tetto massimo, riducendo il rischio economico legato a eventuali vertenze.
Le modifiche apportate dal Decreto Salva Infrazioni, comportano, per i datori di lavoro, un cambiamento sostanziale nella gestione delle risorse umane. Sarà, infatti, necessario prestare maggiore attenzione nel rispettare le regole sui contratti a termine, evitando abusi e garantendo una corretta applicazione della normativa vigente. Conseguentemente, le aziende dovranno adottare una strategia più prudente e rigorosa nell’utilizzo dei contratti a tempo determinato, per ridurre il rischio di incorrere in costosi risarcimenti.
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Con la sentenza n. 23852 del 5.09.2024, la Corte di Cassazione ha affrontato il tema del licenziamento per giusta causa del lavoratore che, durante il periodo di malattia, ha partecipato a un torneo di calcio già programmato, violando gli obblighi di diligenza, lealtà e correttezza, così pregiudicando la guarigione o il rientro al lavoro. Il lavoratore ricorreva contro il licenziamento, sostenendo che la partecipazione a un torneo di calcio durante il periodo di malattia non violasse i suoi obblighi contrattuali. La società contestava al dipendente di aver simulato la malattia per poter partecipare alla competizione, compromettendo così la guarigione e violando i principi di correttezza e buona fede. La Suprema Corte ha respinto il ricorso del lavoratore, affermando che “lo svolgimento di attività fisica durante il periodo di malattia <<…>> costituisce una violazione degli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà”. Inoltre, che: “<<…>> l’attività sportiva, per sua natura, può pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio”. Forse anche in ragione del comportamento particolarmente grave del lavoratore, la sentenza in parola rappresenta comunque una decisione significativa in una materia nella quale troppo spesso la giurisprudenza ha sin qui evidenziato una tendenza a tollerare comportamenti che fanno dubitare dell’ effettivo stato di malattia del lavoratore.