Ricomprendendo il ruolo di RLS nell’area dei soggetti tutelati come i lavoratori sindacalisti quali portatori di interessi collettivi, la manifestazione di solidarietà ad altri lavoratori con generale valenza politico-sindacale rientra nell’ambito del diritto di critica e del diritto di manifestazione del pensiero costituzionalmente tutelati”.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione con ordinanza n. 23850/2024. In altre parole, nell’ambito del diritto di critica e della manifestazione degli interessi collettivi di cui è portatore, al lavoratore dipendente che ricopre anche il ruolo di RLS devono essere riconosciute le stesse tutele previste per i sindacalisti. Ciò comporta che l’RLS – in relazione all’esercizio delle sue attività di rappresentante dei lavoratori – può utilizzare anche toni più aspri perché si pone su un piano paritetico con il datore di lavoro.

Questo, ovviamente, deve avvenire sempre nei limiti della correttezza formale e della tutela della persona umana tant’è che “solo ove tali limiti siano superati con l’attribuzione all’impresa datoriale o a suoi dirigenti di qualità apertamente disonorevoli e di riferimenti denigratori non provati, il comportamento del lavoratore può essere legittimamente sanzionato in via disciplinare”.

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Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è illegittimo se il datore di lavoro non dimostra di aver offerto al lavoratore posizioni di livello inferiore, anche a tempo determinato.

Il datore di lavoro, infatti, prima di procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, deve dimostrare di aver esplorato tutte le possibili soluzioni per ricollocare il lavoratore all’interno dell’azienda.

Ad affermare tale principio è stata la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 18904 del 10 luglio 2024, con ciò rafforzando l’obbligo di repêchage per i datori di lavoro.

La Corte ha quindi concluso che il licenziamento è illegittimo quando esistono, al momento del recesso, delle posizioni di lavoro alternative, ancorché in mansioni inferiori oppure a tempo determinato, e non viene effettuata da parte del datore di lavoro alcuna offerta di lavoro per la ricollocazione in queste mansioni.

La Corte ha ribadito che l’onere della prova in merito all’impossibilità di ricollocamento grava completamente sul datore di lavoro.

Le imprese devono quindi adottare un approccio scrupoloso nella gestione delle risorse umane, documentando ogni tentativo di ricollocazione, al fine di evitare di incorrere nell’illegittimità del licenziamento.

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Con la sentenza n. 128 del 16 luglio 2024, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, commi 1 e 2, del D.lgs. 23/2015, nella parte in cui non prevede che la tutela reintegratoria attenuata si applichi anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa il ricollocamento del lavoratore.

Il caso affrontato

Un lavoratore, assunto a tempo indeterminato da una agenzia di somministrazione, impugnava giudizialmente il licenziamento intimatogli per giustificato motivo oggettivo.

Il ricorrente deduceva di aver svolto varie missioni presso l’utilizzatore, per una durata complessiva inferiore a due anni, e che, cessato l’ultimo l’incarico, il datore di lavoro – in assenza di ulteriori prospettive di reimpiego – aveva attivato la procedura di messa in disponibilità per mancanza di occasioni di lavoro, di cui all’art. 25 del CCNL delle Agenzie di Somministrazione, all’esito della quale gli aveva comunicato la risoluzione del rapporto di lavoro per giustificato motivo oggettivo.

Il lavoratore contestava che si fosse determinata una situazione di assenza di offerte disponibili per posizioni richiedenti la sua professionalità, in quanto le stesse erano state in realtà destinate ad altri lavoratori.

Il lavoratore domandava, dunque, in via principale – ai sensi del comma 2 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015 – la reintegra nel posto di lavoro, oltre al pagamento di una indennità risarcitoria, commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto dal giorno del licenziamento all’effettiva reintegra, e, in subordine, la liquidazione dell’indennizzo di cui al comma 1 della medesima disposizione.

Il Tribunale di Ravenna, investito del caso, sollevava questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 1 e 2, del D.lgs. 23/2015, nella parte in cui la norma prevede l’esclusione della tutela reintegratoria laddove il giudice accerti l’insussistenza del fatto posto alla base del recesso per giustificato motivo oggettivo.

La sentenza della Corte Costituzionale

La Corte ha preliminarmente rilevato che, sebbene le ragioni poste alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo non siano sindacabili nel merito, il principio della necessaria causalità del recesso datoriale esige che il fatto materiale posto a fondamento del provvedimento datoriale sia sussistente.

Diversamente ragionando – prosegue la Corte – si finirebbe con il creare una irragionevole differenziazione tra la predetta ipotesi e quella parallela del licenziamento disciplinare che, se intimato per un addebito insussistente, genera la reintegra.

Così facendo, peraltro, si consentirebbe alla parte datoriale di scegliere arbitrariamente, in caso di intimazione di un licenziamento fondato su un fatto insussistente, di qualificarlo come licenziamento per giustificato motivo oggettivo piuttosto che come licenziamento disciplinare, al solo fine di non rischiare l’applicazione della tutela reintegratoria.

Alla luce di quanto sopra, la Consulta ha accolto le questioni sollevate in riferimento alla violazione degli artt. 3, 4 e 35 Cost., dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, commi 1 e 2, del D.Lgs. 23/2015, nella parte in cui la norma prevede l’esclusione della tutela reintegratoria laddove il giudice accerti l’insussistenza del fatto posto alla base del recesso per giustificato motivo oggettivo

La Corte ha, infine, precisato che il vizio di illegittimità costituzionale non si ravvisa, invece, qualora il fatto materiale, allegato dal datore di lavoro a fondamento del licenziamento, sussista, ma il licenziamento risulti comunque per violazione dell’onere di repêchage. Ne consegue che la violazione di tale obbligo attiverà esclusivamente la tutela indennitaria di cui al primo comma dell’art. 3 del D.Lgs. n. 23 del 2015.

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Con la sentenza n. 8956 del 4 aprile 2024, la Corte di Cassazione ha affrontato il tema della illegittimità di un licenziamento irrogato in caso di assenza ingiustificata in un giorno festivo.

La dipendente agiva in giudizio per ottenere la dichiarazione di illegittimità del licenziamento, in ragione dell’insussistenza della fattispecie astratta dell’illecito disciplinare contestatole (“assenza priva di valida giustificazione per un numero di giorni, anche non continuativi, superiore a tre nell’arco di un biennio”), per avere la Società erroneamente contestato, come giorno di assenza, anche una domenica. La Suprema Corte ha accolto il ricorso della lavoratrice, affermando che “l’assenza dal servizio priva di valida giustificazione rilevante ai fini dell’art. 55-quater, lett. b, del D.Lgs. n. 165 del 2001 presuppone che il lavoratore non si sia presentato al lavoro e abbia omesso di rendere la prestazione lavorativa in un giorno in cui avrebbe dovuto farlo e, dunque, non può sussistere nel caso in cui si tratti di un giorno festivo, in cui il lavoratore non aveva l’obbligo di recarsi al lavoro, a prescindere dalla mancanza di una valida giustificazione per l’assenza dal servizio nelle giornate immediatamente precedenti e successive al giorno festivo”.

Con l’ordinanza n. 15391 del 3 giugno 2024, la Corte di Cassazione chiarisce a quali condizioni il datore di lavoro, nell’ambito di un procedimento disciplinare nei confronti di un lavoratore, può utilizzare legittimamente i dati estratti dal Telepass (aziendale) installato sull’auto (aziendale). I giudici di legittimità, si legge nell’ordinanza, precisano che: “[…] a fronte di quanto specificamente previsto dal comma 3 dell’art. 4 L. n. 300/1970, è irrilevante la “consapevolezza del dipendente sulla presenza dell’apparato Telepass sull’autovettura e sulle corrette modalità di uso dello stesso”, essendo necessaria invece tale precipua informativa al lavoratore”. In altre parole, una adeguata informazione al lavoratore circa le modalità di utilizzo degli strumenti di lavoro e di effettuazione dei controlli datoriali rappresenta una discriminante tra una raccolta di dati lecita ed illecita e, ove mancante, rende inutilizzabili le informazioni raccolte “a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro”, compresi quelli disciplinari.

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