Il riferimento alla “sede sindacale” di cui all’art. 411 c.p.c. non può consentire di annoverare la sede aziendale fra le sedi protette, anche se alla conciliazione è presente un rappresentante sindacale
Con l’ordinanza n. 10065 del 15 aprile 2024, la Corte di Cassazione ha affermato che la conciliazione in sede sindacale, ai sensi dell’art. 411, comma 3, c.p.c., non può essere validamente conclusa presso la sede aziendale, non potendo quest’ultima essere annoverata tra le sedi protette, avente il carattere di neutralità indispensabile a garantire, unitamente alla assistenza prestata dal rappresentante sindacale, la libera determinazione della volontà del lavoratore.
Lo strumento della conciliazione stragiudiziale, in alternativa alla pronuncia del Giudice, per la definizione delle controversie in materia di lavoro è sempre stato visto con favore dal legislatore, che ha approntato e regolamentato nel tempo una serie di strumenti utili a tal fine: il tentativo di conciliazione presso l’ITL (facoltativo e obbligatorio solo nei casi di contratti certificati) ex art. 410 c.p.c.; la conciliazione nell’ambito del licenziamento tutele crescenti (D.Lgs. n. 23/2015); il tentativo di conciliazione in sede sindacale (art. 411 c.p.c.); il tentativo di conciliazione in sede giudiziale (ex art. 185 c.p.c. e art. 420 c.p.c.); la conciliazione presso le sedi universitarie; la conciliazione monocratica (art. 11, D.Lgs. n. 124/2004); la conciliazione in sede arbitrale ex artt. 412 ter e 412 quater.
Da ultimo, con la Riforma Cartabia (D.Lgs. n. 149/2022), il legislatore ha esteso alle controversie di lavoro anche l’istituto della negoziazione assistita, mediante l’introduzione del nuovo art. 2-ter al D.L. n. 132/2014 (conv. in legge n. 162/2014), con lo scopo di tentare una soluzione alla controversia ad opera dei difensori delle parti che avviano tale procedimento, senza la presenza di un soggetto terzo conciliatore, prima di promuovere l’azione giudiziaria.
Da un punto di vista giuslavoristico, l’art. 2113 c.c. prevede, in termini generali, l’invalidità delle rinunzie e transazioni che abbiano ad oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili di legge o dei CCNL, garantendo al lavoratore la possibilità di impugnare la transazione, con qualsiasi atto scritto, entro sei mesi dalla cessazione del rapporto o dalla successiva data della transazione.
L’ordinamento ritiene infatti che, a differenza di quanto accade nei rapporti negoziali civilistici (uguaglianza formale tra le parti), nei rapporti di lavoro vi sia una diseguaglianza sostanziale tra datore di lavoro e lavoratore (sotto il profilo economico) che impone il riequilibrio attraverso una tutela dichiarata nei confronti del lavoratore, per evitare che l’accordo finisca per procurare un danno al lavoratore anziché garantire e tutelare i suoi diritti.
Fermo quanto sopra, l’art. 2113 c.c., come noto, dispone altresì che le rinunce e le transazioni sono valide (e, dunque, non più impugnabili) se stipulate nelle sedi tassativamente individuate dal legislatore, ovverosia:
In tali casi, la posizione del lavoratore è tutelata dall’intervento di un soggetto terzo, che garantisce l’assenza di un condizionamento della volontà del medesimo lavoratore.
Con particolare riferimento agli accordi di conciliazione in sede sindacale, la recente casistica giurisprudenziale costituisce un vero e proprio campanello di allarme per il datore di lavoro, che ritiene tali accordi totalmente inoppugnabili in quanto firmati in sede protetta.
Sono sempre più numerose, infatti, le pronunce (non solo di merito, ma anche di legittimità) che hanno sancito l’invalidità degli accordi transattivi in sede sindacale, se privi di determinate caratteristiche.
Innanzitutto, la transazione in sede sindacale, per essere valida, deve comportare l’effettiva attività di assistenza da parte del conciliatore, al quale il lavoratore abbia conferito specifico mandato.
L’effettività di tale attività deriva dal ruolo attribuito al conciliatore: quest’ultimo, anche in considerazione della non impugnabilità della transazione, deve preventivamente informare il lavoratore in merito alla reale portata dei diritti maturati e dismessi o disposti diversamente rispetto a quanto previsto dalla legge o dal contratto collettivo, nonché in relazione alle conseguenze derivanti dalla sottoscrizione della transazione in sede sindacale (ex pluris: Cass. ordinanza n. 16154 del 9 giugno 2021).
Proseguendo nella rassegna delle pronunce che hanno dichiarato impugnabile un verbale di conciliazione in sede sindacale, si richiama la sentenza resa dal Tribunale di Bari il 6 aprile 2022, con la quale è stato affermato che se l’assistenza al lavoratore, nell’ambito di una transazione in sede sindacale, è stata resa dal rappresentante di una sigla sindacale alla quale il dipendente non ha aderito, allora l’accordo non è valido ed efficace.
Rammentiamo altresì che il Tribunale di Roma (sentenza dell’8 maggio 2019) è giunto a sostenere che, affinché operi il carattere della inoppugnabilità (previsto dal comma 4 dell’art. 2113 c.c.), è necessario che la conciliazione in sede sindacale sia espressamente prevista dal contratto collettivo applicato dal datore di lavoro, che ne disciplini sede e modalità ai sensi dell’art. 412 ter c.p.c.
A ciò pure aggiungasi che la giurisprudenza di legittimità ha, inoltre, ritenuto necessaria la presenza di un mandato sindacale specifico conferito non nell’imminenza della conciliazione e financo di un’assistenza fornita dal sindacato di appartenenza del lavoratore e non da altri (Cass. n. 16168/2004).
Negli ultimi mesi la giurisprudenza ha altresì affrontato il tema del “luogo” in cui la conciliazione sindacale deve essere sottoscritta per essere ritenuta inoppugnabile.
Sul tema – oggetto altresì della ordinanza in commento – si richiamano due recenti precedenti giurisprudenziali.
Con l’ordinanza n. 25796 del 5 settembre 2023, la Suprema Corte – nel confermare la sentenza resa in grado d’appello – ha statuito che l’accordo conciliativo stipulato presso la sede della Prefettura con l’intervento di un rappresentante sindacale dei lavoratori non fosse riconducibile al novero delle conciliazioni non impugnabili ex art. 2113, ultimo comma, cod. civ., e ciò in quanto tale accordo non poteva considerarsi concluso presso una sede sindacale e nel rispetto delle modalità previste dal contratto collettivo di categoria ai sensi dell’articolo 412-ter c.p.c.
E ancora, pochi mesi fa, la Suprema Corte, con l’ordinanza n. 1975 del 18 gennaio 2024, ha statuito che la necessità che la conciliazione sindacale sia sottoscritta presso una sede sindacale non è un requisito formale, bensì funzionale ad assicurare al lavoratore la consapevolezza dell’atto dispositivo che sta per compiere e, quindi, ad assicurare che la conciliazione corrisponda a una sua volontà genuina. Pertanto, se tale consapevolezza risulti comunque acquisita, ad esempio attraverso le esaurienti spiegazioni date dal conciliatore sindacale incaricato anche dal lavoratore, lo scopo voluto dal legislatore e dalle parti collettive deve dirsi raggiunto. In tal caso, quindi, la stipula del verbale di conciliazione in una sede diversa da quella sindacale non produce alcun effetto invalidante sulla transazione.
La vicenda relativa all’ordinanza in commento trae origine dalla sottoscrizione di un verbale di conciliazione presso la sede aziendale, alla presenza delle parti e del rappresentante sindacale.
Con tale accordo, la società “si era impegnata a non dare seguito ai preavvisati licenziamenti collettivi di cui alla lettera di apertura della procedura di mobilità a condizione che tutte le maestranze manifest(assero) la propria accettazione alla proposta di riduzione della retribuzione mensile nella misura del 20% dell’imponibile fiscale per il periodo dall’1.3.2016 al 28.2.2018 eventualmente prorogabile per un massimo di altri due anni”.
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Con la sentenza n. 32412 del 22 novembre 2023, la Corte di Cassazione si è occupata della
legittimità del licenziamento intimato dal datore di lavoro formale nei confronti di un lavoratore
impiegato nell’ambito di un appalto non genuino.
Il lavoratore agiva in giudizio per ottenere l’accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro
alle dipendenze della società committente, la dichiarazione dell’inefficacia del licenziamento in
quanto intimato dall’appaltatrice e non dall’«effettivo» datore di lavoro e la riammissione in
servizio. La Cassazione, investita della vicenda, ha in primo luogo affermato che non è preclusa al
lavoratore la possibilità di agire in giudizio per l’accertamento della sussistenza di una situazione di
interposizione fittizia e per ottenere il riconoscimento di un rapporto di lavoro alle dipendenze del
committente anche in caso di licenziamento irrogato dall’appaltatrice.
La Suprema Corte, inoltre, ha stabilito che in caso di interposizione fittizia il potere di recesso deve
essere in ogni caso esercitato dal reale datore di lavoro e non da quello fittizio, a pena di
inefficacia del recesso; il datore di lavoro sostanziale, infatti, non può avvalersi del licenziamento
irrogato dall’appaltatore quale atto di gestione del rapporto.
Con l’ordinanza n. 10734 del 22 aprile 2024, la Suprema Corte di Cassazione ha statuito che, in caso di esito negativo del tentativo di conciliazione – prescritto dall’art. 7 della L. n. 604/1966 per l’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo di lavoratori assunti prima del marzo 2015 – il datore di lavoro non è tenuto ad inviare al dipendente alcuna lettera di licenziamento, essendo sufficiente l’indicazione della volontà interruttiva del rapporto contenuta nel verbale redatto innanzi all’Ispettorato Territoriale del Lavoro.
All’esito del tentativo di conciliazione svoltosi avanti l’ITL ai sensi dell’art. 7 L. 604/1966, veniva redatto il verbale di mancata conciliazione, all’interno del quale veniva formalizzata la volontà dal datore di lavoro di procedere al licenziamento della dipendente per giustificato motivo oggettivo.
Successivamente la lavoratrice impugnava giudizialmente il licenziamento intimatole, eccependo, in primo luogo, l’inefficacia dello stesso per mancanza della forma scritta.
Nell’ambito della fase sommaria del c.d. Rito Fornero nonché nella successiva fase di opposizione, il Giudice accertava l’assenza di forma scritta del licenziamento, con conseguente condanna del datore di lavoro alla reintegrazione in servizio della dipendente.
La Corte d’Appello – adita dal datore di lavoro – riformava la sentenza resa nell’ambito dell’opposizione.
La Corte territoriale statuiva, da un lato, che fosse provata la forma scritta del recesso – e ciò in quanto la volontà di recedere dal rapporto di lavoro era contenuta nel verbale sottoscritto da entrambe le parti a conclusione della procedura ex art. 7 L. n. 604/1966 – e, dall’altro, ritendendo violato il principio di correttezza e buona fede rispetto alla scelta della lavoratrice da licenziare, dichiarava l’illegittimità del licenziamento con condanna del datore di lavoro alle conseguente di cui all’art. 18, comma 7, Stat. Lav..
La lavoratrice impugnava la sentenza avanti la Suprema Corte e la società, nel resistere con controricorso, proponeva, a propria volta, ricorso in via incidentale.
La Suprema Corte – nel confermare la pronuncia di merito – ha rilevato, preliminarmente, che la finalità dell’onere della forma scritta del licenziamento risiede nella necessità di mettere a conoscenza il lavoratore dell’atto interruttivo del rapporto.
Tale funzione – prosegue la Corte – viene assolta se la volontà di procedere al recesso sia stata formalizzata dal datore, in una sede istituzionale (come sicuramente è l’Ispettorato del lavoro ove si tiene il tentativo di conciliazione ex art. 7 L. n. 604/1966), all’interno di un verbale sottoscritto anche dal dipendente.
Il dettato normativo del terzo periodo del comma 6 dell’articolo 7 della legge n. 604/1966 (“Se fallisce il tentativo di conciliazione e, comunque, decorso il termine di cui al comma 3, il datore di lavoro può comunicare il licenziamento al lavoratore”) delinea una condizione legale (sospensiva) ed un termine (dilatorio); ragion per cui, una volta avveratasi la prima o scaduto il secondo, il datore di lavoro “può comunicare il licenziamento al lavoratore”.
Con riguardo al significato da attribuire alla condizione legale sospensiva (ossia, al fallimento del tentativo di conciliazione), per la Suprema Corte “già il dato letterale” depone nel senso che il legislatore “abbia attribuito rilievo al fatto obiettivo del fallimento del tentativo di conciliazione piuttosto che al dato cronologico e formale della chiusura del verbale redatto in sede di commissione provinciale di conciliazione”.
Inoltre, prosegue la Corte, “il tenore testuale della disposizione non impone che la comunicazione del licenziamento, consentita al datore di lavoro «Se fallisce il tentativo di conciliazione», debba intervenire in un contesto differente e successivo a quello del verbale suddetto”.
In questo senso, argomenta il Collegio, “alcuna esigenza di tutela degli interessi del lavoratore potrebbe plausibilmente giustificare l’assunto che la comunicazione del licenziamento al lavoratore debba necessariamente intervenire in un contesto distinto dal verbale redatto in sede d’incontro davanti alla commissione apposita, a patto beninteso che per la comunicazione del licenziamento già espressa in quella sede siano osservate le ulteriori prescrizioni in tema di licenziamento, a cominciare da quella della forma scritta ex art. 2, comma 1, l. n. 604/1966”.
Secondo i Giudici di legittimità, da ciò consegue che, ove il tentativo di conciliazione ex art. 7 L. n. 604/1966 fallisca ed il datore confermi la propria volontà di recedere dal rapporto, non vi è alcuna necessità di inviare successivamente al lavoratore una lettera di licenziamento.
Su tali presupposti, la Suprema Corte ha pertanto rigettato il ricorso proposto dalla lavoratrice, confermando la debenza esclusivamente di una tutela indennitaria.
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Reintegrato e risarcito il dipendente licenziato per narcotraffico. La condanna per droga è acqua passata e risale a prima dell’assunzione, quando l’azienda ha rilevato il personale dall’impresa uscente dopo essere subentrata nell’appalto bandito dalla pubblica amministrazione. Il fatto materiale sussiste, ma non quello giuridico: la vecchia condanna non ha rilievo disciplinare laddove il datore non dimostra «l’incidenza di fatti così risalenti sulla funzionalità del rapporto»; la sentenza penale che diventa definitiva in corso di rapporto, invece, può far scattare il recesso del datore per giusta causa se viene meno il rapporto fiduciario con l’azienda. Così la Corte di Cassazione, sez. lavoro, ordinanza 8899 del 4/4/2024.
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Con l’ordinanza del 4 gennaio 2024, il Tribunale di Ravenna ha rimesso alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea il giudizio relativo alla legislazione italiana in merito alla computabilità nel periodo di comporto delle assenze dal lavoro causate da patologie invalidanti
Il quesito posto alla Corte di Giustizia Europea può essere così sintetizzato: se il periodo di comporto di 180 giorni previsto dal CCNL Confcommercio (che trova applicazione senza distinzioni tra soggetti disabili e non) possa considerarsi un ragionevole accomodamento idoneo da escludere la discriminazione indiretta dei lavoratori disabili.
L’ordinanza prende le mosse dalla Direttiva CE n. 78/2000, relativa alla parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro dei lavoratori disabili, recepita in Italia con il D.Lgs. n. 216/2013.
Sulla base di tale Direttiva si è formata, in ambito comunitario e, successivamente, in ambito nazionale, un filone giurisprudenziale che ha ritenuto che l’applicazione indifferenziata del medesimo periodo di comporto ai lavoratori disabili e ai lavoratori non disabili costituisca una discriminazione indiretta, in quanto provoca una disparità di trattamento a danno del disabile che, a causa della fragilità insita nell’handicap, è posto in una situazione di particolare svantaggio rispetto agli altri lavoratori, visto il rischio di maggiore possibilità di accumulo di giorni di assenza e di raggiungere, così, più facilmente i limiti del periodo di comporto.
In applicazione dell’art. 32 Cost., che eleva a diritto costituzionalmente garantito il diritto alla salute, e dell’art. 38 Cost., co. 2, l’art. 2110 c.c. dispone che il lavoratore che si assenta per malattia ha diritto non solo alla conservazione del proprio posto di lavoro, ma altresì alla corresponsione, quando previsto dalla legge o dalla contrattazione collettiva, della retribuzione o di un’indennità nella misura e per il tempo determinati dalle leggi speciali, dagli usi o secondo equità (c.d. periodo di comporto).
Solo una volta decorso tale periodo, il datore di lavoro potrà legittimamente recedere dal contratto di lavoro per superamento del comporto a norma dell’art. 2118 c.c., ossia riconoscendo al lavoratore il preavviso o la relativa indennità sostitutiva.
In tal modo, l’art. 2110 c.c. realizza un contemperamento tra contrapposti diritti di rango costituzionale, entrambi ritenuti meritevoli di tutela: il diritto del lavoratore alla salute e alla conservazione del posto e quello del datore di lavoro alla libertà di iniziativa economica privata.
Utilizzando le parole delle Sezioni Unite della Cassazione, il periodo di comporto rappresenta “un punto di equilibrio fra l’interesse del lavoratore a disporre di un congruo periodo di assenze per ristabilirsi a seguito di malattia o infortunio e quello del datore di lavoro di non doversi fare carico a tempo indefinito del contraccolpo che tali assenze cagionano all’organizzazione aziendale” (Cass. SS.UU. 12568/2018).
La Corte di Giustizia Europea ha interpretato la direttiva 2000/78/CE, avente ad oggetto la «parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro», introducendo la nozione di disabilità c.d. europea.
Come emerge dalla giurisprudenza comunitaria formatasi sul tema, la disabilità è definita come «condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata» (in tal senso, C. giust., 11 aprile 2013, HK Danmark, C-335/2011 e C-337/2011, punto 47, nonché C. giust. 18 gennaio 2018, Ruiz Conejero, C-270/16. Sulla stessa falsariga, in un’accezione allargata di disabilità, si veda anche Corte giust. 18 dicembre 2014, FOA (Fagog Arbejde), C-354/2013, punto 53, secondo cui anche l’obesità rientra nella nozione di handicap, ai sensi della Direttiva 2000/78, allorché sia di ostacolo alla partecipazione del lavoratore alla vita professionale).
Sul tema occorre, altresì, precisare che il concetto di disabilità comunitario è del tutto autonomo e, dunque, “scollegato” dal riconoscimento, nel diritto interno da parte degli organi competenti, dell’invalidità ai sensi della l. 68/99 o dei benefici della l. n. 104/92 (Cass n. 23338/2018, Cass. n. 6798 del 2018. Al riguardo, recentemente, si sono altresì espressi negli stessi termini: Trib. Ravenna, 27 luglio 2023, Corte Appello Roma 27 novembre 2023, Trib. Rovereto, 30 novembre 2023 e Trib. Roma 18 dicembre 2023).
Fatta questa premessa sulla nozione di disabilità e considerando il tema del periodo di comporto, occorre poi prendere in considerazione il disposto dell’art. 2, lett. b), Direttiva 2000/78/CE in tema di discriminazione indiretta fondata sulla disabilità.
Secondo la normativa comunitaria, tale forma di discriminazione sussiste allorché una disposizione apparentemente neutra possa mettere in una posizione di particolare svantaggio la persona disabile, a meno che:
Sul punto, la Corte di Giustizia, con la recente sentenza del 18 gennaio 2024, nella causa C- 631/22 (in wikilabor.it), richiamando altre proprie decisioni (cfr. sentenza del 21.10.2021, Komisia za zashtita ot diskriminatsia, C-824/19, EU-C-2021-862, punto 59 e giurisprudenza ivi citata), ha ribadito che la Direttiva 2000/78/CE deve essere interpretata in conformità con le disposizioni della Convenzione ONU, al cui art. 2 viene statuito che per “discriminazione fondata sulla disabilità” si intende “qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che abbia lo scopo o l’effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo”.
Sulla scorta di tali nozioni di disabilità e di discriminazione indiretta, la giurisprudenza, sia europea sia nazionale, ha avuto modo di esprimersi sul tema del comporto e del licenziamento conseguente al suo superamento in caso di persone con disabilità nella sua definizione comunitaria.
Nello specifico, la Corte di Giustizia Europea ha affermato che si pone in contrasto con il divieto di discriminazione basata sull’handicap una normativa nazionale che, senza effettuare alcuna distinzione tra lavoratore non disabile e disabile, consente al datore di lavoro di licenziare un lavoratore disabile in ragione di assenze dal lavoro imputabili alla sua condizione patologica.
Ad avviso della Corte di Giustizia una siffatta norma “è idonea a svantaggiare i lavoratori disabili e, quindi, a comportare una disparità di trattamento indirettamente basata sulla disabilità ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78”.
Dello stesso avviso, avuto conto del tenore dell’art. 3, comma 3-bis, D. Lgs. n. 216/2003, è la Cassazione che, di recente, ha statuito che “in tema di licenziamento, costituisce discriminazione indiretta l’applicazione dell’ordinario periodo di comporto al lavoratore disabile, perché la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità, trasmuta il criterio, apparentemente neutro, del computo del periodo di comporto breve in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto in quanto in posizione di particolare svantaggio”.
Da ciò ne consegue che l’applicazione dell’ordinario periodo di comporto al portatore di handicap
Al fine di ridurre il rischio di compiere comportamenti discriminatori, il datore di lavoro, ai sensi dell’art. 3, comma 3-bis, D. Lgs. n. 216/2003, pur nella libertà di iniziativa economica e privata e quindi nel rispetto di quei principi che gli consentono la libera organizzazione dell’azienda, deve – in base alla diligenza e buona fede – individuare “accomodamenti ragionevoli” che consentano la neutralizzazione o il ridimensionamento di situazioni che possano aggravare le condizioni fisiche del dipendente.
Ad avviso della Cassazione la necessità di individuare detti accomodamenti “(…) non significa che un limite massimo in termini di giorni di assenza per malattia del lavoratore disabile non possa o non debba essere fissato (…). Tuttavia, tale legittima finalità deve essere attuata con mezzi appropriati e necessari, e quindi proporzionati (…)”.
Diversi al riguardo sono stati gli spunti forniti dalla giurisprudenza di merito circa gli eventuali accomodamenti ragionevoli che il datore di lavoro può attuare in funzione delle esigenze concrete delle persone con disabilità.
Tra questi, ad avviso di detta giurisprudenza, vi rientrano:
prevedano solo una diversa modulazione di orario o turni di lavoro;
In definitiva, dunque, il rischio di non tenere conto dell’eccessiva morbilità del portato di handicap
Il giudice rimettente, dopo aver richiamato la giurisprudenza della CGUE da cui ha poi preso le mosse anche la giurisprudenza di merito e di legittimità nazionale, ha sollevato dubbi sulla necessità di stabilire una durata specifica del periodo di comporto per i disabili, ritenendo che la normativa italiana sulla malattia fornisca già una tutela significativa al disabile. Ha anche esposto perplessità riguardo alla fattibilità di strumenti come lo scomputo, ad opera del datore di lavoro, dei periodi di assenza dovuti a disabilità dal periodo di comporto.
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