Con la sentenza n. 7190 del 18 marzo 2024, la Corte di Cassazione ha affrontato il tema della validità delle dimissioni rassegnate dal lavoratore sotto minaccia di licenziamento da parte del datore di lavoro.

Il dipendente agiva in giudizio per ottenere la nullità e, in subordine, l’annullabilità delle proprie dimissioni e l’accertamento che il rapporto di lavoro era proseguito senza soluzione di continuità, con diritto alle retribuzioni medio tempore maturate, in quanto era stato costretto a presentare una lettera di dimissioni compilata sotto dettatura di due responsabili dell’azienda, che lo minacciavano di conseguenze pregiudizievoli. La Suprema Corte ha affermato che qualora venga accertata l’inesistenza del diritto del datore di lavoro ad irrogare il licenziamento per insussistenza dell’inadempimento addebitato al lavoratore, le dimissioni rassegnate dal dipendente sotto minaccia di licenziamento sono annullabili per violenza morale. In tale ipotesi, infatti, il recesso del lavoratore trova la sua causa in una condotta intimidatoria, oggettivamente ingiusta, tale da costituire coercizione psicologica e da viziare il consenso.

Con l’ordinanza n. 10663 del 19 aprile 2024, la Cassazione ha affermato che è onere del datore di lavoro provare il regolare pagamento della retribuzione.

I fatti del giudizio

Il lavoratore ha promosso ricorso per decreto ingiuntivo al fine di ottenere la condanna della società al pagamento di quanto indicato nella busta paga di novembre 2015.

Nel primo grado di giudizio, il Tribunale ha accertato la debenza del credito a favore del lavoratore.

La Corte d’Appello, adita dalla società, ha confermato la pronuncia di primo grado, statuendo che il datore di lavoro non avesse assolto il proprio onere probatorio relativo alla dimostrazione in giudizio dell’avvenuto pagamento della somma ingiunta.

La decisione della Suprema Corte

La Suprema Corte di Cassazione – nel confermare la pronuncia di merito – ha preliminarmente rilevato che, una volta accertata la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, la prova rigorosa del pagamento della retribuzione spetta al datore di lavoro, il quale se non può provare di aver corrisposto la retribuzione dovuta al dipendente mediante la normale documentazione liberatoria rappresentata dalle regolamentari buste paga recanti la firma del lavoratore, deve fornire idonea documentazione dei relativi pagamenti che abbia in effetti eseguito in relazione ai singoli crediti vantati dal dipendente.

Secondo i giudici di legittimità, consegnare ai lavoratori dipendenti all’atto della corresponsione della retribuzione un prospetto contenente l’indicazione di tutti gli elementi costitutivi della retribuzione, non attiene alla prova dell’avvenuto pagamento, per la quale non sono sufficienti le annotazioni contenute nel prospetto stesso, ove il lavoratore ne contesti la corrispondenza alla retribuzione effettivamente erogata.

Secondo i Giudici di legittimità, l’onere ricade in capo al lavoratore solo nell’ipotesi in cui questi, dopo aver firmato la busta paga, contesti la corrispondenza tra la retribuzione indicata in detto documento e quella effettivamente erogata.

Non rientrando il caso di specie in quest’ultima fattispecie, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso proposto dalla società.

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La conciliazione in sede sindacale non può essere validamente conclusa presso la sede aziendale, non potendo quest’ultima essere annoverata tra le sedi protette, avente il carattere di neutralità indispensabile a garantire, unitamente alla assistenza prestata dal rappresentante sindacale, la libera determinazione della volontà del lavoratore.

Ad affermare tale principio è stata la Corte di Cassazione con ordinanza n. 10065 del 15 aprile 2024, con ciò fornendo un’interpretazione più restrittiva di quella in precedenza fornita con l’ordinanza n. 1975 del 18 gennaio 2024. Secondo la Corte, infatti, i luoghi selezionati dal legislatore hanno carattere tassativo e non ammettono equipollenti, sia perché direttamente collegati all’organo deputato alla conciliazione e sia in ragione della finalità di garantire al lavoratore un ambiente neutro, estraneo all’influenza della controparte datoriale.

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Il riferimento alla “sede sindacale” di cui all’art. 411 c.p.c. non può consentire di annoverare la sede aziendale fra le sedi protette, anche se alla conciliazione è presente un rappresentante sindacale

Con l’ordinanza n. 10065 del 15 aprile 2024, la Corte di Cassazione ha affermato che la conciliazione in sede sindacale, ai sensi dell’art. 411, comma 3, c.p.c., non può essere validamente conclusa presso la sede aziendale, non potendo quest’ultima essere annoverata tra le sedi protette, avente il carattere di neutralità indispensabile a garantire, unitamente alla assistenza prestata dal rappresentante sindacale, la libera determinazione della volontà del lavoratore.

La conciliazione sindacale: brevi cenni

Lo strumento della conciliazione stragiudiziale, in alternativa alla pronuncia del Giudice, per la definizione delle controversie in materia di lavoro è sempre stato visto con favore dal legislatore, che ha approntato e regolamentato nel tempo una serie di strumenti utili a tal fine: il tentativo di conciliazione presso l’ITL (facoltativo e obbligatorio solo nei casi di contratti certificati) ex art. 410 c.p.c.; la conciliazione nell’ambito del licenziamento tutele crescenti (D.Lgs. n. 23/2015); il tentativo di conciliazione in sede sindacale (art. 411 c.p.c.); il tentativo di conciliazione in sede giudiziale (ex art. 185 c.p.c. e art. 420 c.p.c.); la conciliazione presso le sedi universitarie; la conciliazione monocratica (art. 11, D.Lgs. n. 124/2004); la conciliazione in sede arbitrale ex artt. 412 ter e 412 quater.

Da ultimo, con la Riforma Cartabia (D.Lgs. n. 149/2022), il legislatore ha esteso alle controversie di lavoro anche l’istituto della negoziazione assistita, mediante l’introduzione del nuovo art. 2-ter al D.L. n. 132/2014 (conv. in legge n. 162/2014), con lo scopo di tentare una soluzione alla controversia ad opera dei difensori delle parti che avviano tale procedimento, senza la presenza di un soggetto terzo conciliatore, prima di promuovere l’azione giudiziaria.

Da un punto di vista giuslavoristico, l’art. 2113 c.c. prevede, in termini generali, l’invalidità delle rinunzie e transazioni che abbiano ad oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili di legge o dei CCNL, garantendo al lavoratore la possibilità di impugnare la transazione, con qualsiasi atto scritto, entro sei mesi dalla cessazione del rapporto o dalla successiva data della transazione.

L’ordinamento ritiene infatti che, a differenza di quanto accade nei rapporti negoziali civilistici (uguaglianza formale tra le parti), nei rapporti di lavoro vi sia una diseguaglianza sostanziale tra datore di lavoro e lavoratore (sotto il profilo economico) che impone il riequilibrio attraverso una tutela dichiarata nei confronti del lavoratore, per evitare che l’accordo finisca per procurare un danno al lavoratore anziché garantire e tutelare i suoi diritti.

Fermo quanto sopra, l’art. 2113 c.c., come noto, dispone altresì che le rinunce e le transazioni sono valide (e, dunque, non più impugnabili) se stipulate nelle sedi tassativamente individuate dal legislatore, ovverosia:

  • in sede giudiziale (artt. 185 e 420 c.p.c. e 88 disp. att. c.p.c.);
  • dinanzi alle Commissioni di conciliazione presso l’ITL o alle Commissioni di certificazione (artt. 410 e 411 c.p.c. e art. 31, comma 13, l. n. 183/2010);
  • dinanzi ai rappresentanti sindacali (artt. 412-ter e 411, comma 3, c.p.c.);
  • presso i Collegi di conciliazione ed arbitrato irrituale (art. 412-quater c.p.c.);
  • in sede di procedimento ispettivo (art. 11 d.lgs. n. 124/2004);
  • in fase di negoziazione assistita (art. 2-ter d.lgs. n. 132/2014).

In tali casi, la posizione del lavoratore è tutelata dall’intervento di un soggetto terzo, che garantisce l’assenza di un condizionamento della volontà del medesimo lavoratore.

Con particolare riferimento agli accordi di conciliazione in sede sindacale, la recente casistica giurisprudenziale costituisce un vero e proprio campanello di allarme per il datore di lavoro, che ritiene tali accordi totalmente inoppugnabili in quanto firmati in sede protetta.

Sono sempre più numerose, infatti, le pronunce (non solo di merito, ma anche di legittimità) che hanno sancito l’invalidità degli accordi transattivi in sede sindacale, se privi di determinate caratteristiche.

Innanzitutto, la transazione in sede sindacale, per essere valida, deve comportare l’effettiva attività di assistenza da parte del conciliatore, al quale il lavoratore abbia conferito specifico mandato.

L’effettività di tale attività deriva dal ruolo attribuito al conciliatore: quest’ultimo, anche in considerazione della non impugnabilità della transazione, deve preventivamente informare il lavoratore in merito alla reale portata dei diritti maturati e dismessi o disposti diversamente rispetto a quanto previsto dalla legge o dal contratto collettivo, nonché in relazione alle conseguenze derivanti dalla sottoscrizione della transazione in sede sindacale (ex pluris: Cass. ordinanza n. 16154 del 9 giugno 2021).

Proseguendo nella rassegna delle pronunce che hanno dichiarato impugnabile un verbale di conciliazione in sede sindacale, si richiama la sentenza resa dal Tribunale di Bari il 6 aprile 2022, con la quale è stato affermato che se l’assistenza al lavoratore, nell’ambito di una transazione in sede sindacale, è stata resa dal rappresentante di una sigla sindacale alla quale il dipendente non ha aderito, allora l’accordo non è valido ed efficace.

Rammentiamo altresì che il Tribunale di Roma (sentenza dell’8 maggio 2019) è giunto a sostenere che, affinché operi il carattere della inoppugnabilità (previsto dal comma 4 dell’art. 2113 c.c.), è necessario che la conciliazione in sede sindacale sia espressamente prevista dal contratto collettivo applicato dal datore di lavoro, che ne disciplini sede e modalità ai sensi dell’art. 412 ter c.p.c.

A ciò pure aggiungasi che la giurisprudenza di legittimità ha, inoltre, ritenuto necessaria la presenza di un mandato sindacale specifico conferito non nell’imminenza della conciliazione e financo di un’assistenza fornita dal sindacato di appartenenza del lavoratore e non da altri (Cass. n. 16168/2004).

Negli ultimi mesi la giurisprudenza ha altresì affrontato il tema del “luogo” in cui la conciliazione sindacale deve essere sottoscritta per essere ritenuta inoppugnabile.

Sul tema – oggetto altresì della ordinanza in commento – si richiamano due recenti precedenti giurisprudenziali.

Con l’ordinanza n. 25796 del 5 settembre 2023, la Suprema Corte – nel confermare la sentenza resa in grado d’appello – ha statuito che l’accordo conciliativo stipulato presso la sede della Prefettura con l’intervento di un rappresentante sindacale dei lavoratori non fosse riconducibile al novero delle conciliazioni non impugnabili ex art. 2113, ultimo comma, cod. civ., e ciò in quanto tale accordo non poteva considerarsi concluso presso una sede sindacale e nel rispetto delle modalità previste dal contratto collettivo di categoria ai sensi dell’articolo 412-ter c.p.c.

E ancora, pochi mesi fa, la Suprema Corte, con l’ordinanza n. 1975 del 18 gennaio 2024, ha statuito che la necessità che la conciliazione sindacale sia sottoscritta presso una sede sindacale non è un requisito formale, bensì funzionale ad assicurare al lavoratore la consapevolezza dell’atto dispositivo che sta per compiere e, quindi, ad assicurare che la conciliazione corrisponda a una sua volontà genuina. Pertanto, se tale consapevolezza risulti comunque acquisita, ad esempio attraverso le esaurienti spiegazioni date dal conciliatore sindacale incaricato anche dal lavoratore, lo scopo voluto dal legislatore e dalle parti collettive deve dirsi raggiunto. In tal caso, quindi, la stipula del verbale di conciliazione in una sede diversa da quella sindacale non produce alcun effetto invalidante sulla transazione.

Il fatto affrontato e l’esito dei giudizi di merito

La vicenda relativa all’ordinanza in commento trae origine dalla sottoscrizione di un verbale di conciliazione presso la sede aziendale, alla presenza delle parti e del rappresentante sindacale.

Con tale accordo, la società “si era impegnata a non dare seguito ai preavvisati licenziamenti collettivi di cui alla lettera di apertura della procedura di mobilità a condizione che tutte le maestranze manifest(assero) la propria accettazione alla proposta di riduzione della retribuzione mensile nella misura del 20% dell’imponibile fiscale per il periodo dall’1.3.2016 al 28.2.2018 eventualmente prorogabile per un massimo di altri due anni”.

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Con la sentenza n. 32412 del 22 novembre 2023, la Corte di Cassazione si è occupata della

legittimità del licenziamento intimato dal datore di lavoro formale nei confronti di un lavoratore

impiegato nell’ambito di un appalto non genuino.

Il lavoratore agiva in giudizio per ottenere l’accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro

alle dipendenze della società committente, la dichiarazione dell’inefficacia del licenziamento in

quanto intimato dall’appaltatrice e non dall’«effettivo» datore di lavoro e la riammissione in

servizio. La Cassazione, investita della vicenda, ha in primo luogo affermato che non è preclusa al

lavoratore la possibilità di agire in giudizio per l’accertamento della sussistenza di una situazione di

interposizione fittizia e per ottenere il riconoscimento di un rapporto di lavoro alle dipendenze del

committente anche in caso di licenziamento irrogato dall’appaltatrice.

La Suprema Corte, inoltre, ha stabilito che in caso di interposizione fittizia il potere di recesso deve

essere in ogni caso esercitato dal reale datore di lavoro e non da quello fittizio, a pena di

inefficacia del recesso; il datore di lavoro sostanziale, infatti, non può avvalersi del licenziamento

irrogato dall’appaltatore quale atto di gestione del rapporto.