La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con sentenza n. 35066 del 14 dicembre 2023 ha confermato che anche il comportamento extralavorativo del dipendente può ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti qualora abbia un riflesso, sia pure soltanto potenziale ma oggettivo, sulla funzionalità del rapporto e comprometta le aspettative di un futuro puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa, in relazione alle specifiche mansioni o alla particolare attività.

Il caso sul quale è stata chiamata a pronunciarsi la Corte trae origine dal licenziamento per giusta causa di un dipendente, team leader con mansioni di coordinamento, che aveva intrattenuto, in tempi diversi, rapporti extralavorativi petulanti e per giunta violenti nei confronti di due colleghe dimostrando alle stesse di essere immune da limiti e discipline anche in considerazione del ruolo ricoperto. Tale comportamento, ad avviso della banca datrice, era stato gravemente pregiudizievole per le colleghe e per la banca stessa.

Ad avviso dei giudici di merito, che hanno confermato la legittimità del licenziamento, la condotta addebitata al lavoratore qualifica la fattispecie della molestia sul lavoro e, come tale, è idonea a giustificare la sanzione espulsiva.

Il lavoratore ha presentato ricorso in Cassazione sostenendo, tra i vari motivi, una errata applicazione dell’art. 2105 cod. civ., in quanto la sua condotta debba ricondursi alla sfera privata (o meglio extralavorativa) e di conseguenza, da un lato, non può avere rilevanza sul piano disciplinare e, dall’altro, è inidonea a determinare una comprovata lesione del vincolo fiduciario non potendo mettere in discussione il puntuale adempimento della prestazione lavorativa del dipendente.

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Con l’ordinanza n. 31660 del 14 novembre 2023, la Cassazione si è pronunciata in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo fondato su esigenze di risparmio. Nel caso di specie, il datore di lavoro non aveva dimostrato come i costi da ridurre dovessero essere proprio quelli riguardanti la posizione del lavoratore licenziato piuttosto che altri, peraltro riferibili a posizioni anche più “costose” rispetto a quella interessata dal licenziamento. La Cassazione, investita della vicenda, ha stabilito che ai fini dell’accertamento della legittimità del licenziamento intimato sul presupposto di una generale necessità di contenimento dei costi, diviene indispensabile approfondire le ragioni per le quali la scelta del datore di lavoro ricada su un determinato lavoratore, dovendosi al riguardo considerare anche altre posizioni di lavoro, specialmente se comparabili a quella soppressa per verificare la sussistenza del nesso causale tra la ragione organizzativa addotta e la soppressione del posto di lavoro. Seguendo l’orientamento maggioritario, la Corte ha dunque statuito che qualora il licenziamento per g.m.o. sia irrogato al fine di un contenimento dei costi, è onere del datore indicare le ragioni per le quali la scelta cada proprio su un determinato lavoratore piuttosto che su altri.

Con la recentissima sentenza n. 2274 del 23 gennaio 2024, la Suprema Corte di Cassazione ha statuito che è legittima l’intimazione da parte del datore di lavoro di un secondo licenziamento in pendenza di un giudizio avente ad oggetto un precedente recesso fondato su motivi diversi, sebbene la seconda sanzione espulsiva sia destinata a non produrre effetti ove il primo licenziamento venga dichiarato legittimo con sentenza passata in giudicato.

Il caso di specie

Un dipendente, in pendenza di un giudizio inerente ad un primo licenziamento, impugnava giudizialmente il secondo licenziamento disciplinare irrogatogli dal datore di lavoro.

Il giudizio afferente tale secondo licenziamento veniva definito nell’ambito della c.d. fase sommaria del Rito Fornero con l’annullamento del licenziamento in quanto solo uno dei fatti addebitati era stato provato.

L’ordinanza della fase sommaria veniva opposta sia dal dipendente sia dal datore di lavoro.

I due giudizi della fase di opposizione non venivano riuniti e si concludevano con due separate sentenze, dichiarative entrambe dell’inefficacia sopravvenuta del secondo licenziamento: ciò in quanto, nelle more di tale giudizio, vi era stato, in primo grado, l’accertamento giudiziale della legittimità del primo licenziamento e, successivamente, la Corte d’Appello, sempre con riferimento al primo licenziamento, aveva dichiarato inammissibile il ricorso promosso dal lavoratore.

Le due sentenze emesse nell’ambito della fase di opposizione afferente al secondo licenziamento venivano appellate sia dal datore di lavoro sia dal lavoratore.

La Corte d’Appello – a seguito dell’intricata vicenda processuale sopra riassunta – dichiarava inefficace il secondo licenziamento e ciò a fronte di una sentenza, seppur non definitiva, che aveva affermato la legittimità del primo.

Avverso tale pronuncia resa dalla Corte d’Appello ricorreva in cassazione il datore di lavoro.

Il ricorso in Cassazione e la decisione assunta dalla Corte

Nelle more del procedimento in cassazione afferente al secondo licenziamento, la Suprema Corte si pronunciava altresì in merito al primo recesso, confermando la legittimità dello stesso.

Con la pronuncia in commento, gli Ermellini hanno quindi rilevato, preliminarmente, la perdita di interesse da parte del datore di lavoro ad insistere per l’annullamento della pronuncia dichiarativa dell’inefficacia del secondo licenziamento, perché tale inefficacia era da ritenersi ora conclamata per il maturare del menzionato giudicato.

Solo al fine di pronunciarsi in merito alle spese processuali, la Suprema Corte accoglieva il ricorso promosso dal datore di lavoro sulla scorta dei seguenti motivi.

In primo luogo, la Corte ha statuito che, in tema di rapporto di lavoro subordinato, il datore di lavoro, qualora abbia già intimato al dipendente il licenziamento, possa legittimamente intimargli un secondo recesso, fondato su una diversa causa o motivo, essendo quest’ultimo del tutto autonomo e distinto rispetto al primo.

Secondo i Giudici di Legittimità, entrambi gli atti di recesso sono in sé astrattamente idonei a raggiungere lo scopo, dovendosi ritenere il secondo licenziamento produttivo di effetti solo nel caso in cui venga riconosciuto invalido o inefficace il precedente con sentenza passata in giudicato.

Da ciò consegue che la Corte d’Appello avrebbe dovuto pronunciarsi sulla legittimità o meno del secondo licenziamento e ciò in quanto il giudizio relativo al primo licenziamento non si era – all’epoca – ancora concluso con una sentenza passata in giudicato.

La Suprema Corte, accogliendo il ricorso promosso dal datore di lavoro, ha conseguentemente condannato il dipendente al pagamento delle spese legali del procedimento.

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Con l’ordinanza n. 35527 del 19 dicembre 2023, la Corte di Cassazione si è espressa sul licenziamento di una lavoratrice madre disposto in conseguenza della cessazione dell’attività di impresa del datore di lavoro a seguito di dichiarazione di fallimento, decretandone la nullità e condannando il datore di lavoro alla reintegrazione della dipendente e al pagamento di un’indennità monetaria.

I fatti di causa

Nel caso di specie, la lavoratrice veniva licenziata dalla Curatela – poco dopo il rientro dal periodo di congedo di maternità obbligatorio e prima che il figlio compisse un anno di età – per l’intervenuta dichiarazione di fallimento della Cooperativa, sua datrice di lavoro.

La lavoratrice impugnava il licenziamento davanti al Tribunale di Arezzo rivendicando la nullità dello stesso in quanto intimato entro l’anno di nascita di suo figlio. Il Tribunale accoglieva la domanda della lavoratrice, dichiarava nullo il licenziamento e condannava la Curatela fallimentare alla reintegrazione della dipendente oltre al pagamento di un’indennità commisurata all’ultima retribuzione.

La Corte d’Appello di Firenze, a seguito del giudizio promosso dalla Curatela, confermava la pronuncia di prime cure.

La sentenza della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione, investita della causa, ha indagato il concetto di “cessazione dell’attività di impresa” previsto dall’ art. 54, co. 3, lett. b), D.Lgs. 151/2001 come una delle ipotesi di deroga al generale divieto di licenziamento delle lavoratrici madri entro l’anno di nascita del figlio.

In particolare, la Corte ha valutato l’ipotesi in cui l’esercizio provvisorio dell’attività d’impresa non sia disposto con la sentenza dichiarativa del fallimento, né successivamente autorizzato dal giudice delegato, in un contesto in cui dopo il fallimento “era stato dimostrato che le attività di liquidazione non erano iniziate e che, invece, erano in corso attività conservative in funzione di trasferimento a terzi (motivo per il quale era in corso una selezione del personale da conservare in servizio)”.

Dalla disamina della normativa fallimentare e di quella contenuta nell’art. 54, emerge, secondo la Corte, come la sentenza dichiarativa del fallimento implichi la cessazione formale dell’attività d’impresa (salvo l’esercizio provvisorio autorizzato), mentre il concetto di cessazione sotteso all’art. 54 abbia una portata diversa.

A parere della Corte, la deroga al divieto di licenziamento dettata dalla “cessazione dell’attività” opera solamente nei casi in cui sia esclusa ogni possibilità che comporti, in qualche modo, la continuazione o la persistenza dell’impresa, a qualsiasi titolo essa avvenga e ciò in ragione della preminente tutela dei diritti della lavoratrice madre rispetto ai diritti patrimoniali, posti a salvaguardia della par condicio creditorum (in sede fallimentare).

Nel richiamare precedenti pronunzie sul tema, la Corte, con la sentenza in commento, precisa che la deroga prevista dall’art. 54 debba essere contenuta entro “limiti precisi e circoscritti” e che “in considerazione del fatto che l’estinzione del rapporto si presenta come evento straordinario o necessitato” la stessa non possaessere interpretata in senso estensivo (Cass. N. 13861/2021). Pertanto, conclude la Corte, la deroga al divieto di licenziamento opera al ricorrere delle seguenti due condizioni: (i) che il datore di lavoro sia un’azienda e (ii) che vi sia cessazione dell’attività, con onere della prova a carico del datore di lavoro stesso.

Nel caso di specie, alla luce del fatto che l’attività della fallita Cooperativa non poteva dirsi cessata, il licenziamento della lavoratrice non è stato ritenuto conforme ai principi di diritto sopra richiamati e, per tale ragione, è stato quindi considerato illegittimo.

Con l’ordinanza n. 31660 del 14 novembre 2023, la Cassazione ha statuito che, qualora il licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia irrogato al fine di un contenimento dei costi, è onere del datore di lavoro indicare le ragioni per le quali la scelta ricada proprio su un determinato lavoratore.

Il caso di specie

Il dipendente impugnava giudizialmente il licenziamento per soppressione del posto di lavoro cui era adibito. La motivazione addotta dal datore di lavoro atteneva alla necessità di ridurre i costi e ciò nell’ambito di una politica programmatica volta al ripianamento del deficit di bilancio.

La Corte d’Appello, nel rigettare il reclamo promosso dal lavoratore avverso la sentenza resa dal giudice di prime cure, statuiva che, “accertato il passivo di bilancio, il licenziamento del lavoratore fosse necessariamente connesso alle necessità di conseguire il risparmio in un determinato settore lavorativo”.

A fronte delle deduzioni del lavoratore concernenti la mancata soppressione di un altro e più costoso posto di lavoro, la Corte Territoriale precisava che trattasi di “scelte datoriali insindacabili”.

Il ricorso in Cassazione e la decisione assunta dalla Corte

La sentenza della Corte d’Appello veniva impugnata dal lavoratore sulla base di plurimi motivi.

La Cassazione – accogliendo il ricorso promosso dal dipendente – ha statuito che, nell’ambito di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la ragione organizzativa e/o produttiva collegata ad una politica di riduzione dei costi deve essere valutata nella sua concreta esistenza ed entità.

Tale valutazione non può prescindere dall’accertamento del necessario collegamento causale tra la ragione oggettiva addotta e la soppressione del posto di lavoro.

Ciò in quanto, ove sia stata ipotizzata una generale necessità di procedere ad una politica di contenimento dei costi, diviene necessario approfondire (ed è onere del datore di lavoro fornire la relativa prova) le ragioni per le quali la scelta cada su un determinato lavoratore.

Tale verifica – ad avviso degli Ermellini – non è da qualificarsi quale indebita interferenza nella discrezionalità delle scelte datoriali, e ciò in quanto l’insussistenza della ragione economica addotta incide sulla stessa legittimità del recesso “non per un sindacato su di un presupposto in astratto estraneo alla fattispecie del giustificato motivo oggettivo, bensì per una valutazione in concreto sulla mancanza di veridicità o sulla pretestuosità della ragione addotta dall’imprenditore“.

Non rinvenendo tale verifica nell’impugnata pronuncia di merito, la Suprema Corte ha pertanto accolto il ricorso proposto dal dipendente, cassando con rinvio la pronuncia resa dalla Corte d’Appello.

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