Nel valutare la sussistenza della giusta causa di licenziamento occorre avere riguardo anche al disvalore ambientale delle condotte contestate al lavoratore, soprattutto nel caso in cui quest’ultimo ricopra ruoli di responsabilità, stante la possibilità di poter influenzare i colleghi. In questi termini si è espressa la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con l’ordinanza n. 25969 del 6 settembre 2023.
Una dipendente, con qualifica di gerente di una filiale adibita alla vendita di abbigliamento e tessuti, impugnava il licenziamento disciplinare comminatole a seguito della contestazione di una serie di condotte disciplinarmente rilevanti, tra cui: l’aver introdotto nel negozio e nel essersi fatta confezionare da una sarta di fiducia un abito identico a un modello in vendita; lo svolgimento telefonico di attività di cartomanzia in orario di lavoro; l’avere messo da parte e occultato capi di abbigliamento e altri oggetti destinati alla vendita; l’avere indossato capi destinati alla vendita durante l’orario di lavoro; l’essersi ripetutamente assentata dal negozio senza autorizzazione; l’avere ripetutamente rimproverato e mortificato le colleghe alla stessa sottoposte.
La Corte d’Appello di Genova, nel secondo grado di giudizio, accoglieva il reclamo della lavoratrice e, dichiarando risolto il rapporto di lavoro, condannava la società al pagamento di una indennità risarcitoria nella misura di 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
Avverso la sentenza di secondo grado, la società datrice di lavoro proponeva ricorso per Cassazione e, a seguito del giudizio di legittimità, la sentenza della Corte d’Appello veniva cassata con rinvio.
La Corte d’Appello, investita nuovamente della causa, condannava quindi la lavoratrice alla restituzione, a favore della società, dell’importo precedentemente percepito pari ad euro 50.521,77 e, con medesima pronuncia, respingeva le doglianze della lavoratrice circa la non proporzionalità del provvedimento disciplinare comminato. In detta sede, la Corte d’Appello, rigettando le domande della lavoratrice, giudicava invece il licenziamento proporzionato, ciò in ragione della molteplicità, della tipologia ed intenzionalità dei fatti addebitati, da cui “emergeva un atteggiamento di consapevole sfruttamento della posizione gerarchica di responsabile del negozio, con connotazione negativa delle condotte poste in essere, aggravate a causa del ruolo ricoperto”.
La lavoratrice, quindi, proponeva ricorso per Cassazione.
La Corte di Cassazione, investita della causa, ha rigettato il ricorso proposto dalla lavoratrice, ritenendo il licenziamento proporzionato e legittimo.
Secondo la Corte, per valutare la proporzionalità della sanzione è infatti necessario tenere conto dei fatti contestati alla lavoratrice nel loro complesso, anche considerando il ruolo di gerente svolto e le maggiori responsabilità ad esso collegate, tanto sul piano di un più intenso obbligo di diligenza, come del dovere di tenere comportamenti tali da costituire positivi riferimenti e modelli per i propri sottoposti.
Pertanto, per accertare la legittimità del licenziamento per giusta causa, non può solo aversi riguardo al contenuto obiettivo della condotta disciplinarmente rilevante, ma occorre anche prendere in considerazione la portata soggettiva della stessa esaminandola anche alla luce del “disvalore ambientale” che quest’ultima assume. Secondo la Corte di legittimità, infatti, tale ultimo aspetto comporta per il lavoratore cui siano affidate mansioni di gerente di un punto vendita (o mansioni che implichino significative responsabilità), un più intenso obbligo di diligenza, con conseguente maggiore rilevanza (anche disciplinare) delle condotte integranti un modello diseducativo e disincentivante per gli altri dipendenti.
Con l’ordinanza n. 29337 del 23 ottobre 2023, la Corte di Cassazione ha statuito che il recesso per motivo oggettivo in caso di rifiuto del part time (o viceversa del full time) non è di per sé illegittimo, ma comporta una rimodulazione del giustificato motivo oggettivo e dell’onere della prova posto a carico della parte datoriale.
La vicenda tra origine dal licenziamento per soppressione della posizione intimato ad una dipendente che aveva rifiutato la proposta della società di trasformare il proprio rapporto di lavoro da part time a full time.
Impugnato il recesso, considerato privo di giustificato motivo oggettivo e ritorsivo, il Tribunale respingeva la domanda della lavoratrice ritenendo provate le ragioni della società poste a fondamento del licenziamento.
I giudici di seconde cure, in riforma della pronuncia di primo grado, accoglievano il ricorso in appello promosso dalla dipendente, rilevando, in sintesi, che – premesso che ai sensi del Decreto Legislativo n. 81 del 2015, articolo 8, comma 1 “il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, o viceversa, non costituisce giustificato motivo di licenziamento” – era da ritenersi pretestuosa la prospettazione di una riorganizzazione aziendale attraverso l’assunzione full time di una nuova figura contabile per fronteggiare un incremento dell’attività lavorativa e che, in ogni caso, non era stata dimostrata in giudizio l’impossibilità per la società di ripartire tra le due contabili un pacchetto complessivo di clienti o la difficoltà a reperire, in tempi brevi, una risorsa part time ne’ era stata provata l’effettiva ineluttabilità del licenziamento della lavoratrice come conseguenza necessaria della addotta riorganizzazione.
La Corte d’Appello statuiva altresì che il licenziamento, oltre che illegittimo, fosse anche ritorsivo, in quanto direttamente collegato al rifiuto opposto dalla dipendente alla trasformazione del rapporto da part time a full time.
Conseguentemente, in sede di gravame veniva dichiarata la nullità del recesso, con condanna della società alla reintegrazione in servizio della lavoratrice e al pagamento di una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR dal licenziamento all’effettiva reintegrazione, nonché al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali.
Avverso tale sentenza, la società proponeva ricorso in cassazione.
La Suprema Corte – nel riformare la pronuncia di merito – ha precisato che, nella fattispecie per cui è causa, ai fini del giustificato motivo oggettivo, occorre che sussistano o siano dimostrate dal datore di lavoro:
Il rifiuto della trasformazione del rapporto di lavoro part time, come articolato, diventa, pertanto, come precisato dalla Corte, “una componente del più ampio onere della prova del datore che comprende le ragioni economiche da cui deriva la impossibilità di continuare ad utilizzare la prestazione a tempo parziale e l’offerta del full time rifiutata”.
Sulla scolta di tali principi la Suprema Corte ha, dunque, precisato che non solo è necessaria la prova della effettività delle ragioni addotte per il cambiamento dell’orario, ma anche quella della impossibilità dell’utilizzo della prestazione con modalità orarie differenti, quale componente/elemento costitutivo del giustificato motivo oggettivo, ferma restando l’insindacabilità della scelta imprenditoriale nei suoi profili di congruità ed opportunità, in ossequio al disposto dell’articolo 41 Cost..
La Suprema Corte ha altresì statuito che, con riferimento al licenziamento ritorsivo, affinché si possa affermare la nullità del licenziamento, occorre che l’intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinante esclusiva, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso, con onere probatorio che ricade sul lavoratore.
Non essendosi la corte territoriale uniformata a tali principi, gli ermellini hanno accolto il ricorso promosso dalla società, rinviando la causa alla corte territoriale in diversa composizione.
Altri insights correlati:
Con l’ordinanza n. 27353 del 26.09.23, la Corte di Cassazione si è pronunciata sul
caso di un dipendente che era stato licenziato per il furto di alcuni beni aziendali di
esiguo valore. Il dipendente, impugnato il licenziamento, agiva in giudizio chiedendo
di essere reintegrato nel posto di lavoro perso. I giudici di merito, pur escludendo
l’applicabilità della tutela reale al caso di specie, ritenevano che la sanzione espulsiva
fosse sproporzionata rispetto al modesto valore della merce sottratta dal dipendente,
condannando la Società al pagamento di un’indennità risarcitoria nei confronti del
lavoratore. La Corte di Cassazione, investita della vicenda, ha confermato che, essendo il comportamento oggetto di contestazione (ossia, il furto) rientrante tra quelli per
cui il CCNL applicato prevedeva la sanzione del licenziamento, la tutela reale non potesse trovare applicazione nel caso di specie. Tuttavia, essendo evidente lo squilibrio
tra sanzione inflitta e comportamento oggetto di contestazione, la Suprema Corte ha
confermato la decisione dei giudici di prime cure, ritenendo applicabile al caso di
specie la tutela indennitaria di cui all’art. 18, co. 5, l. 300/70.
Con la sentenza n. 20239 del 14 luglio 2023, la Corte di Cassazione ha affrontato il tema del
licenziamento per mancato superamento del periodo di prova intimato in presenza di un patto di
prova nullo, statuendo che nei confronti dei dipendenti soggetti alla disciplina delle c.d. “tutele
crescenti” (i.e., dipendenti assunti dopo il 7 marzo 2015) trova applicazione esclusivamente la
tutela indennitaria e non la reintegra in servizio. La Suprema Corte, nel sostenere la propria
decisione, ha rimarcato come la riforma dei licenziamenti introdotta dal c.d. Jobs Act abbia
circoscritto il rimedio della tutela reale al solo ambito del licenziamento disciplinare e, in
particolare, al solo caso in cui sia dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale
contestato al lavoratore, concludendo pertanto che, data la residualità della tutela reale
nell’impianto normativo del Jobs Act, ai licenziamenti intimati durante il periodo di prova in
presenza di un patto nullo si applichi esclusivamente il rimedio indennitario economico.
Uno dei requisiti fondamentali nell’ambito delle contestazioni disciplinari è la corrispondenza tra l’addebito contestato al lavoratore e quello posto a fondamento della sanzione inflitta. Questo principio è volto ad assicurare una procedura equa e giusta nell’ambito dei rapporti di lavoro, al fine di prevenire il ricorso da parte del datore di lavoro a licenziamenti basati su circostanze ulteriori o diverse da quelle esplicitate nella lettera di contestazione.
La Corte di Cassazione ha ribadito il predetto principio con l’ordinanza numero 26042/2023 dello scorso 7 settembre 2023.
Il caso affrontato riguardava un lavoratore, che era stato licenziato a seguito di accuse di falso e furto di carburante, reati che erano stati parallelamente oggetto di un processo penale.
Il lavoratore, inizialmente licenziato, è stato successivamente assolto da tali accuse nel processo penale, per non aver commesso il fatto.
In forza della sentenza penale di assoluzione, il Tribunale di primo grado, in prima istanza, e la Corte di merito, in grado di appello, avevano ritenuto illegittimo il licenziamento.
La società aveva impugnato la decisione davanti alla Suprema Corte, sostenendo, da un lato, che mancavano i requisiti richiesti dalle norme penali per l’efficacia di una sentenza penale nel giudizio civile, e, dall’altro, che fosse stato omesso l’esame di taluni e ulteriori fatti adeguati a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario col lavoratore licenziato.
La Corte di Cassazione, ha affermato che “nel vigente ordinamento processuale, mancando una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova, il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove cosiddette atipiche. In tal senso, ad avviso della Corte, “non vi è dubbio che la sentenza di assoluzione per non aver commesso il fatto, anche in esito a giudizio abbreviato, è qualificabile come prova atipica dell’insussistenza dell’addebito disciplinare rientrante nel perimetro della parallela imputazione penale, la cui rivalutazione in fatto è preclusa in sede di legittimità”.
Inoltre, la Cassazione ha respinto l’asserita omessa valutazione di «omissioni» e «violazioni» esterne alla contestazione disciplinare. Ciò, in forza del principio di immutabilità della contestazione disciplinare, che impedisce al datore di lavoro di ampliarne il perimetro durante il procedimento giudiziario.
Conseguentemente, confermando la decisione della Corte di Appello, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso ed ha ritenuto il licenziamento illegittimo.
Altri insights collegati: