L’invio del certificato medico tramite fax è una valida modalità di comunicazione della malattia da parte del lavoratore, in quanto espressamente prevista nel regolamento aziendale
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 25661 del 25 settembre 2024, ha ritenuto illegittimo il licenziamento di un lavoratore che, in ferie all’estero, aveva comunicato la propria assenza per malattia, tramite fax, affermando che tale modalità fosse conforme al regolamento aziendale. La Corte ha sottolineato come la comunicazione della malattia potesse avvenire anche in forme diverse dalla lettera raccomandata, se previsto dal regolamento aziendale.
Rapporto di lavoro – Comunicazione della malattia – modalità di trasmissione – certificazione medica – fax come strumento valido – regolamento aziendale – ricezione presunta – documentazione della trasmissione – condotta del lavoratore – malattia all’estero – giusta causa di licenziamento – trasmissione efficace
La comunicazione della malattia al datore di lavoro può essere validamente effettuata tramite fax, qualora tale modalità sia espressamente prevista dal regolamento aziendale. In tal caso, si presume che il fax sia stato correttamente ricevuto dal datore di lavoro qualora il lavoratore riesca a documentare, mediante rapporti di trasmissione, il buon esito della comunicazione, anche in assenza di tracce sui server aziendali. La condotta del lavoratore riguardo la comunicazione della malattia all’estero, sebbene possa essere considerata non del tutto diligente, non è sufficiente a configurare una giusta causa di licenziamento, qualora non venga dimostrata la consapevolezza del lavoratore circa il mancato buon esito della trasmissione.
Il caso esaminato dalla Corte di Cassazione riguarda il licenziamento per giusta causa per “assenza ingiustificata di oltre quattro giorni” irrogato nei confronti di un lavoratore che, mentre si trovava in Romania per ferie, si era ammalato. Il dipendente ha sostenendo la giustificatezza della propria assenza, affermando che aveva contratto la malattia durante il periodo di ferie e, pertanto, aveva inviato il certificato medico tramite fax, in linea con quanto previsto dal regolamento aziendale.
A seguito del licenziamento, il lavoratore ha, dunque, impugnato il provvedimento dinanzi al Tribunale di Treviso, chiedendo l’annullamento del recesso per insussistenza del fatto contestato.
L’argomento principale alla base degli scritti difensivi della società consisteva nella presunta inadeguatezza della comunicazione di malattia. Nella specie, l’azienda ha sostenuto che il lavoratore non aveva rispettato le procedure previste dal regolamento aziendale, che, secondo la società, richiedevano sia una comunicazione più “formale”, tipicamente attraverso lettera raccomandata, sia un preavviso telefonico. Di contrario avviso era il lavoratore, il quale ha replicato che l’invio del fax fosse una modalità consentita dal regolamento stesso e che il certificato era stato trasmesso correttamente, come dimostrato dal rapporto di trasmissione.
Durante la fase sommaria, il Tribunale di Treviso ha accolto l’impugnazione del lavoratore, annullando il licenziamento e ordinandone la reintegrazione. Inoltre, condannava la società al pagamento «dell’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino all’effettiva reintegrazione».
Avverso la decisione del Tribunale, l’azienda ha successivamente depositato il proprio ricorso dinanzi la Corte d’Appello di Venezia, la quale ha accolto parzialmente il gravame, confermando l’illegittimità del licenziamento e la reintegrazione, ma rideterminando l’indennità risarcitoria in dodici mensilità.
La Corte ha, infatti, sostenuto che l’articolo 40 del contratto collettivo applicato prevede l’assenza ingiustificata pari o superiore a quattro giorni come causa di licenziamento disciplinare, includendo nella definizione di assenza ingiustificata anche la tardiva comunicazione ed il ritardo nell’invio del certificato medico.
In aggiunta a quanto sopra, secondo il regolamento aziendale era preciso dovere del lavoratore avvertire il datore di lavoro il giorno stesso dell’evento, oltre a procedere all’invio del certificato medico.
Inoltre, è emerso che il dipendente non aveva documentato alcun impedimento che giustificasse la mancata comunicazione; infatti, l’unico messaggio di testo inviato risaliva a giorni successivi all’inizio dell’assenza contestata.
Un ultimo aspetto significativo esaminato dalla Corte d’Appello ha riguardato la mancanza di allegazione da parte del dipendente circa un possibile impedimento di comunicazione telefonica. Sul punto, la Corte ha osservato che «il lavoratore non ha documentato un impedimento di tale gravità da escludere radicalmente la possibilità di un preventivo serio tentativo di contatto con il responsabile aziendale». Infine, ha sottolineato che «il lavoratore ha tenuto una condotta formalmente ossequiosa degli obblighi contrattuali, ma limitandosi ad adempiervi in forma minimale».
Conseguentemente, la Corte ha rilevato che il lavoratore non aveva rispettato l’obbligo di avvisare telefonicamente il datore di lavoro, contravvenendo così al regolamento aziendale e alle regole di diligenza richiesta nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato.
Avverso la decisione della Corte di Appello, l’azienda ha presentato ricorso per Cassazione, articolando cinque motivi di impugnazione.
Il primo motivo, si è basato sulla presunta nullità della sentenza per avere la Corte d’Appello fornito affermazioni contraddittorie ed inconciliabili tra loro. In particolare, i giudici del reclamo avrebbero «dapprima affermato che il comportamento del lavoratore non era stato lineare né improntato alle basilari regole di sollecita diligenza richieste dal rapporto di lavoro subordinato» e, successivamente, «escluso la sussistenza della giusta causa».
La Corte di Cassazione, respingendo la predetta tesi, ha affermato che la contraddittorietà era solo apparente, in quanto la Corte d’Appello aveva ritenuto sufficiente sia la modalità di invio tramite fax, in quanto prevista dal regolamento aziendale, sia la prova della sua ricezione nel rapporto di trasmissione prodotto in giudizio dal lavoratore, in quanto analogo fax risultava spedito all’INPS e da essi regolarmente ricevuto.
Con il secondo motivo, la società ha impugnato la decisione della Corte, per aver ritenuto “idonea” la modalità di trasmissione tramite fax.
La Corte di Cassazione ha ritenuto il motivo infondato in quanto «il fax era una modalità prevista dal regolamento aziendale» e «la norma di legge non esclude modalità equivalenti secondo forme d’uso, che ben possono essere previste appunto da un regolamento aziendale».
Con il terzo motivo, la società ha sostenuto che la Corte territoriale ha contraddittoriamente «dapprima affermato che solo in giudizio il datore di lavoro aveva potuto verificare il contenuto della trasmissione del fax, ossia la certificazione medica, poi affermato che non vi era prova di falsificazione o alterazione del messaggio».
Anche in questo caso, la Cassazione ha respinto le argomentazioni dell’azienda, affermando che il fax era da considerarsi un valido mezzo di comunicazione, così come previsto dal regolamento aziendale, sicché «la conoscenza del destinatario è irrilevante ai fini del fatto oggetto della contestazione disciplinare»
Con il quarto motivo la società ha contestato che la Corte territoriale ha presunto il corretto arrivo del fax partendo dall’unico dato disponibile circa l’effettivo invio dello stesso.
La Cassazione ha affermato che «l’obbligo del lavoratore si esaurisce nella verifica del buon esito della trasmissione del fax», affermando dunque che «la condotta del lavoratore è quindi esente da addebiti».
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Con l’ordinanza n. 23858 del 5 settembre 2024, la Corte di Cassazione – nel confermare il proprio precedente orientamento – ha statuito che, nell’ipotesi di licenziamento disciplinare per svolgimento di altra attività durante l’assenza per malattia, grava sul datore di lavoro la prova che la malattia sia simulata, ovvero che l’attività svolta nei giorni di assenza sia potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro al servizio.
Una società incaricava un’agenzia investigativa al fine di pedinare una dipendente assente per malattia.
Dalla relazione investigativa emergeva che la dipendente, durante l’assenza per malattia (ma non durante le ore di reperibilità), avesse svolto attività ludiche e si era recata presso un centro commerciale per fare la spesa.
La società procedeva, pertanto, alla contestazione disciplinare di tali condotte e al successivo licenziamento per giusta causa, fondando il recesso sulla simulazione, da parte della dipendente, dello stato di malattia.
La Corte d’Appello dichiarava l’illegittimità del licenziamento per insussistenza del fatto contestato, con conseguente condanna della società alla reintegrazione in servizio della dipendente.
La Corte territoriale rilevava, infatti, che il datore di lavoro (sul quale incombe il relativo onere) non avesse dimostrato in giudizio la giusta causa di recesso: non essendo stata svolta una visita di verifica durante gli orari di reperibilità, non poteva considerarsi raggiunta – sulla base del solo pedinamento – la prova dell’incompatibilità tra la malattia dichiarata e l’attività ludica.
Con ricorso per cassazione, la società impugnava la sentenza d’appello sulla base di plurimi motivi.
In particolare, la società eccepiva la mancata valutazione da parte della Corte d’Appello dell’esistenza di presunzioni oggettive da cui dedurre la simulazione di malattia, nonché la mancata attribuzione alla lavoratrice dell’onere della prova circa la compatibilità della malattia con le attività ludiche che le sono state contestate.
Il percorso logico giuridico della Suprema Corte – che ha condotto al rigetto del ricorso promosso dalla società – ha preso le mosse dalla nozione di malattia rilevante a fini di sospensione della prestazione lavorativa che, come precisato dalla Corte, “ricomprende le situazioni nelle quali l’infermità determini, per intrinseca gravità o per incidenza sulle mansioni normalmente svolte dal dipendente, una concreta ed attuale, sebbene transitoria, incapacità al lavoro del medesimo” (cfr. Cass. n. 14065/1999, n. 12152/2024).
I giudici di legittimità hanno pertanto rilevato che, anche ove la malattia comprometta la possibilità di svolgere quella determinata attività oggetto del rapporto di lavoro, può comunque accadere che le residue capacità psico-fisiche possano consentire al lavoratore altre e diverse attività.
La Corte ha conseguentemente richiamato il proprio orientamento in materia di licenziamento disciplinare per svolgimento di altra attività durante l’assenza per malattia, ribadendo che grava sul datore di lavoro la prova che la malattia sia simulata ovvero che l’attività svolta nei giorni di assenza sia potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio.
Tale accertamento – prosegue la Corte – deve tenere conto di tutte le circostanze del caso concreto ed è devoluto ai giudici di merito.
La Cassazione ha, dunque, rilevato come la Corte territoriale si sia correttamente uniformata ai principi giurisprudenziali sopra richiamati, avendo – proprio sulla base delle circostanze concrete (ovverosia il carattere del tutto marginale delle attività svolte dalla dipendente durante la malattia) e del materiale probatorio fornito dalla Società (la relazione investigativa conseguente al pedinamento) – ritenuto non provata la simulazione della malattia da parte della dipendente.
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Con la sentenza n. 23852 del 5.09.2024, la Corte di Cassazione ha affrontato il tema del licenziamento per giusta causa del lavoratore che, durante il periodo di malattia, ha partecipato a un torneo di calcio già programmato, violando gli obblighi di diligenza, lealtà e correttezza, così pregiudicando la guarigione o il rientro al lavoro. Il lavoratore ricorreva contro il licenziamento, sostenendo che la partecipazione a un torneo di calcio durante il periodo di malattia non violasse i suoi obblighi contrattuali. La società contestava al dipendente di aver simulato la malattia per poter partecipare alla competizione, compromettendo così la guarigione e violando i principi di correttezza e buona fede. La Suprema Corte ha respinto il ricorso del lavoratore, affermando che “lo svolgimento di attività fisica durante il periodo di malattia <<…>> costituisce una violazione degli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà”. Inoltre, che: “<<…>> l’attività sportiva, per sua natura, può pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio”. Forse anche in ragione del comportamento particolarmente grave del lavoratore, la sentenza in parola rappresenta comunque una decisione significativa in una materia nella quale troppo spesso la giurisprudenza ha sin qui evidenziato una tendenza a tollerare comportamenti che fanno dubitare dell’ effettivo stato di malattia del lavoratore.
Il Tribunale del lavoro francese è stato chiamato a pronunciarsi sulla legittimità del diniego opposto ad alcuni lavoratori alla fruizione di diversi giorni di ferie maturati e non goduti a causa di prolungate assenze dal lavoro per malattia. Parimenti, era stata negata la relativa indennità sostitutiva per quei lavoratori il cui rapporto di lavoro era cessato. Tali pretese sono state avanzate entro quindici mesi dal termine del periodo di riferimento di un anno durante il quale il diritto alle ferie era sorto.
Il Giudice nazionale ha operato un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea per risolvere tre questioni, qui di seguito elencate:
– la diretta applicabilità nei rapporti tra privati dell’art. 7 della Direttiva 2003/88/CE in tema di organizzazione dell’orario di lavoro;
– quale sia il periodo ragionevole di riporto delle quattro settimane di ferie riconosciute da detta Direttiva, in presenza di un periodo di maturazione delle ferie stesse pari ad un anno;
– se sia rispettosa della disciplina europea l’applicazione di un periodo di riporto illimitato in assenza di una legislazione interna che disciplini tale riporto.
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 9 novembre 2023, causa C-271/22, ha risolto in termini positivi la prima questione pregiudiziale, partendo da un’analisi sistematica dell’art. 7 della Direttiva 2003/88/CE, che, sebbene in via di principio non sia direttamente invocabile in una controversia tra privati, precisa il diritto fondamentale a un periodo annuale di ferie retribuite.
Tale disposizione va letta in combinato disposto con l’art. 31, par. 2, della Carta dei diritti fondamentali, che prevede il diritto, per ogni lavoratore, a ferie annuali retribuite.
Conseguentemente, secondo la Corte, un lavoratore può far valere il diritto alle ferie annuali retribuite nei confronti del suo datore di lavoro, essendo irrilevante che quest’ultimo sia un’impresa privata.
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Con la recente sentenza n. 5288 del 20 febbraio 2023, la Corte di Cassazione ha statuito che, con riferimento al CCNL per i dipendenti del settore terziario (di seguito il “CCNL”), il periodo di conservazione del posto pari a 180 giorni, da calcolare in un anno solare decorrente dal primo episodio morboso, deve ritenersi riferito sia al comporto secco sia a quello per sommatoria.
La Corte d’Appello di Catanzaro accoglieva l’appello di un dipendente licenziato per superamento del periodo di comporto e, in parziale riforma della sentenza resa nel primo grado di giudizio, dichiarava illegittimo il recesso, condannando la società datrice di lavoro alla reintegrazione in servizio del dipendente e al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 18 Stat. Lav.
La Corte territoriale giungeva alla propria decisione statuendo che “in base al combinato disposto degli articoli 175 e 177 ccnl terziario […] se ad un periodo di malattia, nello stesso anno, segue un’interruzione, comincia a decorrere un nuovo periodo di comporto di 180 giorni”. La Corte d’Appello, dunque, avendo accertato che nel corso dell’anno solare il dipendente non avesse totalizzato 180 giorni consecutivi di malattia, riteneva che non potesse configurarsi il superamento del periodo di comporto posto a fondamento del recesso datoriale.
Avverso la sentenza resa dalla Corte d’Appello, la Società proponeva ricorso per cassazione, articolando due motivi di ricorso afferenti alla violazione e falsa applicazione dell’art. 175 del CCNL e deducendo che tale norma contemplasse un comporto c.d. “per sommatoria” – che, nel caso di specie, era da ritenersi superato dal dipendente – e non un comporto c.d. “secco” come statuito dalla Corte territoriale.
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 23155 del 2020, respingeva il ricorso promosso dalla Società, statuendo che “qualora all’infortunio succeda, come pacificamente avvenuto nel caso di specie, persino ove senza soluzione di continuità, un periodo di assenza per malattia, inizia a decorrere, dal momento dell’insorgenza della malattia, un distinto termine di 180 giorni solo alla cui scadenza può procedersi a licenziamento per superamento del periodo di comporto”.
La Società, ravvisando un errore di fatto nella pronuncia resa dagli Ermellini, ricorreva per la revocazione della relativa sentenza, rilevando che l’assunto su cui si fondava la pronuncia era erroneo. Gli atti processuali mostravano, infatti, che le assenze, in due distinti periodi, rispettivamente di 109 e 124 giorni, erano dovute esclusivamente a malattia e non anche ad infortunio come indicato dalla Suprema Corte.
La Corte di Cassazione, nell’accogliere il ricorso per revocazione promosso dalla Società, ha preliminarmente rilevato come l’interpretazione adottata dai giudici d’appello non fosse rispondente al tenore letterale dell’articolo 175 del CCNL, laddove la norma contrattuale prevede il diritto alla conservazione del posto “per un periodo massimo di 180 giorni in un anno solare”, senza prevedere alcun riferimento al carattere consecutivo ovvero interrotto delle assenze.
La Suprema Corte ha inoltre statuito che la soluzione proposta dalla Corte d’Appello fosse censurabile anche sulla scorta di un’interpretazione sistematica delle norme, non essendo stata valorizzata la differenza, che il CCNL invece pone, tra l’ipotesi di assenze causate da un unico fattore morboso e la diversa ipotesi in cui concorrono diversi fattori causativi dell’assenza (ossia malattia e infortunio) che rendono operanti due autonomi periodi di comporto.
Sulla scorta di quanto sopra, gli ermellini hanno pertanto precisato che non può trovare accoglimento la tesi secondo cui, in caso di interruzione della malattia, cominci a decorrere un nuovo periodo di comporto nello stesso anno.
Secondo i Giudici di legittimità, dunque, il termine di 180 giorni, calcolato a ritroso dall’ultimo episodio morboso nell’ambito dell’anno solare di 365 giorni, deve applicarsi anche al comporto per sommatoria e non solo al comporto secco.
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