La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 24492 del 1° ottobre 2019, ha chiarito la corretta portata e applicazione dell’articolo 5, comma 14, della Legge n. 638 del 12 settembre 1983. In particolare, la stessa ha affermato che il giustificato motivo di esonero del dipendente in stato di malattia dall’obbligo di reperibilità a visita domiciliare di controllo corrisponde ad ogni fatto che, alla stregua del giudizio medio e della comune esperienza, può rendere plausibile l’allontanamento del lavoratore dal proprio domicilio, senza però potersi ravvisare in qualsiasi motivo di convenienza od opportunità.

I fatti di causa

Nel caso di specie un dipendente, senza aver dato alcuna preventiva comunicazione al datore di lavoro, era risultato assente alla visita medica di controllo domiciliare effettuata dall’Inps. Il dipendente, in sede disciplinare e processuale, si era giustificato affermando che, in occasione della visita, aveva accompagnato il figlio di sette anni in ospedale per un ricovero ordinario.

Nei giudizi di merito sia il Tribunale che la Corte di Appello territorialmente competenti avevano accertato la legittimità della sanzione disciplinare della multa irrogata al dipendente dalla società sua datrice di lavoro.

In particolare, la Corte distrettuale, nel confermare la decisione di primo grado, aveva evidenziato che solo un ricovero urgente in orario corrispondente alla visita fiscale avrebbe potuto giustificare l’assenza del dipendente dal proprio domicilio durante le fasce di reperibilità, mentre il ricovero ordinario (o visita di controllo) non aveva alcuna caratteristica dell’urgenza.

In ogni caso, ad avviso della Corte d’Appello, la situazione di specie non avrebbe precluso la possibilità di una previa comunicazione dell’assenza al datore di lavoro.

Avverso la decisione di merito ricorreva in cassazione il dipendente.

L’orientamento della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha ritenuto corretta l’applicazione fatta dalla Corte d’Appello dell’art. 5, comma 4, della Legge 638/1983, secondo cui il giustificato motivo di esonero del dipendente in stato di malattia dall’obbligo di reperibilità a visita domiciliare di controllo non ricorre solo nelle ipotesi di forza maggiore. Detto motivo corrisponde ad ogni fatto che, alla stregua del giudizio medio e della comune esperienza, può rendere plausibile l’allontanamento del lavoratore dal proprio domicilio, senza potersi peraltro ravvisare in qualsiasi motivo di convenienza od opportunità. Il giustificato motivo di esonero deve, infatti, consistere in un’improvvisa e cogente situazione di necessità che renda indifferibile la presenza del lavoratore in luogo diverso dal proprio domicilio durante le fasce orarie di reperibilità.

Di conseguenza ai fini dell’accertamento della legittimità dell’assenza deve accertarsi la sussistenza del nesso di causalità tra il momento in cui si verifica la situazione d’urgenza e quello dell’allontanamento dal domicilio durante le fasce di reperibilità. Tale nesso, nel caso di specie, sarebbe sussistito al massimo durante l’orario notturno (quando il lavoratore aveva accompagnato il figlio al primo accesso al Pronto soccorso), ma non era ricorso al tempo della visita fiscale. Questa, infatti, era avvenuta in tarda mattinata, quando non era stata dimostrata dal lavoratore alcuna urgenza idonea a giustificare l’allontanamento dal domicilio durante le fasce di reperibilità nonché il mancato previo avviso al datore di lavoro.

La Corte di Cassazione ha così dichiarato inammissibile il ricorso del lavoratore, condannandolo alle spese di lite.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 17514 del 4 luglio 2018, ha ritenuto giustificato il licenziamento disciplinare intimato all’autista di pullman di un’impresa di noleggio privato che, durante un lungo periodo di assenza dal lavoro per infortunio in itinere, era stato scoperto mentre lavorava presso un parcheggio di autovetture. In pari data, il 4 luglio 2018, la Corte di Cassazione ha emesso un’altra ordinanza, la n. 17424, in cui ha invece affermato che è illegittimo il licenziamento comminato ad un dipendente inabile al lavoro per una gastroenterite, il quale, nel periodo di assenza, aveva svolto in proprio un’attività di tinteggiatura di esterni. Le predette conclusioni, apparentemente opposte, trovano in realtà il loro punto di incontro nel principio in base al quale lo svolgimento di altra attività lavorativa durante l’assenza dal lavoro per malattia non è automaticamente riconducibile ad un illecito disciplinare. Ciò in quanto è necessario verificare se tale attività risulti incompatibile con la condizione di morbilità o sia idonea ad impedire o ritardare la guarigione. Proprio alla luce di quanto sopra, la Corte, nella sentenza n. 17514, ha ritenuto che le azioni compiute dal lavoratore “apparivano ictu oculi incompatibili con la denuncia di infermità o comunque sicuramente idonei a ritardare se non a compromettere il recupero della forma fisica e delle energie necessarie”. Al contrario, con ordinanza n. 17424, la Corte ha accertato che “lo svolgimento dell’attività (extra) lavorativa durante la malattia non fosse incompatibile con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa, né determinasse un pregiudizio al normale recupero delle normali energie psico-fisiche”.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21667 del 19 settembre 2017, ha affermato che lo svolgimento da parte del dipendente malato di una attività lavorativa durante la malattia non sempre giustifica un licenziamento in tronco. I giudici di legittimità nel decidere in tal senso hanno richiamato quell’orientamento giurisprudenziale secondo cui l’espletamento di attività lavorativa in costanza di malattia costituisce illecito disciplinare allorquando (i) faccia presumere l’assenza della malattia stessa oppure (ii) pregiudichi o ritardi la guarigione ed il conseguente rientro in servizio. Con specifico riferimento al caso in esame la Cassazione ha chiarito che la condotta del dipendente malato – consistente nell’essersi recato con la propria autovettura presso l’esercizio commerciale del figlio per svolgervi attività operative, quali quelle relative allo spostamento di piccoli carichi nonché alla movimentazione di una saracinesca – non ha costituito di per sé violazione dei doveri di correttezza e buona fede cui lo stesso deve sottostare al fine di non ritardare la guarigione. Ciò in quanto l’attività extra lavorativa del dipendente malato era così modesta da poter essere posta in essere senza attentare alla integrità fisica e, dunque, senza poter procrastinare inutilmente i termini di guarigione, con conseguente illegittimità del recesso datoriale adottato nei suoi confronti.

La Corte di appello di Milano, con sentenza n. 890 del 6 aprile 2017, torna a pronunciarsi sulla durata massima del periodo di comporto qualora sia espressa in mesi ed il CCNL di settore non disciplini espressamente le modalità di conteggio. Nel caso di specie una lavoratrice impugnava il licenziamento intimatole sull’assunto che ai sensi del CCNL Confapi i 18 mesi di comporto dovevano essere calcolati sulla base dei giorni di calendario. I giudici di merito, richiamando precedenti giurisprudenziali, hanno, invece, chiarito che il sistema di calcolo deve essere unico e avere caratteristiche di omogeneità e uniformità. Ai predetti fini il divisore deve essere sempre 30, anche se le assenze siano cadute in mesi dell’anno di durata inferiore o superiore a 30”. Pertanto nel caso di specie i 18 mesi del periodo di comporto previsti dal CCNL di settore equivalgono sempre e comunque a 540 giorni.