Con la sentenza n. 7190 del 18 marzo 2024, la Corte di Cassazione ha affrontato il tema della validità delle dimissioni rassegnate dal lavoratore sotto minaccia di licenziamento da parte del datore di lavoro.
Il dipendente agiva in giudizio per ottenere la nullità e, in subordine, l’annullabilità delle proprie dimissioni e l’accertamento che il rapporto di lavoro era proseguito senza soluzione di continuità, con diritto alle retribuzioni medio tempore maturate, in quanto era stato costretto a presentare una lettera di dimissioni compilata sotto dettatura di due responsabili dell’azienda, che lo minacciavano di conseguenze pregiudizievoli. La Suprema Corte ha affermato che qualora venga accertata l’inesistenza del diritto del datore di lavoro ad irrogare il licenziamento per insussistenza dell’inadempimento addebitato al lavoratore, le dimissioni rassegnate dal dipendente sotto minaccia di licenziamento sono annullabili per violenza morale. In tale ipotesi, infatti, il recesso del lavoratore trova la sua causa in una condotta intimidatoria, oggettivamente ingiusta, tale da costituire coercizione psicologica e da viziare il consenso.
Costituisce mobbing la condotta del datore di lavoro, o delle persone a lui preposte, consistente nel compimento di una pluralità di atti persecutori, giuridici o meramente materiali ed eventualmente anche leciti, finalizzati all’emarginazione del dipendente. Tale illecito configura, altresì, una violazione degli obblighi di sicurezza posti a carico dello stesso datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 cod. civ.
Tale principio è stato confermato dalla Corte di Cassazione con ordinanza n. 30583 del 28 ottobre 2021 emessa a definizione del giudizio introdotto, in primo grado dinanzi al Tribunale di Massa, da una lavoratrice vittima di una serie di comportamenti mobbizzanti tenuti da alcune sue colleghe e, in particolare, dalla superiore gerarchica e dalla coordinatrice di zona.
Nel caso di specie i giudici di merito accertavano, sulla base delle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio medico legale, la sussistenza della condotta mobbizzante rappresentata da una serie di azioni offensive e insolenti, nonché da comportamenti che, seppure astrattamente rientranti tra le facoltà datoriali, erano stati attuati con modalità in concreto abusive, poiché caratterizzati da atteggiamenti sgarbati ed indebitamente plateali nonché, per quanto concerne la coordinatrice di zona, per il fatto di aver conosciuto e tollerato la situazione.
Dall’attività istruttoria svolta emergeva, altresì, la sussistenza del nesso causale tra le condotte illecite e il danno psichico subito dalla lavoratrice e, pertanto, i giudici di merito condannavano, da un lato, la società datrice a titolo di responsabilità contrattuale ex art. 2087 cod. civ. e, dall’altro, le due colleghe a titolo di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 cod. civ, a risarcire i danni di natura non patrimoniale cagionati alla lavoratrice.
Avverso la statuizione della Corte di Appello le parti soccombenti (ovverosia la società e le due colleghe) proponevano ricorso in Cassazione adducendo quattro motivi di impugnazione, tra cui, la violazione e falsa applicazione delle norme di diritto in punto di mobbing, deducendo una inadeguata valutazione delle risultanze istruttorie e la totale assenza di responsabilità della società stante la mancanza dell’elemento soggettivo del mobbing.
Continua a leggere la versione integrale pubblicata su Norme & Tributi Plus Diritto de Il Sole 24 Ore.
Con sentenza n. 12632/2021 del 12 maggio 2021, la Corte di Cassazione ha affrontato nuovamente la questione del trasferimento del dipendente per incompatibilità ambientale sul luogo di lavoro, escludendo che lo stesso integri la fattispecie di mobbing qualora l’intento dello spostamento non sia quello di perseguire il dipendente ma di ripristinare serenità sul luogo di lavoro. La pronuncia tra origine dal giudizio promosso da un comandante dei vigili del Comune di Ancona, che aveva ricorso in giudizio per ottenere il risarcimento dei danni subiti a seguito delle condotte persecutorie poste in essere dal Comune che, da ultimo, aveva trasferito il dirigente presso un diverso ufficio. La Corte di Appello di Ancona, nel confermare la decisione di primo grado, aveva ritenuto infondate le richieste del ricorrente, in particolare, con riferimento al trasferimento rilevando che questo fosse intervenuto “in un contesto di difficoltà nei rapporti interpersonali che acuivano tensioni e problematiche tanto da costituire certamente una condizione di incompatibilità ambientale“. A fronte di tale decisione il ricorrente proponeva ricorso in Cassazione. La Corte, con ordinanza n. 26684/2017, aveva accolto parzialmente il ricorso rinviando il giudizio alla Corte di Appello di Ancona la quale, in considerazione delle rilevate carenze motivazionali, avrebbe dovuto procedere a un nuovo esame della vicenda attenendosi ai principi di diritto richiamati dalla Cassazione secondo cui “l’elemento qualificante della condotta mobbizzante va ricercato non nella legittimità o illegittimità dei singoli atti bensì nell’intento persecutorio che li unifica, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria e che spetta al giudice del merito accertare o escludere, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto”.
Continua a leggere la versione integrale pubblicata su Il Quotidiano del Lavoro de Il Sole 24 Ore.
Con ordinanza n. 10043 del 10 aprile 2019, la Corte di cassazione è tornata a pronunciarsi sui requisiti richiesti perché una serie di comportamenti posti in essere dal datore di lavoro possano integrare gli estremi del mobbing, nella specie denunciato da un dirigente che aveva dichiarato di essere stato vittima di una serie di comportamenti presentati come pregiudizievoli della sua posizione (nello specifico: immotivato cambio di stanza, tardivo o omesso riscontro alle sue richieste chiarimenti organizzativi, mancanza di direttive).
Nei giudizi di merito, il dirigente aveva visto prima accolte e, in sede di appello, respinte, le proprie domande di accertamento della sussistenza degli estremi del mobbing e il conseguente diritto al risarcimento per i danni non patrimoniali allegati.
La Corte d’appello aveva in particolare ritenuto non raggiunta la prova sulla sussistenza di un’univoca strategia mobbizzante ai danni del dirigente, con ciò respingendo la relativa richiesta risarcitoria. Nondimeno, la Corte d’appello aveva comunque riconosciuto il diritto del dirigente a vedersi risarcito il danno a titolo di responsabilità ex articolo 2087 del Codice civile, con riferimento ad un unico episodio nel quale il dirigente era stato destinatario di affermazioni ingiuriose da parte del direttore generale della società, potendo anche offrire in giudizio elementi inconfutabili circa l’ingiuria subita, un pregiudizio alla salute conseguitone, ed il nesso causale tra la condotta e il pregiudizio (confermato, peraltro, dalla Ctu medico legale acquisita agli atti del processo).
Avverso la sentenza di appello, il dirigente proponeva ricorso per cassazione, denunciando che i giudici territoriali avevano omesso di esaminare taluni fatti decisivi della controversia.
Respingendo il ricorso del dirigente, la Cassazione ha avuto modo di sottolineare che l’accertamento complessivo dei fatti era risultato chiaro e convincente, posto che la Corte d’appello aveva motivato la propria decisione in modo coerente ed esente da vizi logico argomentativi. Al riguardo, nessun rilievo riconosceva la Suprema Corte al fatto che i giudici territoriali non avessero considerato ai fini della qualificazione della fattispecie i denunciati «rapporti tesi e conflittuali fra le parti», in quanto inidonei a dimostrare un intento persecutorio nei confronti del dirigente.
Si segnala che il principio espresso dalla Cassazione si pone in parziale contrasto con altra recente pronuncia che aveva invece riconosciuto come le critiche provenienti dal datore di lavoro potessero ben qualificare gli estremi della condotta mobbizzante (Corte di Cassazione n. 23923/2009).
Ciò posto, dall’esame dell’orientamento generale e solitamente condiviso della Corte di cassazione può in ogni caso dirsi pacifico che l’accertamento del mobbing presuppone non tanto un singolo atto lesivo o di condotte multiple ma tra loro non correlate, bensì la reiterazione di una pluralità di atteggiamenti e fatti, anche se non connotati da rilevanza penale, convergenti sia nell’esprimere l’ostilità del soggetto attivo verso la vittima, sia nell’efficace capacità di mortificare e isolare il dipendente dall’ambiente di lavoro. Circostanze che, nel caso di specie, non erano state concretamente allegate e provate.
Clicca qui per continuare a leggere la nota a sentenza pubblicata su Il Quotidiano del Lavoro de Il Sole 24 Ore.