In mancanza di una previsione di durata minima del periodo di prova contrattuale, il datore di lavoro ha la facoltà di licenziare un dirigente per mancato superamento della prova anche dopo sole poche settimane, nonostante le parti avessero concordato una durata di sei mesi. Questo principio è stato sancito dal giudice del lavoro del Tribunale di Arezzo nella sentenza del 7 ottobre 2024.

Nel caso in esame, un dirigente era stato assunto con un contratto a tempo indeterminato, per gestire un’area di business, con un periodo di prova di sei mesi. Tuttavia, dopo sole sette settimane di lavoro, la società ha proceduto al licenziamento, sostenendo di aver riscontrato una mancanza di compatibilità tra le qualità professionali del dirigente e le esigenze aziendali specifiche.

Il dirigente ha contestato la legittimità del licenziamento, argomentando che la ridotta durata del periodo di prova non fosse sufficiente per una valutazione adeguata delle sue competenze. Ha, inoltre, evidenziato che, considerando il tempo trascorso, non era possibile effettuare un’analisi completa delle sue capacità e del suo potenziale contributo all’azienda. Dall’altro lato, la società ha motivato la propria decisione facendo riferimento alle divergenze avute con la direttrice commerciale e ad un approccio commerciale del dirigente ritenuto “poco incisivo”.

Il giudice ha ritenuto ragionevole la decisione della società, affermando che il tempo trascorso fosse sufficiente per una valutazione delle qualità professionali del dirigente. Inoltre, ha chiarito che spettava al dirigente dimostrare che le poche settimane di lavoro non fossero adeguate al fine di ritenersi esperito il periodo di prova, evidenziando come la responsabilità di provare l’inadeguatezza del tempo spetti al lavoratore stesso.

La sentenza in esame mette in luce come la ridotta durata del periodo di prova, non costituisce, di per sé, un motivo valido per contestare la legittimità del licenziamento. Infatti, il lavoratore deve fornire prove concrete a sostegno della propria posizione, e la mera durata del periodo di prova non è sufficiente a dimostrare la pretestuosità del licenziamento.

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La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 13613/2020, ha affermato che il datore di lavoro è tenuto a pagare al dirigente le ferie non godute a meno che non prova di averlo messo nelle condizioni di poterne fruire, avvisandolo per tempo e anticipandogli che in caso di mancato godimento le avrebbe perdute.

I fatti di causa

Nel caso di specie, al momento di cessazione del rapporto di lavoro, l’AUSL – datore di lavoro non aveva riconosciuto a un dirigente medico – direttore di struttura complessa – l’equivalente economico delle ferie annuali non godute. Il dirigente adiva così l’autorità giudiziaria per la tutela dei suoi diritti.

I giudici aditi sottolineavano che l’AUSL – datore di lavoro – non aveva dimostrato (come avrebbe dovuto fare in virtù del carattere imperativo del diritto alle ferie annuali retribuite) che il dirigente medico era stato realmente messo nelle condizioni di fruire delle ferie annuali.

A dire della corte territoriale, il mancato versamento dell’indennità per le ferie annuali non godute al momento della cessazione del rapporto di lavoro si sarebbe posto in contrato con

  • l’art. 7 “Ferie annuali” della direttiva 2003/88 e
  • l’art. 36 della Costituzione.

L’AUSL soccombente depositava così ricorso in Cassazione avverso la sentenza della corte territoriale, affidandosi a tre motivi.

La decisione della Corte di Cassazione

Due dei tre motivi di ricorso – ritenuti infondati – incentrati sul principio di autodeterminazione delle ferie da parte del dirigente sono stati trattati congiuntamente dalla Corte in ragione della loro intima connessione.

A norma dell’art. 21, co. 8, del CCNL di settore “le ferie sono un diritto irrinunciabile e non sono monetizzabili, salvo quanto previsto nel comma 13. Esse sono fruite, anche frazionatamente, nel corso di ciascun anno solare in periodi programmati dallo stesso dirigente nel rispetto dell’assetto organizzativo dell’azienda o ente; in relazione alle esigenze connesse all’incarico affidato alla sua responsabilità, al dirigente è consentito, di norma, il godimento di almeno 15 giorni consecutivi di ferie nel periodo da 1  giugno al 30 settembre”, trattandosi, a ben vedere, di una forma di autodeterminazione non assoluta ma relativa.

In altre parole, secondo la Corte di Cassazione, l’AUSL avrebbe dovuto sollecitare la fruizione delle ferie da parte dell’interessato tanto più che il dirigente nel decidere di fruirne o meno avrebbe dovuto tener conto, a norme della disposizione citata, dell’assetto dell’azienda in relazione alle esigenze connesse all’incarico affidato alla sua responsabilità.

A fronte di tale fattispecie concreta, la Cassazione ha confermato l’irrinunciabilità del diritto alle ferie, garantito dall’art. 36 Cost. e dall’art. 7 della direttiva 2003/88/CE, richiamando a supporto di tale lettura, l’interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia Europea nella causa C-619/16 in cui si ribadiva che “il diritto di ogni lavoratore alle ferie annuali retribuitedeve essere “considerato un principio particolarmente importante del diritto sociale dell’Unione, al quale non si può derogare (…).

In sostanza, a parere della Corte di Cassazione, il datore di lavoro è tenuto “ad assicurarsi concretamente e in piene trasparenza che il lavorare sia posto effettivamente in grado di fruire delle ferie annuali retribuite, invitandolo, se necessario formalmente, a farlo e nel contempo informandolo – in modo accurato e in tempo utile a garantire che tali ferie siano ancora idonee ad apportare all’interessato il riposo e il relax cui esse sono volte a contribuire – del fatto che, se egli non ne fruisce, tali ferie andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato o, ancora, alla cessazione del rapporto di lavoro se quest’ultima si verifica nel corso di un simile periodo”. In merito a ciò l’onere della prova grava sul datore di lavoro.

E nel caso di specie, secondo la Corte di Cassazione, la AUSL non è stata in grado di dimostrare di aver esercitato tutta la diligenza necessaria affinché il dirigente fosse effettivamente in condizione di fruire delle ferie annuali retribuite alle quali aveva diritto. Pertanto, confermando quanto edotto dai giudici di merito, la stessa è giunta alla conclusione che il mancato versamento al dirigente sanitario della indennità per le ferie annuali non fruite all’atto della cessazione del rapporto di lavoro era in contrato con gli artt. 36 Cost. e 7 della Direttiva 2003/88.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 22367/2019, ha ribadito un suo consolidato orientamento secondo cui, seppur la scelta della tipologia di contratto collettivo nazionale applicabile spetta al datore di lavoro, quest’ultimo deve manifestare e dimostrare la propria decisione in maniera inequivocabile.

I fatti di causa

La fattispecie in esame ha ad oggetto il licenziamento intimato ad un lavoratore al termine di un periodo di malattia durato 237 giorni continuativi, motivato dal superamento del periodo di comporto.
Sia il Giudice di primo grado che la Corte d’Appello territorialmente competente avevano avevo convenuto che al rapporto di lavoro di che trattasi non poteva applicarsi il contratto collettivo del settore terziario (contratto collettivo vigente all’atto dell’assunzione), che prevedeva un periodo di comporto pari a 180 giorni. Veniva ritenuto, invece, applicabile il contratto collettivo Confail Confimea, che statuiva un periodo di comporto di 365 giorni. Secondo i giudici di merito la società non aveva dimostrato la propria adesione a Confcommercio né potevano considerarsi sufficienti a provare detta affiliazione i riferimenti riportati nella lettera di assunzione e nelle buste paga, non avendo la stessa prodotto il CCNL del terziario. Inoltre, i giudici di merito – considerato che il contratto collettivo di riferimento ai fini dell’individuazione del periodo di comporto è quello vigente all’epoca del licenziamento – ritenevano applicabile al caso di specie il CCNL invocato dal lavoratore. Orbene il licenziamento veniva dichiarato illegittimo e la società condannata agli effetti reintegratori e risarcitori di cui all’art. 18 L. 300/70.

Avverso la decisione della Corte di Appello, la società ricorreva in cassazione, affidandosi a due motivi.

La decisione della Corte di Cassazione

La società ha eccepito:

  • con il primo motivo, che i giudici di merito non avevano recepito il consolidato principio secondo cui è il lavoratore a dover dimostrare l’esistenza e l’applicabilità del contratto collettivo rivendicato e
  • con il secondo motivo, che gli stessi non avevano considerato l’ammissione esplicita del lavoratore circa l’applicabilità al rapporto di lavoro del CCNL del terziario.

La Corte di Cassazione ha dichiarato entrambi i motivi infondati.

Innanzitutto, la Corte di Cassazione ha rimarcato il principio in base al quale i contratti collettivi di lavoro che non sono stati dichiarati efficaci “erga omnesai sensi della legge 14 luglio 1959 n. 741, si applicano solamente ai rapporti individuali intercorrenti tra soggetti iscritti alle associazioni stipulanti ovvero tra soggetti che abbiano fatto espressa adesione ai patti collettivi e li abbiano implicitamente recepiti attraverso comportamenti concludenti, desumibili da una costante e prolungata applicazione delle relative clausole ai singoli rapporti (cfr. Cass. 10632/2009).

In riferimento a tale principio, inoltre, la Corte di Cassazione ha osservato che, se una delle parti fa riferimento ad una clausola di un determinato Ccnl non efficace “erga omnes”, basandosi sul rilievo che entrambe si sono sempre ispirate ad esso per disciplinare il loro rapporto, è il giudice di merito ad avere il compito di valutare in concreto il comportamento posto in essere dal datore di lavoro e dal lavoratore (cfr. Cass. 10213/2000).

Inoltre, la Corte di Cassazione ha ribadito che è il datore di lavoro, in caso di impugnazione di un licenziamento, a dover provare, ai sensi dell’art. 5 L. 604/1966, i fatti costitutivi del legittimo esercizio del potere di recesso i quali, nel caso di specie, ricomprendono anche l’intervenuto superamento del periodo di comporto nei sensi definiti dalla contrattazione collettiva di settore applicabile.

In considerazione di tutto quanto sopra, i giudici di legittimità nel confermare la decisione di merito hanno rimarcato che la società non aveva dato dimostrazione della propria adesione a Confcommercio né tantomeno la stessa era risultata consorziata e/o iscritta a Federdistribuzione – circostanze, queste, che avrebbero potuto dimostrare l’applicabilità del CCNL del terziario.

Sempre secondo la Cassazione, i giudici di merito hanno anche correttamente ritenuto inidoneo a dimostrare l’applicabilità al caso di specie del CCNL del terziario il suo richiamo nel contratto di assunzione o nelle buste paga recanti i riferimenti di istituti propri di tale contratto. Ciò in quanto parte datoriale non aveva mai prodotto alcuna contrattazione specifica. Pertanto, al rapporto di lavoro di cui è causa deve ritenersi applicabile il CCNL vigente all’epoca del licenziamento, ossia quello Confail/Confimea, prodotto dal lavoratore e più coerente con l’oggetto sociale dell’impresa, come desumibile dalla visura camerale agli atti. La Corte ha così rigettato il ricorso della società.