La quantità di lavoro non è sinonimo di qualità del lavoro. Pertanto, se si tratta di comparare un lavoratore a part-time con uno a full-time in relazione all’entità di lavoro svolto (quantità), è corretto riproporzionare la retribuzione in base alle ore lavorate (cosicché il lavoratore in part-time riceva, in proporzione alle ore lavorate, la stessa paga di quello occupato a tempo pieno). Ma se si tratta di comparare gli stessi lavoratori, uno a part-time l’altro a full-time, in relazione al servizio prestato (qualità), allora non è corretto, ed è anzi una discriminazione sul lavoro, riproporzionare l’esperienza acquisita (professionalità) in base alle ore lavorate. Lo stabilisce la Corte di Cassazione nella sentenza n. 4313 del 19 febbraio 2024, aggiungendo che penalizzare il part-time è discriminare le donne, che più lo richiedono.
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Con la sentenza n. 4350 del 19 febbraio 2024, la Corte di Cassazione ha affrontato il tema della trasformazione del contratto di lavoro da tempo parziale a tempo pieno in caso di svolgimento costante di lavoro supplementare e straordinario. Il dipendente agiva in giudizio per ottenere l’accertamento della trasformazione del proprio rapporto di lavoro in full-time a fronte della prolungata richiesta dell’azienda di svolgere ore di lavoro supplementare e straordinario. La Sentenza, nel confermare la pronuncia resa dalla Corte d’Appello di Cagliari, ha affermato che qualora nell’ambito di un rapporto part-time il lavoratore svolga lavoro supplementare e straordinario in maniera regolare e continuativa, nonostante la difforme, iniziale, manifestazione di volontà delle parti, si verifica una novazione delle originarie previsioni contrattuali e il rapporto di lavoro a tempo parziale si trasforma, per fatti concludenti, in un rapporto a tempo pieno. Di conseguenza, al rapporto non si applicherà più la disciplina, anche sanzionatoria, prevista per il contratto part-time, in quanto tale trasformazione opera non per fonte legale ma per volontà consensuale delle parti, le quali divengono quindi destinatarie della disciplina prevista per i contratti a tempo pieno.
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 21562 depositata il 3 settembre 2018 (decisione in camera di consiglio del 13 marzo 2018), si è occupata del tema della pausa (nel caso di specie pausa pranzo) nello svolgimento dell’attività lavorativa, con particolare attenzione al caso di un lavoratore in regime di tempo parziale.
Il Fatto
Un dipendente, assunto con contratto di lavoro a tempo parziale, ricorreva dinanzi al Giudice del Lavoro per vedersi accertato il suo diritto a percepire il compenso per le ore lavorate in esubero rispetto all’orario di lavoro concordato contrattualmente (corrispondente a 30 ore, prendendo a parametro l’orario di 37,5 ore di lavoro settimanale), computandovi, inter alia, anche la pausa pranzo di 30 minuti, unilateralmente imposta dal datore di lavoro in un tempo successivo all’inizio del rapporto. Il Tribunale adito rigettava il ricorso del lavoratore. Avverso la decisione di primo grado il lavoratore proponeva appello. La Corte distrettuale riconosceva sì il diritto del lavoratore alle differenze retributive per le ore lavorate in esubero ma escludeva dal computo dell’orario di lavoro la pausa pranzo di 30 minuti. La Corte, nel confermare la decisione di primo grado con riguardo poi alla richiesta risarcitoria connessa alla tardiva comunicazione dei turni di servizio, rilevava che il lavoratore non aveva allegato, contrariamente a quanto sosteneva nel proprio scritto difensivo, le fonti normative e contrattuali da cui si evinceva l’esistenza dell’obbligo di una tempestiva comunicazione dei turni. Come se non bastasse, secondo la Corte d’Appello, il lavoratore aveva omesso di allegare fatti specifici in cui ravvisare l’asserita violazione dei principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto né tanto meno aveva individuato specifiche ricadute patrimoniali e non patrimoniale che, incidendo sulla sua vita lavorativa e personale, avrebbero consentito di ravvisare il danno di cui aveva richiesto il risarcimento. Il lavoratore adiva così la Corte di Cassazione che rigettava il ricorso.
Nozione di orario di lavoro e pause
Per inquadrare la fattispecie di cui si è occupata la Suprema Corte, bisogna partire dalla nozione di orario di lavoro e delinearne la disciplina che, nel corso delle ultime decadi, è stata oggetto di modifiche e rivisitazioni. Ad oggi è il D.Lgs. 66/2003, con il recepimento delle due Direttive comunitarie (i.e. 93/104/CE e 2000/34/CE), a dettare una regolamentazione quadro in materia di orario di lavoro. Partendo dal disposto legislativo, si può definire orario di lavoro “qualsiasi periodo in cui il lavoratore è al lavoro e a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio delle sue attività e funzioni”. Pertanto, l’obbligo retributivo non sussiste solo qualora il datore di lavoro dimostri che il dipendente è libero di autodeterminarsi ovvero non è assoggettato al potere gerarchico nell’arco temporale considerato. In relazione alle cosiddette pause, quando ne sia prevista una nello svolgimento dell’attività lavorativa, in assenza di una espressa previsione legislativa (i.e. la pausa per i lavoratori che svolgono la prestazione lavorativa dinnanzi a videoterminali) o contrattuale che consideri tale pausa come parte dell’orario di lavoro, è onere del lavoratore dimostrare che la pausa sia, in qualche modo, connessa o collegata alla prestazione lavorativa, eterodiretta e non sia, dunque, lasciata alla sua libera disponibilità di determinazione.
La decisione della Cassazione
Venendo alla pronuncia in commento, il ricorso in cassazione del lavoratore constatava sostanzialmente di due doglianze principali: (a) la prima relativa alla necessità di ritenere i periodi di pausa pranzo rientranti nell’ambito dell’orario di lavoro e (b) la seconda relativa al comportamento del datore di lavoro che in costanza di rapporto, aveva imposto una pausa pranzo di 30 minuti.
a) Pausa pranzo e giornata lavorativa
Per quanto concerne la prima doglianza, la Suprema Corte di Cassazione, richiamando un orientamento ormai consolidato (da ultimo vd. Cass. 13466/2017), ha ribadito il principio di diritto secondo cui nella nozione di orario di lavoro rientra ‹‹l’arco temporale comunque trascorso dal lavoratore all’interno dell’azienda nell’espletamento di attività prodromiche ed accessorie allo svolgimento, in senso stretto, delle mansioni affidategli (…) sicché per restare esente dall’obbligo retributivo il datore di lavoro deve provare che il lavoratore per lo svolgimento di tali attività connesse allo svolgimento della prestazione sia libero di autodeterminarsi ovvero non sia assoggettato al suo potere gerarchico››. La stessa Corte di Cassazione ha poi evidenziato che ‹‹in difetto di una previsione di legge o di contratto che ricomprenda tale tempo da dedicare alla pausa nell’orario di lavoro (…) è onere del lavoratore allegare e dimostrare che il tempo della pausa è connesso o collegato alla prestazione, è etero diretto, e non è lasciato, per la sua durata, nella disponibilità autonoma del lavoratore››. I giudici della Corte di Cassazione hanno sottolineato come nel caso loro sottoposto non vi era alcuna disposizione legislativa o contrattuale che permetteva di ritenere parte integrante dell’orario di lavoro (e quindi da retribuire) la pausa pranzo. Allo stesso modo, hanno osservato come il lavoratore non avesse provato la sussistenza di una relazione tra l’attività lavorativa svolta e il periodo di pausa nell’arco della giornata lavorativa. Di conseguenza, i giudici di legittimità hanno ritenuto insussistente il diritto del lavoratore alle rivendicate differenze retributive relativamente alle pause pranzo.
b) Imposizione unilaterale del datore di una pausa
Per quanto riguarda la seconda doglianza, la Corte di Cassazione ha ritenuto legittima la modifica unilaterale dell’orario di lavoro disposta dal datore di lavoro, con l’introduzione di una pausa pranzo di 30 minuti. I giudici di legittimità hanno, infatti, sottolineato che ‹‹è evidentemente consentito al datore di lavoro, in relazione a sue specifiche esigenze, organizzare l’attività in turni di servizio, ciò nonostante, pur in assenza di disposizioni specifiche di legge o di contratto, questi devono essere portati a conoscenza dei lavoratori con un ragionevole anticipo così da consentire loro una programmazione del tempo di vita…La buona fede nell’esecuzione del contratto si sostanzia, tra l’altro, in un generale obbligo di solidarietà che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra (…). La verifica in concreto della violazione di tali doveri di correttezza è rimessa all’apprezzamento del giudice di merito che vi provvede sulla base delle allegazioni delle parti››. Secondo la Suprema Corte, dunque, non può ritenersi assimilabile alla modifica da full-time a part-time, la mera introduzione di una pausa o l’organizzazione in turni della prestazione lavorativa.
Conclusioni
In conclusione, stando a quanto espresso dalla Corte di Cassazione nella sentenza in commento, il tempo pausa – ferme le eccezioni previste dalla legge o dai contratti e la possibilità per il lavoratore interessato di provare la causalità tra lo stesso e svolgimento della prestazione lavorativa – non rientra nell’orario di lavoro e, pertanto, non deve essere retribuito. Peraltro, sempre secondo il percorso seguito dalla Corte, una pausa può essere imposta dal datore di lavoro, in coerenza con l’organizzazione aziendale e con l’adempimento secondo correttezza e buona fede delle obbligazioni contrattuali, senza il consenso del lavoratore, risultando sufficiente che ci sia stata adeguata informazione.